Preso dallo sconforto del recente declino dell'Arsenal, negli ultimi mesi dopo ogni sconfitta umiliante o anche semplicemente ridicola, ho preso l'abitudine di andarmi a riguardare gli highlights di alcune delle partite dell'Arsenal di Wenger. L'ho fatto per nostalgia, per rifugiarmi nella mia personale San Junipero. A volte scrivendo avversari e date a caso su YouTube come "Leeds+2003" soltanto per vedere cosa usciva fuori, altre volte andando a cercare in modo mirato quelle a cui associo ricordi piacevoli. Prima ancora del fischio finale dell'ultima, umiliante, sconfitta contro il Manchester City (che ha vinto 5-0 come se stesse affrontando una rappresentativa locale durante una tournée estiva), ad esempio, mi sono messo a guardare gli highlights contro il Wigan del 7 maggio 2006, l’ultima ad Highbury.
Andavo ancora al liceo quando la vidi in diretta e abitavo in un’altra casa. Stavo il più possibile vicino possibile allo schermo all’entrata in campo di Bergkamp, il giocatore che mi fece simpatizzante dell’Arsenal qualche anno prima, come se volessi sentire la sua aura. Highbury era bello, ma poco funzionale per il calcio moderno, troppo raccolto, una squadra che vuole lottare ad armi pari contro il Manchester United e il Real Madrid doveva dirgli addio. Ricordo di aver pensato guardando l’atmosfera festante che non ero mai stato ad Highbury, ma che sarei sicuramente andato presto a vedere una partita nel nuovo stadio, quello che Wenger assicurava che avrebbe portato l’Arsenal in una nuova dimensione. Poi ho distolto lo sguardo dello schermo che mi aveva proiettato in un'altra dimensione e sono stato ricatapultato nel presente, dove il Manchester City di Guardiola stava passeggiando sulle macerie di una squadra che schierava Pablo Mari, Kolasinac, Chambers e Cedric in difesa.
Mentre Massimo Marianella faceva notare l'incredibile numero di giocatori mediocri in campo con la maglia rossa, e il fatto che assegnare i numeri 7 e 10 a due giocatori come Saka e Smith Rowe fosse un segno del grigiore dei tempi, sullo schermo davanti a me continuavano a scorrere le immagini dell’entrata gloriosa di un Arsenal tutto sorridente con la splendida maglia granata e oro, pensata quell'anno proprio per l'addio ad Highbury. Una parata di stelle accolta da 38mila tifosi stipati con maglie coordinate per formare delle grandi strisce verticali rosse e bianche lungo tutte le tribune (ad eccezione della zona dei tifosi del Wigan tutti in blu). La squadra è quella che dieci giorni dopo si giocherà la finale di Champions League contro il Barcellona. In campo dall’inizio ci sono, tra gli altri, Cesc Fabregas, Gilberto Silva, Pires, Reyes e ovviamente Henry. Entreranno poi Ljungberg, Van Persie e Bergkamp. L’Arsenal vince la partita 4-2 in rimonta: segnano Pires e ovviamente una tripletta Henry, che il telecronista chiama “il re Highbury”.
Ora al posto di Highbury c’è un complesso residenziale. A pochi metri da lì il nuovo stadio è imponente, ha il nome poco evocativo di una compagnia aerea mediorientale e all’interno l’aspetto di un aeroporto, tutto curato nei dettagli per rendere l’esperienza confortevole, ma fondamentalmente anonimo. E se fuori le statue di Henry o Bergkamp possono rassicurare sulla squadra che ci gioca, all’interno hanno anche messo l’orologio che era presente sulla tribuna “clock end” di Highbury, con un effetto posticcio da casa ultramoderna in ferro e vetro in cui si mette in bella mostra il quadro incorniciato disegnato dal nonno negli anni ’80.
Sempre per far capire di stare nello stadio dell’Arsenal e non del Benfica, tanto per dire un nome a caso, lungo tutte le tribune hanno affisso le date di vari trofei vinti tra cui 13 campionati inglesi e 14 FA Cup. Dietro la porta avversaria ad ogni persona vengono poste delle persone con delle bandierone biancorosse col cannone che vengono alzate e sventolate in occasione dei festeggiamenti per un gol segnato.
