Francia, vigilia del Mondiale di calcio femminile 2019. È dal 1991, cioè dalla sua prima edizione, che l’Italia non partecipa e l’atmosfera somiglia più una festa che a una resa dei conti. Fino a questo momento, un’intera generazione di calciatrici italiane non ha mai provato cosa significa qualificarsi e giocare contro le squadre più forti del mondo. Milena Bertolini, allenatrice della Nazionale dal 2017, ripete spesso durante il Mondiale che la pressione potrebbe essere il nemico principale delle prestazioni delle sue giocatrici, perché manca l’abitudine a un certo tipo di attenzione, soprattutto mediatica. In uno speciale dal titolo Sorelle d’Italia. Il film l'allenatrice commenta: «Dico alle ragazze che devono continuare a fare quello che hanno fatto prima di arrivare a questo punto».
Il prima è molto semplice da incorniciare: un passato in cui dalla nostra Nazionale non ci aspetta granché, in cui il calcio femminile è uno sport dilettantistico giocato con le stesse regole di quell’altro ma che porta a risultati completamente differenti. Nel prima, il professionismo nel calcio femminile non esiste, come non esistono le squadre maschili che investono nella divisione femminile.
Nell’estate del 2019 diventa invece tutto possibile – lo canta pure Tormento in una rivisitazione di Acqua su Marte, che diventa la canzone-simbolo della nostra esperienza in quel Mondiale – e in poche settimane quello che sembra uno spettacolo acerbo e poco accattivante si prende la scena, e con intelligenza non l’abbandona più, facendo leva sul pregiudizio incrinato dai quarti di finale raggiunti, sull’impresa che affascina.
Anche la prima partita della Nazionale ai Mondiali 2019 è uno specchio, perché l’Australia è una squadra da quarti di finale: li raggiunge ai Mondiali del 2015, alle Olimpiadi del 2016, e la sua stella più grande, Sam Kerr, segna, implacabile. Va tutto come deve andare: Barbara Bonansea segna in fuorigioco, Sam Kerr capitalizza un rigore ribattuto da Laura Giuliani. L’Italia, la sfortuna, l’ingenuità paiono scrivere la storia in un modo conosciuto, finché non si arriva al secondo tempo, l’Italia si scuote e dimostra un valore in campo, nel gioco come nell’attitudine, che nessuno si aspetta, eccetto le interessate.
Il gol decisivo di Barbara Bonansea, che ci regala una vittoria indimenticabile.
Il professionismo nel calcio femminile italiano nasce ufficialmente 3 anni e 21 giorni dopo l’inizio dell’avventura mondiale della Nazionale in Francia contro l’Australia, dopo un iter di 2 anni circa e 41 dopo la legge n.91 del 1981, che inseriva in un contesto normativo i cardini del professionismo sportivo, rimandando alle singole Federazioni decidere cosa è professionismo e, per differenza, cosa è dilettantismo. Proprio aver lasciato questo discrimine alle federazioni è probabilmente ciò che ha prodotto quel ritardo incolmabile per tutti gli sport e una demarcazione fra dentro e fuori, tra il calcio maschile e il calcio femminile, tra lavoro e passione, quindi tra il prima e il dopo.
Nel 2019 le calciatrici della Nazionale gridano un risultato eccezionale, dopo qualche anno di immersione in un cambiamento radicale che, seppur non ancora formale, è sostanziale: solo constatando quotidianamente cosa significa passare da un contesto di allenamento dilettantistico a uno, almeno nella pratica, già professionistico si può avere la contezza pratica e operativa di come può crescere un movimento, di come si arriva a giocarsi il Mondiale, del perché quel 2019 sorprende tutti eccetto che le calciatrici non professioniste in Francia.
Con pochi anni di investimento, e solo in certi contesti e per certe squadre, le calciatrici della Nazionale riescono a fare un esercizio pratico di immaginazione: arrivano all’impresa senza formalismi, senza investimenti strutturali, e vengono prese sul serio dai media, un mondo di comunicazione dedica loro l’attenzione che meritano, come se fossero nate lì, in quell’estate, e non ci fossero state altre grandi atlete prima.
Il calcio femminile italiano, per qualche settimana, assaggia il futuro: non è più messo in discussione, le partite sono definite piacevoli, si arriva anche a scrivere che non manca l’agonismo e che in fondo, tutto sommato, questo calcio femminile non è poi così male.
Un’intera generazione di calciatrici riconosce quel Mondiale del 2019 come una sorta di spartiacque nelle loro carriere, un momento ineguagliabile, che la Divisione Calcio Femminile della FIGC porta a esempio non tanto per quello che sintetizza fin lì, ma per quello che può succedere successivamente. E che infatti di lì a poco inizia ad accadere, come una biglia che prende tutto il resto a ruota: il campionato 2019/2020 è il primo che viene trasmesso per intero da un servizio TV su abbonamento.
La generazione che accompagna il calcio femminile all’estate del 2022 è particolare: atlete che hanno iniziato con molto poco e mosse solo dalla passione, esattamente come quelle che le hanno precedute – “passione” non è una parola vuota, anzi: vuol dire studiare all’Università, senza rinunciare a giocare, non essere certe che ne valga la pena, ma immaginare una possibilità – e che hanno conosciuto l’impegno, poi la svolta, infine una nuova nascita.
