Mancano pochi chilometri alla vetta dell’Etna, prima tappa italiana del Giro d’Italia 2022. La mattina stessa, al villaggio di partenza, era arrivata la notizia del ritiro di Miguel Angel Lopez, il capitano designato della Astana. Un ritiro forzato, dovuto a un problema all’anca, che cambiava drasticamente la strategia della squadra kazaka in questo Giro: niente più capitano unico e quindi niente più attenzione completamente diretta verso il colombiano. I riflettori si spostano sull’altro grande nome dell’Astana, immediatamente designato come nuovo capitano.
A pochi chilometri dalla vetta dell’Etna, le telecamere si spostano a inquadrare la coda del gruppo con gli uomini di classifica e indugiano, impietose, sul ciclista con il dorsale numero 31 che perde contatto. La pedalata è pesante, nonostante le pendenze non insuperabili. La schiena ricurva, i gomiti larghi, la testa che si abbassa a cercare con lo sguardo qualcosa - nelle gambe, nei piedi, nella bicicletta - che non c’è più.
Vincenzo Nibali corre in casa, nella sua Sicilia. Sull’Etna, per di più, quel Muncibbeḍḍu sulle cui strade sognava di diventare grande. Prima dell’inizio del Giro, Nibali era uno degli uomini più attesi, non tanto per la sua attuale ed effettiva forza - nessuno credeva in buona fede che potesse vincere, anche se le cose adesso clamorosamente stanno cambiando - quanto perché, superati i 37 anni, era entrato nella fase in cui tutti si aspettano che quei momenti possano essere gli ultimi.
La sua storia parte da Messina e torna a Messina. In mezzo ci sono più di 15 anni passati a correre in bicicletta tra i professionisti con la volontà di vincere, ogni volta. A partire da quella, nel 2006, in cui quel giovane siciliano della Liquigas vinse sotto la pioggia la seconda tappa alla “Settimana Internazionale Coppi e Bartali”.
Eredità
Un giorno prima di annunciare il ritiro Vincenzo Nibali è arrivato in cima all’Etna 4’52” dopo il vincitore di tappa, Lennard Kamna, e a più di 2 minuti dal gruppo con gli altri favoriti alla vittoria finale del Giro d’Italia. Ha pagato il giorno di riposo, forse, o il fatto che a quell’età è più difficile trovare la giusta condizione in tempi brevi. Un arrivo in salita alla quarta tappa di un grande giro rischi sempre di soffrirlo più del previsto, figuriamoci a 37 anni.
Il giorno dopo, il Giro d’Italia fa tappa a Messina, la sua città. Il luogo ideale dove annunciare l’inevitabile, quello che ormai da tempo si poteva percepire nell’aria. «Proprio qui, nella mia città, nella terra dove sono nato, dove ho iniziato a pedalare, volevo annunciare che questo sarà il mio ultimo Giro d’Italia. Lascio il ciclismo. Penso sia normale, ho raccolto tantissimo, ho cercato di fare il meglio». Le parole di Nibali risuonano nelle televisioni degli italiani dal palco del Processo alla Tappa con la consueta pacatezza, forse frutto dell’andatura cantilenante data dall’accento siciliano che nonostante tutto è rimasto aggrappato alla sua voce. Nelle frasi che pronuncia per annunciare il suo addio al ciclismo non si coglie nessun tipo di enfasi, nessuna ricerca dell’autocelebrazione. Sembra che abbia vissuto nella sua testa quel momento centinaia di volte, preparandosi il discorso nei minimi particolari.
Vincenzo Nibali, nonostante i ripetuti tentativi di renderlo un personaggio trascinante del ciclismo italiano, non è mai stato una persona carismatica. Anche nei momenti più alti della sua carriera ha sempre dato l’impressione di voler tenere i piedi per terra, come se tutto quel successo fosse solo un incidente di percorso, un imprevisto.