Per rivedere sventolare le bandiere in questa stagione i tifosi dell’Arsenal hanno dovuto aspettare di superare l’ora di gioco della quarta giornata, quando da una palla riconquistata sulla trequarti da Smith Rowe su di un rinvio del portiere Krul del Norwich, una circolazione veloce del pallone aiutata da una verticalizzazione di Thomas Partey e la determinazione di Saka, hanno portato Pépé alla conclusione. Due pali e un rimpallo favorevole dopo, la palla è arrivata sul piede del capitano Aubameyang a pochi centimetri dalla linea, dove il gol non poteva essere sbagliato. È stato il gol vittoria che ha tolto l’Arsenal dalla casella degli 0 punti in classifica, rendendo obsoleto (più o meno) il coro goliardico dei tifosi che a Manchester avevano accolto l’ennesimo gol della squadra di Guardiola con un: «Perdiamo ogni settimana, perdiamo ogni settimana, non siete speciali, noi perdiamo ogni settimana».
Da quando seguo l’Arsenal non è mai successo di iniziare in modo così negativo una stagione in Premier League. Certo, c’è da considerare un calendario sfavorevole con Chelsea e City nelle prime tre giornate e varie assenze che hanno portato allo schierare una linea difensiva quasi da zona retrocessione contro il City. Ma forse è proprio questo il punto: in questo momento storico le seconde linee dell’Arsenal sono da squadra di media-bassa classifica e quindi, forse, i punti non fanno altro che rispecchiare il valore della squadra messa in campo da Arteta.
Vittima sacrificale dell’esordio da sogni per la stagione della neo promossa Brentford alla prima, alla seconda spazzati via da Lukaku come per anni era successo con Drogba, è la sconfitta con il Manchester City alla terza ad essere però il punto più basso non solo di questa stagione ma anche della storia recente dell'Arsenal. Zero punti dopo tre partite, con 0 gol fatti e 9 subiti. Nel mezzo il 6-0 al West Brom in trasferta in Coppa di Lega e dopo la vittoria col Norwich fanalino di coda del campionato. La sensazione è che, in linea con l’ottavo posto della stagione scorsa, l'Arsenal semplicemente non è abbastanza competitiva per le migliori della Premier League. Nonostante sia ancora nominalmente considerato parte delle big six, l'Arsenal in realtà non fa più parte di quel livello. E soprattutto, la strada per rientrare in quell'élite sembra ancora lunga e tortuosa.
Due immagini che raccontano alla perfezione il disastro contro il Manchester City.
Ma quando è iniziato esattamente il declino dell'Arsenal? Una possibile data di riferimento è il 28 febbraio del 2016: la sconfitta per 3-2 all’Old Trafford contro il Manchester United segna la fine della ambizioni di titolo per l’ultimo Arsenal competitivo di Wenger. Dopo quella sconfitta, l’Arsenal non riesce più a rientrare neanche nei posti che garantirebbero la qualificazione alla successiva Champions League, un obiettivo che il leggendario allenatore francese aveva definito “come un trofeo”. E allora veniva preso in giro dagli stessi tifosi dell’Arsenal per questo.
Il non qualificarsi alla Champions League ha innescato una spirale depressiva che ha allontanato i giocatori migliori e alzato le pretese di chi invece si voleva trattenere. Un circolo vizioso che ha portato allo stesso tempo a un ridimensionamento degli obiettivi da poter prendere sul mercato. L’Arsenal ha chiuso quinto e sesto le ultime due Premier League con Wenger, quinto quella con Emery, ottavo in entrambe quelle con Arteta (arrivato a metà stagione 2019-20). Sta scivolando nella mediocrità, insomma, e forse la cosa più grave è che lo sta facendo aggrappandosi disperatamente ad un allenatore alla prima esperienza.
Arteta è il secondo tentativo dell’Arsenal nel trovare un erede a Wegner. Il primo, Emery, è finito male - anche se oggi, alla luce del grigiore attuale, quella esperienza forse si guarda con occhi diversi - anche il secondo non si sente tanto bene. Ex capitano dell’Arsenal, Arteta nei suoi tre anni sotto Guardiola al City era considerato un prodigio dal punto di vista tattico. Nel suo periodo con Guardiola ne è uscito un personaggio che prova a vestirsi con stile, a mimarne i gesti del suo mentore a bordocampo e che a volte risulta diverso solo per la capigliatura.