Lo scorso 12 maggio al programma TV Le Iene, Sara Gama riassume in poche frasi cosa significa il professionismo per il calcio femminile in Italia. Parte dal 2015, anno in cui lei gioca in Francia e in Italia la FIGC emana la delibera che permette alle squadre maschili di acquisire il titolo sportivo di società del calcio femminile.
Alcune calciatrici di questa generazione hanno tastato il terreno del professionismo in Francia, in Spagna o in Germania. Oltre a Sara Gama, c'è anche Elena Linari – l’unica calciatrice professionista nella spedizione italiana del 2019 – Alia Guagni o Katja Schroffenegger. Solo l’estate scorsa Aurora Galli diventa una calciatrice dell’Everton femminile, la prima italiana ad approdare in Women’s Super League, lasciando la Juventus proprio per iniziare la sua carriera di calciatrice professionistica.
Dal 2019, il processo di affermazione del professionismo accelera, il cambio di status diventa una richiesta, una pretesa meritata, una formalità che mette le basi per oneri, per diritti, per la crescita del settore giovanile, per ringraziare il passato e affrancare il futuro: a metà maggio 2022, durante il convegno Il nostro domani ora dedicato allo sviluppo del calcio femminile, Ludovica Mantovani, Presidentessa della Divisione Calcio Femminile FIGC, dichiara che «il percorso del professionismo è iniziato con l'obbligo di istituire un settore giovanile femminile per tutti i club professionistici e si è concluso con la delibera del Consiglio Federale del 2020 che ha ufficializzato l'istituzione del primo campionato professionistico di Serie A», quello del 2022/2023, e prosegue: «Dico sempre che le ragazze del 2019 ce l'hanno fatta da sole, mentre le future generazioni come quella Under 19 che disputerà l'Europeo provengono dai centri federali e sono cresciute con la professionalità che hanno messo i club dal punto di vista degli staff e delle strutture».
Il professionismo, infatti, si lega a questioni pratiche: riguarda diritti da esercitare per le calciatrici (maternità, assistenza, previdenza), lo stabilire la fine della passione non remunerata, l’allargare la base delle divisioni giovanili femminili, ragazze che possono pensare di farne un mestiere, a cui dedicare energie e tempo; riguarda però anche le società di calcio, che da dilettantistiche devono diventare società di capitali e saranno obbligate a offrire un certo tipo di strutture e stadi adeguati da minimo 500 posti, ma riceveranno anche contributi sia pubblici sia privati, derivanti principalmente da sponsorizzazioni e diritti tv.
Il professionismo, attraverso questi effetti a cascata, va a influire anche sul gioco, che si fa più veloce, più interessante: l’aura di lavoro che gli si attribuisce non è solo un’etichetta vuota ma comporta un approccio diverso, più meticoloso e quindi più profittevole, che parte dall'esigenza di portare investimenti e risultati. Dal 1 luglio 2022, per la prima volta, le squadre iscritte al campionato di Serie A femminile potranno mettere sotto contratto calciatrici che altrove professioniste lo sono già.
La riforma del professionismo vale solo per il campionato di Serie A, che dalla prossima stagione, inoltre, si riduce a 10 squadre (da 12). Il rovescio di questa medaglia lascia in particolare due dubbi su cui ragionare da domani in avanti: il primo e più importante è l’eventualità che le differenze fra Serie A e B si acuiscano; il secondo riguarda, invece, il pubblico.
L’evoluzione della serie cadetta, infatti, terreno di una competizione avvincente e interessante, si teme possa restare indietro rispetto al campionato maggiore che potrebbe diventare una sorta di circuito privilegiato di onori, diritti e successo. Per quanto riguarda il pubblico, invece, bisogna fare di nuovo un piccolo passo indietro, al 2019, quando il calcio femminile segna dei record di presenze di spettatori allo stadio – uno su tutti quello dell’Allianz Stadium di Torino del 24 marzo, quando si scontrano Juventus e Fiorentina davanti a 39.027 persone.
Portare persone allo stadio come creare un’abitudine allo spettacolo in TV possono essere d’aiuto per evitare parallelismi semplicistici fra calcio femminile e maschile; costruire un pubblico è un processo di evoluzione già iniziato e che in parte la pandemia ha fermato, ma che deve essere ripreso. In questa stagione guardare il calcio femminile ha avuto un costo contenuto: una partita alla settimana del campionato di serie A appena terminato è stata trasmessa in TV in chiaro, le gare di Champions League sono state accessibili gratuitamente su YouTube – la finale si giocherà a Torino e metterà al centro del calcio europeo di nuovo l’Italia – e molte delle partite di campionato che si sono giocate in stadi “veri”, più o meno grandi e prestigiosi, hanno avuto un costo di accesso di massimo 5 euro.
In questo momento storico il calcio femminile è uno degli sport più accessibili di tutti e questo non può che fare da propellente per l’idea stessa di professionismo, che punta a portare l'intero movimento dove qualche anno fa non ci si immaginava nemmeno. Nel frattempo ci si augura una crescita sostenibile per tutti e, soprattutto, per tutte.