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Cosa stanno facendo i Sacramento Kings?
05 ago 2015
La lunga e rovinosa discesa della franchigia più disfunzionale del basket NBA.
(articolo)
15 min
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Vlade Divac, Chris Webber, Peja Stojakovic, Doug Christie, Jason Williams (e poi Mike Bibby), Bobby Jackson, Scot Pollard, Hedo Turkoglu. Vale a dire The Greatest Show on Court. Nei primi anni del nuovo millennio i Sacramento Kings sono stati una squadra di culto assoluto, supportata da un pubblico caldissimo ed entusiasta, amata dalla stragrande maggioranza degli appassionati e in grado di sfiorare l’accesso alle Finali NBA nel 2002, fermata solamente da una combinazione di arbitraggio avverso (forse) e di “braccino” nei momenti decisivi della serie giocata alla pari contro i fortissimi Los Angeles Lakers di Phil Jackson, Shaq e Kobe.

Ma oggi—e da troppo tempo ormai, a prescindere dai risultati (che comunque non arrivano, si è appena conclusa la nona stagione consecutiva senza playoff, solo i Minnesota T’Wolves hanno fatto peggio)—a far notizia nella capitale della California è ciò che succede fuori dal campo. Non passa mese senza una voce, una mossa di mercato, un licenziamento, un’assunzione, un tweet qualsiasi che costringa a sbarrare gli occhi, immediatamente abbassarli, nascondersi il volto tra le mani e lasciarsi andare a un sempre più sconsolato OH, I KINGS. Come è possibile che in un decennio abbondante si siano trasformati nel Messiest (Reality) Show off the Court?

Questo montaggio, 10 ore di facepalms, è stato chiaramente creato da un tifoso di Sacramento.

Il Cattivo vero, il perfetto Heel da wrestling, quello che con le manovre dell’ultimo anno non ha nulla a che fare, ma che non può essere ignorato, si chiama Maloof. È un mostro a cinque teste (quattro fratelli e una sorella), di cui solo tre visibili (Gavin, Joe e George Jr.) e ha principalmente tre colpe: aver sperperato un patrimonio, aver affossato una franchigia, aver litigato con una città intera.

Per quanto riguarda il patrimonio ciascuno è libero di fare come crede, ma realizzare una suite da 25,000 dollari a notte a tema cestistico non sembra l’idea del secolo. Ed è solo la punta dell’iceberg del colossale fallimento rappresentato dalla costruzione della seconda torre del Palms Casino Resort. I Maloof sono riusciti nella non facile impresa di andare oltre un certo limite anche in una città come Las Vegas. Paris Hilton & friends ringraziano, ma al resto del mondo la cosa non è interessata più di tanto. Risultato? Disastro. Ai Maloof resta solo il 2% delle azioni di quello che era il vanto del proprio impero.

I problemi economici della famiglia hanno ovviamente avuto impatto sui Kings, che vengono gestiti all’insegna del risparmio estremo: una volta concluso il ciclo di inizio anni 2000, la squadra è in pratica abbandonata a sé stessa, con organigramma ridotto all’osso in ogni settore (sportivo, medico, amministrativo, etc.), strutture di allenamento obsolete, un palazzetto minimalista (la Sleep Train, ex-ARCO, è la meno costosa tra le arene NBA al momento della costruzione) e sulla superficie del quale ormai è sbiadita anche l’etichetta chiudere preferibilmente entro il 2005, una lunga serie di tagli e rinunce che in un paio di lustri hanno portato la franchigia a crollare dal 4° (2003) al 122° e ultimo posto (2013) nel Team Ranking di ESPN, classifica che mette in fila le franchigie professionistiche USA sotto vari aspetti e che sì, è puramente indicativa, ma indica con sufficiente accuratezza.