Arrivato all’Arsenal, si è ritrovato dopo poche settimane nel bel mezzo della pandemia (lui è stato il primo caso accertato in Premier League di contagiato alla Covid-19, tra l'altro). Arteta era stato scelto anche per il suo approccio maniacale e per la sua visione del calcio top-down, che erano stati molto apprezzati in una squadra in cui il proprietario Stan Kroenke vive stabilmente negli Stati Uniti e si fa vedere molto di rado a Londra. La sua esperienza all'Arsenal è stata subito complicatissima, soprattutto quando la società ha iniziato a licenziare diversi lavoratori per tagliare i costi (tra cui anche la mascotte Gunnersaurus) decidendo poi di aderire a quella che viene chiamata Superlega, di cui i tifosi dell’Arsenal sono stati tra i più feroci oppositori, con tanto di manifestazione fuori lo stadio.
Con una proprietà così distante non soltanto fisicamente dalla squadra e dai tifosi, la figura di Arteta ha assunto un peso superiore a quello del semplice allenatore, come invece voleva essere Unai Emery. Con la vittoria della FA Cup del 2019-20, Arteta si è guadagnato subito la fiducia di una dirigenza alla disperata ricerca di un salvatore e che, alla luce di quel successo, è stata ben felice di dargli ancora più potere decisionale all’interno della squadra. Non ancora una situazione da tiranno illuminato, come quella avuta da Wenger da metà anni 2000 fino alla fine della sua epoca, ma comunque qualcosa di vicino alla mitologica figura del manager all'inglese. Nonostante esista un direttore tecnico (Edu, anche lui ex giocatore dell’epoca Wenger) che lavora a stretto contatto con Arteta per assecondarne il più possibile la visione, l’Arsenal rimane una squadra con una piramide decisionale abbastanza scarna, in cui i proprietari lasciano carta bianca sulle decisioni da campo e sono disposti a spendere pur di tornare in Europa. Questa struttura ha quindi investito un allenatore esordiente neanche quarantenne di responsabilità che forse non era in grado di gestire. Dalla prima estate post Wenger nel 2018 l’Arsenal ha speso circa 377 milioni di euro per i cartellini, al netto delle entrate per le cessioni. Nella sua prima stagione completa al comando della squadra però è arrivato un campionato catastrofico, con l'esclusione delle competizioni europee per la prima volta dopo 25 anni.
Arteta e Edu hanno quindi intrapreso in estate un enorme lavoro di ricostruzione della rosa. Solo questa estate sono arrivati 6 giocatori per circa 134 milioni (al netto delle cessioni degli scartati Willock, Willian e Torreira) risultando la squadra in Europa ad aver speso di più sul mercato. Il fatto che siano stati spesi molti soldi su giocatori non ancora di livello mondiale ha fatto storcere il naso ai tifosi. Edu e di Arteta hanno cercato di spiegare: l’Arsenal sta cercando di ricostruirsi un’identità con giocatori giovani che costituiranno l'anima della squadra da qui ai prossimi anni. Uno sguardo sul futuro che, però, cozza con il lavoro che l’Adidas da qualche anno sta facendo sulle maglie, che richiamano gli anni ’90, quelli del picco dell’estetica di Highbury e del primo ciclo di Wenger. L’identità che sta cercando ora l’Arsenal ha due piani paralleli: la ricerca di giocatori giovani con caratteristiche in linea col gioco di posizione e dall’altra la scelta di puntare in modo deciso sui talenti della casa, per un’ossatura della squadra più locale e vicina a Londra possibile. Un tentativo di radicare il club sul territorio e anche venire incontro alle stringenti norme post Brexit che rendono più difficili gli acquisti dall'estero.