Sul podio di Parigi, al termine del Tour de France 2014, Nibali si presenta con un foglietto su cui ha scritto il suo discorso e lo legge con la voce piatta di chi non ha la più pallida idea di come si faccia un discorso in pubblico. Parla della sua preparazione, delle sue emozioni, dei suoi compagni e il suo staff. Ringrazia, una per una, le persone che gli sono state vicine fino ad arrivare alla sua famiglia, sua moglie e sua figlia Emma, e i suoi genitori. Gli occhi sono nascosti dalla visiera del cappello, ben piantati su quel pezzo di carta che da un lato dà voce ai suoi pensieri e dall’altro li sopprime imbrigliandoli in un discorso piatto e preconfezionato.
Foto di Jean Catuffe/Getty Images
In quel discorso emerge un lato di Nibali che abbiamo imparato a conoscere, che è il Nibali vincente. Come il Teseo di Canova, Nibali dopo le sue vittorie sembra il ragazzo umile e timido di sempre. Dopo la Milano-Sanremo 2018, per dire, parla come uno che ha fatto la cosa più banale del mondo e, nonostante i giornalisti provino a fargli dire qualcosa di emozionante, che possa dar loro un titolo, Nibali cerca sempre di smorzare i toni. Prima parla del tempo e del fatto che «non ha piovuto proprio tutta la gara però ha fatto un po’ di on-off, quindi ci si vestiva, ci si spogliava, ci si rivestiva», poi dei suoi obiettivi stagionali che non prevedevano la Sanremo, che anzi «lo è diventata poi strada facendo e io ero anche un po’ dubbioso». Spiega anche che quel giorno aveva fatto tutto in funzione di Colbrelli e che quella vittoria è arrivata quasi per caso.
Un giornalista gli chiede se si era infastidito di non essere stato inserito da nessuno fra i favoriti della vigilia. La risposta è eloquente: «No, per niente, guarda. Preferisco così perché quando tutti mi mettono da parte allora è lì che vengo fuori».
Nibali è l’antitesi del personaggio carismatico e trascinatore, capace di infiammare le folle. È anzi una persona riservata, schietta quando vince, irascibile nei momenti di difficoltà. Come al Giro 2019 quando se la prese con Roglic, accusandolo di scarsa collaborazione, di non assumersi le sue responsabilità e di aver di fatto consegnato la Maglia Rosa a Richard Carapaz con il suo attendismo e la sua snervante marcatura a uomo. Le parole di Nibali in quel caso furono dure: «Gli ho detto: ascolta Roglic se vuoi venire a fare una foto a casa mia ti faccio vedere la mia bacheca dei trofei quando vuoi, tanto io non ho bisogno di dimostrare niente». E ancora: «Penso che se lui vuole vincere questo Giro non è il modo in cui deve correre».
Nel nervosismo della vittoria che scivola via, Nibali perde il suo aplomb neoclassico e si trasforma, si lamenta, brontola. A volte esagera nello scaricare le colpe all’esterno, come se non riuscisse fino in fondo a gestire la tensione della difficoltà. Ma adesso tutto questo è il passato, rimane solo la consapevolezza di essere arrivato a destinazione.
«Aspettavo questa tappa perché qui è dove è iniziato tutto», ha dichiarato Nibali a Messina. «Io sono andato via di casa che avevo solamente 15 anni. Ho dato veramente tanto al ciclismo, tantissimo. E forse è venuto il momento, in un futuro prossimo, di restituire un po’ di quel tempo che ho tolto alla mia famiglia, ai miei genitori, ai miei amici. Tutto quello che per tanto tempo ho dedicato alle due ruote».
Nibali andò in Toscana da ragazzino per inseguire il suo sogno, per essere più vicino al cuore pulsante del ciclismo italiano ma più lontano - appunto - dai suoi genitori a Messina, per avere l’opportunità di fare il salto nelle categorie giovanili che gli sarebbe stato impossibile fare in Sicilia (per carenza di squadre, di gare e di tutto il contesto necessario per un ragazzo che vuole diventare un grande ciclista).