I tentativi di forzare il trasferimento a Seattle con la cessione della squadra a Chris Hansen nel 2013, respinti dalla NBA grazie anche agli sforzi del sindaco Kevin Johnson (si, quel Kevin Johnson), sono invece l’emblema della terza colpa, che se non altro porta alla soluzione definitiva del problema: finisce il regno dell’Heel, c’è un nuovo campione Face pronto a fare il proprio ingresso in scena, con tanto di musica d’ingresso dedicata.

Cosa meglio di una figlia popstar per attirare le simpatie del mondo? Magari una figlia popstar con un minimo di talento musicale.

Il nuovo proprietario dei Kings è Vivek Ranadivé, uomo d’affari indiano affermatosi nel ramo informatico e con un incredibile percorso accademico tra MIT e Harvard. Grande appassionato di basket e soprattutto di NBA, titolare di quote di minoranza dei Golden State Warriors (che chiaramente vengono immediatamente cedute) e… padre di Anjali. Che c’entra? C’entra. E non per la carriera (…) musicale della ragazza. Ma ci torneremo più avanti.

Gli obiettivi sono chiari: riconquistare i tifosi; costruire una nuova arena nel centro di Sacramento (il Golden 1 Center, che sarà pronto per la stagione 2016/17) che possa ospitare una squadra competitiva, da playoff, con un’identità moderna; circondarsi di collaboratori che condividano questa visione.

Unico problema: come la maggior parte degli individui di grande successo, Ranadivé fatica a delegare e anzi, pretende di essere parte integrante di ogni processo decisionale. Anche di quelli riguardanti ambiti che non padroneggia e dei quali non conosce le sfumature, come ad esempio la gestione tecnica e sportiva di una squadra professionistica. Non è il primo e certamente non sarà l’ultimo proprietario NBA a commettere simile errore e nulla è compromesso a lungo termine, come dimostrano le evoluzioni di Cuban (Dallas) e Lacob (Golden State) su tutti, ma che si tratti di una situazione non ottimale è abbastanza evidente.

La prima decisione cruciale viene presa meno di un mese dopo l’acquisizione della franchigia e riguarda l’allenatore: il ruolo viene affidato a Michael Malone, fino a quel momento vice di Mark Jackson proprio sulla panchina degli Warriors, probabilmente il migliore (secondo un sondaggio effettuato tra i GM NBA) e più pagato assistente allenatore della Lega. Note salienti: sergente di ferro dalla personalità ruvida e ingombrante, ma molto gradito ai giocatori con cui ha lavorato. E dato che la stella dei Kings è DeMarcus Cousins, talento sconfinato ma carattere complicato, la cosa ha una certa rilevanza.

Le reazioni di stampa e tifosi sono assolutamente positive e aiutano a far passare sotto silenzio un’anomalia non indifferente: a nominare l’Head Coach è stato il proprietario e non il General Manager, semplicemente perché un General Manager ancora non c’è. L’uomo chiamato a condurre le operazioni sportive viene infatti assunto due settimane più tardi: è Pete D’Alessandro, braccio destro di Masai Ujiri a Denver, sostenitore dell’utilizzo delle statistiche avanzate ed esperto di Salary Cap, qualità irrinunciabili per un GM di successo nella NBA attuale. Che però si trova a che fare con un diretto subordinato (Malone, appunto) che è stato assunto da terzi e che difficilmente scende a compromessi, con un proprietario che tende a scavalcare (o quantomeno a influenzare pesantemente) le scelte dei propri collaboratori e dipendenti. La bomba è armata, c’è solo da capire quanto ci metterà a esplodere.