Da qui la scelta simbolicamente importante di dare le maglie numero 7 e 10 a Saka e Smith Rowe, e la decisione di acquistare giocatori inglesi come Ben White dal Brighton e Ramsdale dallo Sheffiled (a caro prezzo). In questo modo, l’Arsenal è diventato un misto tra la "vecchia guardia" (Xhaka, Aubameyang, Lacazette), la nuova ossatura britannica e i giocatori su cui la società ha deciso di investire per alzare il livello della rosa (Odegaard, Thomas, Pépé, Gabriel). Mettere insieme questo gruppo richiede tempo, lo stesso Arteta ha messo in chiaro le cose dopo la sconfitta col Chelsea: «So che i tifosi sono delusi quando si perde in casa. Ci deve essere qualche reazione. Ma questo è un progetto che richiederà un po' di tempo, si può vedere dal reclutamento che abbiamo fatto e dalla squadra davvero giovane che abbiamo al momento e non può completarsi da un giorno all’altro. Tutti noi vogliamo fare il più in fretta possibile e sappiamo che la responsabilità per noi è quella di lottare con le migliori squadre in ogni competizione. Questo non cambierà».
Il fatto che siano arrivate pesanti sconfitte contro pretendenti al titolo e ci siano voluti 30 tiri in porta (record sotto Arteta) per segnare un gol col Norwich grazie ad un complesso sistema di rimpalli e leve, ha però tolto la terra sotto i piedi all'allenatore spagnolo, che perde di credibilità giorno dopo giorno. Se l'Arsenal è al momento una squadra che sembra non poter competere contro le grandi e che contro le piccole fatica a concretizzare c'è anche una sua responsabilità. L'allenatore spagnolo, alla luce della rosa a disposizione non di primissimo livello, sta cercando di forgiare un'anima flessibile: una squadra che, aderendo ai principi del gioco di posizione, possa accerchiare e schiacciare nel campo avversario le squadre di livello inferiore, ma che sappia anche giocare in verticale contro le prime cinque squadre del campionato. Questa almeno è l'idea, che però non sempre si mostra sul campo, dove i suoi meccanismi risultano fin troppo complessi. Certo, in ogni partita c’è sempre una finestra di qualche minuto all’interno delle partite in cui le cose funzionano, in cui appare un Arsenal ideale che riesce a muovere il pallone e i giocatori in verticale con fluidità.
Ma c’è poi il resto dell’incontro in cui basta un errore individuale per pregiudicare il tutto. Errori individuali che si sono poi dimostrati strutturali considerando i tanti giovani e i giocatori recidivi come Xhaka, David Luiz, Leno o Chambers. Arteta ha provato a superare la questione dalla seconda parte della scorsa stagione scartando alcuni giocatori (come Willian e Ceballos), e dando maggiore peso alle scelte individuali, inserendo nella squadra giocatori in grado di trasmettere il pallone in verticale che sia con un passaggio (Xhaka, Thomas e Odegaard) o con una conduzione (Saka e Smith Rowe), e puntando quindi a lavorare più su di una manovra dettata dai legami tecnici tra giocatori che parlano la stessa lingua calcistica. Da qui nasce la scelta sul mercato estivo di giocatori in grado di far avanzare il pallone in ruoli chiave: difesa con Ben White, centrocampo con Sambi Lokonga e trequarti con la conferma di Odegaard. Tutte scelte perseguite con forza (leggi: costate molto) e dettate dalla fiducia nella loro aderenza al sistema scelto. L’ultimo giorno di mercato è arrivato anche Tomiyasu dal Bologna per 19 milioni di sterline (lasciando andare via in prestito dopo 10 anni in squadra Héctor Bellerín) per poter così completare la teorica difesa titolare nel doppio ruolo di terzino destro e difensore centrale destro in caso di difesa a tre. Il centrale giapponese è un altro giocatore abile nel muovere il pallone in avanti, sia in conduzione che con i passaggi taglia linee.
Contro il Norwich si è vista per la prima volta in stagione la linea difensiva titolare del 4-3-3 con cui Arteta sembra voler giocare questa stagione: Tierney terzino sinistro che spinge molto, Gabriel centrale di sinistra, White centrale di destra e Tomiyasu terzino destro più bloccato. Di questi solo Tierney era presente nel 5-0 del City due settimane prima. Una difesa costruita nelle ultime tre estati (Tierney nel 2019, Gabriel nel 2020, White e Tomiyasu nel 2021) e costata circa 130 milioni di euro solo di cartellino, a cui bisogna aggiungere i circa trenta pagati per prendere il portiere titolare Ramsdale. Nessuno di loro, al momento, sembra però avere il talento per fare il salto tra i giocatori d'élite della Premier League.