22 anni dopo lo è diventato, un grande ciclista, e oggi si ritira al termine di una carriera che ha pochi eguali sia fra i suoi coetanei che nella storia del ciclismo italiano. Le sue vittorie sono però solo uno dei motivi per cui Vincenzo Nibali verrà ricordato a lungo. Certo, questo non significa che non siano importanti, tutt’altro. Nibali ha vinto due volte il Giro d’Italia, una volta la Vuelta di Spagna, il Tour de France del 2014 - il suo fiore all’occhiello. E poi le classiche: due volte il Lombardia, due volte il Campionato italiano, ha fatto incetta di semi-classiche italiane e poi, ancora, il capolavoro nella Milano-Sanremo conquistata in quel magico 17 marzo 2018.
Quella corsa ci porta dritti a un altro motivo per il quale ricorderemo Vincenzo Nibali: ha vinto su ogni terreno, in ogni modo. Corse a tappe e classiche, indifferentemente. E se oggi ci stiamo abituando a questa eventualità, Nibali ha vissuto invece un periodo iperspecializzato in cui ogni ciclista faceva solo e soltanto il suo senza mai uscire dal seminato. Lo “Squalo dello Stretto” si è confrontato sui grandi giri contro i più forti ciclisti da corse a tappe della sua epoca e nelle Classiche contro un gruppo di favoriti che era completamente diverso. Contador, per fare un nome di uno che è probabilmente il migliore nelle corse a tappe del periodo-Nibali, ha corso pochissime Classiche nella sua pur lunga carriera. Ne ha vinta una sola (la Milano-Torino nel 2012) e non è mai stato veramente competitivo su quel terreno.
Dall’altra parte, i grandi specialisti delle Classiche del periodo-Nibali non sono mai stati veramente competitivi nelle grandi corse a tappe, o comunque non sono mai stati neanche vicini ai livelli del siciliano. Nemmeno Valverde che, pure essendo stato il miglior interprete delle classiche vallonate dello scorso decennio, dopo la Vuelta del 2009 non è più stato un serio pretendente alla vittoria in un grande giro (nonostante i vari piazzamenti sul podio) e anzi nel Tour vinto da Nibali è arrivato quarto con un distacco di oltre 9 minuti.
Insomma, Nibali è stato senza ombra di dubbio uno dei più grandi ciclisti da corse a tappe della sua epoca, insieme a Contador e Froome, certo, ma con qualcosa di speciale. Perché contemporaneamente è stato anche un grande protagonista delle Classiche, dove è riuscito a togliersi tante soddisfazioni e ha raccolto anche tanti rimpianti, come il Mondiale di Firenze, le Olimpiadi di Rio (che in accezione ampia possiamo considerare come Classiche), la Liegi vinta da Iglinskiy.
Si può dire che non è stato il migliore né nell’uno né nell’altro campo, ma il solo fatto di essere stato tra i migliori in entrambi lo proietta in un’altra dimensione rispetto ai one-trick-pony che hanno caratterizzato il ciclismo dello scorso decennio.
Proprio i ricordi di Rio, Firenze e Liegi, ci portano dritti infine al terzo motivo per il quale ricorderemo Vincenzo Nibali.
Rimpianti
Una delle teorie che girano intorno a Nibali è che in realtà sia stato solo molto fortunato perché in quasi tutte le sue vittorie non si è mai confrontato contro quei due mostri sacri che erano Contador e Froome. Di aver vinto, insomma, solo per l’assenza di avversari credibili o per le cadute altrui.
Come in quel 2016, quando vinse il Giro strappando la Maglia Rosa a Esteban Chaves nell’ultima tappa di montagna, che a sua volta l’aveva tolta il giorno prima a Steven Kruijswijk, caduto nella discesa del Colle dell’Agnello per inseguire uno scatenato Nibali all’attacco.