Durante la stagione 2013/2014, chiusa con record ampiamente negativo e 54 sconfitte, iniziano in ogni caso a intravedersi alcuni segnali positivi: nei 995 minuti in cui Isaiah Thomas, Rudy Gay (arrivato via trade) e DeMarcus Cousins condividono il parquet i Kings segnano più degli avversari, 1.6 punti per 100 possessi, valore che nei 629 minuti in cui ai tre si aggiunge Jason Thompson cresce fino a 2.2 e che se confermato per le 82 partite equivarrebbe a circa 45 vittorie. Un nucleo su cui costruire una squadra di buon livello sembra esserci, manca il contorno. Anche per questo a circa un mese dal Draft 2014 D’Alessandro e il suo staff lanciano l’iniziativa Draft 3.0, filmata da Grantland, per permettere a chiunque sia in grado di presentare un modello di analisi dei prospetti di contribuire alla scelta, così da aumentare le possibilità che il giocatore selezionato rispetti le attese. Idea assolutamente innovativa, brillante e alternativa, se non fosse che poi all’atto pratico… “STAUSKAS?!

La faccia di D’Alessandro quando dice: «I say Stauskas» è tutto un programma.

Al momento di effettuare la scelta Ranadivé in pratica scavalca tutto e tutti, vanificando settimane di scouting, analisi e contributi dall’esterno. Shareef Abdur-Rahim, ex giocatore e unico membro del front office rimasto dall’era Maloof (e quindi la cui assunzione non è dipesa dal nuovo General Manager), non nasconde il proprio disappunto per la vicenda e poche settimane dopo annuncia le proprie dimissioni, in seguito a ulteriori contrasti con D’Alessandro. La bomba è armata ed è stata collegata al timer.

In estate Isaiah Thomas, in scadenza di contratto, prende la via di Phoenix senza che gli venga presentata alcuna offerta, apparentemente a causa dell’influenza negativa che la sua personalità esercita sui compagni e in particolare su Cousins. Il suo sostituto Darren Collison però si dimostra assolutamente all’altezza e dopo il primo mese di stagione regolare i Kings si ritrovano a sorpresa in corsa per un posto ai playoff, con un record di 9 vittorie e 6 sconfitte. Il quintetto titolare Collison-McLemore-Gay-Thompson-Cousins è il settimo migliore della NBA per Net Rating (differenza tra punti segnati e subiti, su 100 possessi). Addirittura Cousins sembra più maturo, trae giovamento dall’ottimo rapporto con il proprio allenatore e gioca il miglior basket della propria carriera, se non che un problema fisico (che poi si scoprirà essere meningite virale) lo blocca e porta la squadra a perdere 7 delle successive 9 partite.

La bomba è scoppiata. OH, I KINGS.

Nei giorni immediatamente successivi al licenziamento di Malone Adrian Wojnarowski, Zach Lowe e Sam Amick, tre dei principali insiders NBA, scoprono il Vaso di Pandora. Un dettaglio su tutti: la richiesta presentata da Ranadivé di giocare 4 contro 5 in difesa, lasciando un giocatore nella metà campo avversaria per segnare punti in contropiede. «It came up. I was approached», la conferma di Malone in una recente intervista. Da dove sia uscita un’idea simile è presto detto: Vivek ha allenato la squadra femminile in cui militava la figlia Anjali (eccoci) all’età di 13 anni. E l’ha condotta al torneo nazionale impostando il gioco su pressing a tutto campo e canestri in contropiede. Perché non provarci anche in NBA? OH, I KINGS.

Viene promosso Head Coach il principale assistente di Malone, Tyrone Corbin, reduce da due stagioni disastrose alla guida degli Utah Jazz in cui ha dato la chiara impressione di non essere un capo allenatore NBA adeguato. La soluzione interna in caso di esonero a stagione in corso è pratica comune e in questo caso è giustificata anche con l’intenzione di lasciare che, stavolta sì, sia D’Alessandro a scegliere a chi affidare la squadra. Vivek però non è soddisfatto: una squadra che dal suo punto di vista è competitiva e da playoff (a Ovest? Nella scorsa stagione?) non può vincere solo il 25% delle partite (7-21 dal momento del cambio in panchina) e quindi pensa di assumere da subito l’allenatore che dovrà guidare la squadra nella stagione successiva. Il nome più gettonato è quello di George Karl.