Contro il Norwich le cose sono andate molto meglio.
Visti gli ultimi mercati non si può dire però che la dirigenza non abbia il coraggio o la voglia di cambiare la situazione. La mediocrità delle prestazioni dell'Arsenal ha quindi posto il dubbio che alla fine non sia Arteta il problema, e se la sua ambizione possa davvero pareggiare o superare la sua inesperienza per il tipo di lavoro a cui è chiamato.
Al di là delle questioni di campo, ciò che lascia più basiti dell'allenatore spagnolo è la sua gestione del gruppo e il rapporto con i giocatori, su cui ripone o una fiducia incondizionata oppure una sfiducia totale, con l’oscillazione tra le due cose che può arrivare anche in modo totalmente imprevedibile. È successo nel caso di Xhaka, prima sul mercato e poi rinnovato e titolare inamovibile nel giro di un'estate, o di Kolasinac, con cui prima viene discussa la rescissione del contratto e pochi giorni dopo è titolare contro il City, o di Maitland-Niles, costretto per disperazione a chiedere pubblicamente la cessione sul suo profilo di Instagram e poi a mercato concluso messo titolare a centrocampo contro il Norwich. O ancora: Saliba acquistato per 30 milioni e mai visto in campo, e finito per essere parcheggiato due volte in prestito. Dopo 18 mesi al comando Arteta non sembra ancora aver ben chiaro di chi si possa fidare e questo sembra riflettersi anche sul campo viste le prestazioni incostanti dei giocatori. Lui si è scelto la squadra, i risultati non sono dalla sua, il tracciato tattico si è sempre più diluito fino quasi a perdersi. In tutto questo, la pazienza dei tifosi è agli sgoccioli.
Insomma, l’Arsenal visto nelle prime tre giornate non è quello che affronterà il resto della stagione, ma non è neanche detto che sia molto diverso nei risultati. Uscire con un’altra stagione da metà classifica potrebbe significare l’esonero di Arteta e il reset del progetto da zero per l'ennesima volta. Dopo tutti i soldi spesi e il tempo concesso alla creazione di una squadra a sua immagine però un suo esonero avrebbe davvero senso? La sensazione è che di allenatori in grado di gestire questa situazione liberi in giro ce ne siano pochi: Antonio Conte e Zinedine Zidane sarebbero davvero disposti a prendere per mano questa squadra, a farsi scudo di fronte a una situazione così disperata? Se non arrivano loro, prendere un altro giovane promettente come Graham Potter o una leggenda come Henry non è detto che dia risultati diversi dalla situazione attuale viste le premesse identiche. Forse tentare un nome di un allenatore esperto ma fuori dagli schemi come fu Wenger all’epoca potrebbe portare maggiore fortuna, ma siamo nella pura speculazione.
Nel calcio attuale, soprattutto in Premier League dove la concorrenza è agguerritissima, non è detto che una squadra come l'Arsenal possa davvero permettersi di aspettare la crescita di un gruppo giovane e di un allenatore che sembra imparare il mestiere giorno dopo giorno, o provando profili ogni volta differenti sperando di pescare il jolly. Ci sono squadre come l’Everton o il Newcastle che dalla mediocrità non sono riuscite mai ad uscirne nonostante i mezzi economici a disposizione e un passato illustre.
L’idea che vuole trasmettere Arteta di un futuro migliore attraverso un gruppo giovane ha convinto una dirigenza che ha un disperato bisogno che questa stessa ricetta funzioni dopo averci tanto investito. Per questo non è stato pubblicamente messo in discussione neanche dopo la figuraccia contro il City. La speranza, per l'Arsenal, è che quella partita sia stato davvero il fondo e che sia impossibile scavare ancora di più. Per adesso, l’unica certezza è che ci vorranno anni per una versione dell’Arsenal in grado di competere con quella che ha lasciato Highbury piena di gioia per il presente e speranze per il futuro. Un lusso che questo Arsenal non sembra in grado di regalare ai propri tifosi.