In fondo alla discesa, Nibali avrebbe trovato Michele Scarponi ad aspettarlo per lanciarlo verso l’ultima salita nell’estremo tentativo di ribaltare un Giro d’Italia che sembrava perso.
Qui, nell’ultima tappa di montagna, Vincenzo Nibali scopre in diretta di aver appena vinto il Giro d’Italia e la prima cosa che fa è abbracciare i genitori di Chaves arrivati per complimentarsi con lui, il grande campione che aveva appena battuto il loro giovane figlio.
In realtà la carriera di Nibali, tra una vittoria e l’altra, è costellata da tanti piccoli episodi sfavorevoli. Tante situazioni che - in un modo o nell’altro - gli hanno tolto qualcosa di importante.
La prima fu la caduta in Maglia Rosa nella tappa di Montalcino al Giro 2010, quando si ritrovò costretto a inseguire e poi a condurre un Giro in cui era partito per essere di totale appoggio a Ivan Basso. Nibali terminò al terzo posto dopo aver portato il suo capitano a chiudere la rimonta su David Arroyo, ma come sarebbero andate le cose senza quella caduta? Le gerarchie in casa Liquigas sarebbero state rovesciate con due anni d’anticipo? E cosa sarebbe successo a quel punto? La scivolata di Montalcino gli fece perdere la Maglia Rosa in quella tappa e contestualmente la possibilità di giocarsi le sue chance nel resto del Giro. Riuscì comunque a vincere una tappa, quella del Monte Grappa, con un attacco solitario in discesa. Riuscì anche, come abbiamo detto, ad arrivare sul podio, buttandosi alle spalle gente del calibro di Cadel Evans e Alexandre Vinokourov.
La seconda batosta arrivò invece sulle strade della Liegi-Bastogne-Liegi 2012. Nel falsopiano in cima alla Roche-aux-Faucons i grandi favoriti si guardano mentre riprendono fiato e parte Nibali. Va via in discesa, guadagna, guadagna, resiste, lo inseguono ma tiene botta. Sull’ultima salitella di Ans, però, Maksim Iglinskiy lo riprende, lo affianca e - più fresco - lo lascia lì a gustarsi quell’amarissimo secondo posto. Una sconfitta terribile, per come è maturata. Nibali aveva scelto i tempi giusti alla perfezione, come quando nei vecchi PES beccavi l’angolazione giusta per tirare a incrociare sul secondo palo ed era sempre, sistematicamente, goal. Ecco, Nibali quel giorno la posizione giusta l’aveva trovata, aveva tirato con tutta la forza che aveva in corpo e “il pallone” se n’era andato verso l’incrocio dei pali dalla parte opposta.
Sul più bello, invece, tutto era finito su quella rampetta di un paio di chilometri che a quei tempi portava verso il traguardo di Ans. Per carità, Iglinskiy era un bel ciclista, gran pedalatore, anche se venne squalificato per una positività all’EPO meno di due anni dopo. Quella Liegi, però, è ancora - giustamente - sua, rimanendo come uno dei più grandi rimpianti di Nibali.
Il terzo momento arriva quattro anni dopo. In mezzo c’è stato il Mondiale di Firenze del 2013, con Nibali che cade scivolando su delle strisce pedonali bagnate, si rialza, spende energie preziose per rientrare, si infila nell’azione decisiva con Valverde, Rodriguez e Rui Costa. Ma a quel punto le energie sono poche, il gioco di squadra della Spagna sembra funzionare - almeno fino all’ultimo fatidico chilometro - e lo taglia fuori dai giochi.