Cousins non gradisce, lo ritiene poco adatto a sé per stile di gioco e per la tendenza consolidata a scontrarsi con le stelle delle squadre che allena, e comunica a D’Alessandro la propria opinione. Dopo essere stato costretto a sopportare l’allontanamento del primo allenatore degno di questo nome avuto in 5 stagioni di carriera NBA, crede di poter avere voce in capitolo. D’Alessandro condivide le perplessità e riferisce a Ranadivé. Corbin viene “cestinato” e Karl ottiene il posto. OH, I KINGS.

Poche settimane più tardi, dal nulla o quasi, Vlade Divac viene nominato vice presidente della franchigia. L’ex centro del Greatest Show on Court è personaggio di enorme carisma e legato alla città e alla comunità, e in brevissimo tempo diventa di fatto anche il General Manager, pur essendo quasi totalmente estraneo alle dinamiche del mercato NBA, mentre D’Alessandro paga la propria hybris, l’essersi opposto a una decisione del proprio proprietario, e viene messo in disparte. Ma è successo di nuovo: anche in questo caso è stato scelto l’allenatore prima del GM.

La storia si ripete, tale e quale. Così come era noto che Malone fosse un buon allenatore, ma dalla personalità difficile da gestire e attento principalmente alla fase difensiva (ed è quindi stato un errore affidargli la panchina sperando agisse diversamente), non è certo un mistero che George Karl abbia realmente avuto rapporti complicati con le stelle. Puntualmente, nei giorni precedenti all’ultimo Draft, l’ex Head Coach di Nuggets, Bucks e Sonics sfrutta le proprie conoscenze tra i media per diffondere voci secondo cui Cousins vorrebbe essere ceduto e sarebbero già avviate le trattative con alcune squadre. Divac smentisce categoricamente (dimostrando se non altro di avere potere all’interno dell’organizzazione), Ranadivé si infuria al punto da valutare di licenziare il suo nuovo allenatore (quattro mesi dopo averlo assunto!), Cousins prende spunto da illustri predecessori e condivide con il mondo il proprio fastidio via Twitter; il risultato è che giocatore e allenatore si parlano a malapena, con Divac che definisce il loro rapporto come «not pretty». OH, I KINGS.

Non è ancora finita. Vivek ha fretta, vuole portare nella nuova arena una squadra da playoff, quindi dà mandato a Divac di creare spazio salariale per puntare a free agent di buon livello.

La lista degli obiettivi comprende Wes Matthews (poi accordatosi con i Dallas Mavericks), Tobias Harris (Orlando Magic), Monta Ellis (Indiana Pacers), Andrea Bargnani (Brooklyn Nets) e certamente alcuni altri, ma in pochi giorni si trasforma nella lista di giocatori che hanno snobbato Sacramento—accettando offerte economicamente inferiori, ma presentate da squadre teoricamente più competitive, stabili e affidabili.

È vero, la tassazione locale californiana è maggiore di oltre il 10% rispetto a quella di stati come il Texas e la Florida, e questo tende ad appiattire di fatto il gap sull’ingaggio netto. Ed è vero, il caso di Wes Matthews è talmente particolare da meritare un capitolo a parte (e non qui, ma nel libro che, potete giurarci, prima o poi verrà pubblicato sulla saga di DeAndre Jordan), ma il concetto di fondo resta: a oggi i Kings non sono nemmeno lontanamente un progetto appetibile e riescono a convincere solo giocatori senza alternative (Rondo), in cerca del contratto che possa dare un senso economico alla carriera (Belinelli) o pretoriani dell’allenatore (Koufos). Questo, però, poteva essere intuibile anche prima di decidere di liberare spazio e soprattutto di stabilire quanto si fosse disposti a pagare per farlo. E, ancora di più, di scegliere la controparte per lo scambio.

Trattare con Sam Hinkie è frustrante.

Trattare con Hinkie partendo da una posizione di debolezza è pericoloso.

Trattare con Hinkie partendo da una posizione di estrema debolezza e con gravi mancanze di esperienza e familiarità con le stesse dinamiche che la controparte conosce anche nei più piccoli dettagli è devastante.

Per liberarsi dei contratti di Carl Landry (13 milioni per altre due stagioni) e Jason Thompson (14, di cui 3 non garantiti) Divac ha ceduto Stauskas (sì, il giocatore scelto da Ranadivé, che un anno dopo in pratica ha valore pari a zero), una prima scelta (che verrà ceduta ai 76ers nel 2018 se cadrà oltre il decimo posto oppure nel 2019, senza alcuna restrizione) e i diritti di scambio sulle prime scelte 2016 e 2017.

Il che significa, detto in altro modo, che Sacramento non ha più nulla da offrire per migliorare ulteriormente la squadra nelle prossime stagioni e che ha ceduto le proprie prime scelte 2014 (Stauskas), 2016 (scambio), 2017 (scambio) e 2018 (o 2019) in cambio di Belinelli, (un anno di) Rondo e Koufos.

Nel caso migliore si tratterà di asset marginali o irrilevanti, ma non è da escludere che i Kings, che giocano pur sempre nella ipercompetitiva Western Conference, fatichino a svoltare. E che Cousins nel 2018, alla scadenza del proprio contratto, decida di cercare fortuna altrove, trasformando quella scelta 2019 non protetta in un tesoro inestimabile (e sì, potete giurare sul fatto che Hinkie abbia studiato le protezioni da applicare alla scelta in funzione del contratto di Cousins). O anche solo che la Draft Lottery, dopo aver sistematicamente punito i Kings (in 19 edizioni su 20 l’estrazione delle palline ha confermato o peggiorato la posizione nell’ordine di scelta) decida di premiarli e regalargli una scelta in top-3 proprio quando i 76ers possono esercitare il diritto allo scambio.

Cercare la competitività immediata è ammirevole, ma non può essere obiettivo da perseguire a ogni costo: in questa trade la sproporzione tra rischio corso e vantaggio ottenuto è ai limiti dell’incredibile. Senza contare il fatto che probabilmente sarebbe bastato molto meno: ad esempio svendendo Stauskas, cedendo una sola prima scelta (magari con protezione maggiore) per cedere Thompson—che comunque è onestissimo giocatore di rotazione NBA e non un peso morto—e utilizzando la Stretch Provision sul contratto di Landry così da portarne il peso sul cap a 2,6 milioni l’anno, i Kings avrebbero potuto fare esattamente ciò che hanno fatto, solo offrendo a Rondo (che comunque non aveva alcuna alternativa credibile) un contratto annuale da 7,5 milioni anziché da 10. Ma tutto questo prevede la presenza nel front office di una figura che conosca i meccanismi dell’accordo collettivo. OH, I KINGS.

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A margine: Casspi potrebbe essersi guadagnato un nuovo contratto anche solo con questa meravigliosa GIF.

Una luce in fondo al tunnel? Ce ne sono ben due. La prima è che nella prossima stagione si potrà finalmente superare il muro delle 30 vittorie, traguardo che non viene raggiunto dal 2008 (!!!) e quindi si potrà, nel caso, parlare senza dubbio di un passo in avanti nella ricerca della credibilità… o anche solo della normalità.

La seconda è che non più tardi di 3 anni fa gli Warriors erano in una situazione non troppo differente, per quanto più talentuosi. E che i tifosi di Oakland erano stati portati allo stremo delle proprie forze, quasi quanto quelli di Sacramento. E oggi sono campioni NBA.

O magari ci si può consolare con l’operazione di captatio benevolentiae di Vivek, che dopo l’eroe locale Divac pare voglia offrire contratti anche a Nancy Lieberman come assistente allenatore (donna, sull’onda dell’entusiasmo per i risultati ottenuti a San Antonio da Becky Hammon) e agli altri grandissimi ex Peja Stojakovic e Bobby Jackson, per ruoli dirigenziali. Nell’attesa che sia lui a fare un passo indietro, perché potrebbe cambiare tutto per davvero.

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