Dicevamo però di quel terzo rimpianto, alle Olimpiadi di Rio del 2016. Nibali ha vinto il Giro d’Italia pochi mesi prima, ha corso il Tour per prepararsi al meglio e ora eccolo lì a Rio a puntare alla vittoria con la Nazionale italiana (sempre a proposito della trasversalità della sua carriera). La squadra di Cassani si muove bene, fa selezione e apparecchia l’attacco di Nibali che arriva puntuale come le tasse. Nibali va via, con lui rimangono solo Henao e Majka; è medaglia sicura, resta da vedere il colore (in realtà, viste le condizioni fisiche già traballanti di Majka e con il solo Henao a giocarsela, la medaglia è virtualmente più d’oro che bronzo).
A 11 chilometri dal traguardo, però, nell’ultima discesa, la regia stacca improvvisamente dagli inseguitori per dare la linea alla motoripresa che seguiva quei tre fuggitivi. La scena è confusa, si vede una macchina ferma, una bici a terra e poi un uomo seduto sull’asfalto di spalle che si tiene un braccio fermo al petto. Ha la maglia bianca, quella di Vincenzo Nibali; lo sguardo perso nel vuoto, incredulo.
Ha preso con il pedale un piccolo muretto a bordo strada che serve a separare l’asfalto dalla vegetazione circostante. La bici gli è schizzata via sbalzandolo dalla sella. Nibali si tiene il braccio, forse già sa di essersi rotto la clavicola. Sicuramente sa di aver perso l’occasione più grande della sua vita, una di quelle che passano solo una volta e devi saperla cogliere al volo. Nibali l’aveva colta, quell’occasione. L’aveva aspettata, cercata, sfruttata; se l’era costruita minuziosamente, con l’appoggio della squadra. L’aveva assaporata e ancora una volta la vittoria gli era invece sfuggita come sabbia fra le dita, all’ultimo respiro.
Ma paradossalmente ricorderemo Vincenzo Nibali anche per le sue sconfitte. Per il fatto, cioè, che è stato un campione imperfetto, con cui si poteva empatizzare, lasciandoci l’impressione che abbia vinto meno di quanto avrebbe potuto. Non perché avesse un talento soverchiante, per l’appunto, ma perché quelle vittorie che gli sono sfuggite all’ultimo se le era costruite alla perfezione, rendendo la beffa finale ancora più amara. Controluce in quelle cadute possiamo vedere il suo vero talento, quella capacità di costruirsi le vittorie, anche andando oltre i suoi limiti, anche in gare in cui sembrava improbabile che potesse vincere.
Sisifo
Nibali, dunque, non è stato il più forte ciclista della sua generazione, né il più vincente. Anche paragonandolo ai grandi del passato, il ciclista siciliano non ha la classe di Gimondi, non ha dominato come Coppi, non ha avuto la longevità di Bartali, l’agilità di Bettini, la potenza di Bartoli, il talento di Pantani. Non era, in fondo, un fenomeno generazionale, come vengono spesso definiti gli atleti che ridefiniscono un’epoca.
E questo ci parla ancora di più della sua forza. Nibali ha saputo invece sfruttare le sue armi migliori, piegare le circostanze a suo favore mettendosi in condizione di essere sempre competitivo. Ha sfruttato al meglio tutte le occasioni che gli sono capitate e ne ha sprecate tante altre - come abbiamo visto. Questo forse l’ha portato a pensare di essere più grande di quanto sia stato in realtà, o comunque a fraintendere le cause della sua grandezza. Quando al Giro 2019 nel dissing con Roglic invitò lo sloveno ad andare a casa sua ad ammirare la bacheca dei suoi trofei, Nibali non capiva che la sua superiorità nei confronti di Roglic non era data dalla differenza di vittorie, né dal talento o dalla forza pura. La grandezza di Nibali sta nella capacità di essere stato sempre presente quando c’era bisogno di lui. Un eroe che il ciclismo italiano ha spremuto fino all’ultima goccia per cercare di nascondere le proprie carenze, e che si è lasciato spremere sacrificando tutto quando c’era da mettersi a disposizione.
Nibali ha retto sulle sue spalle per un decennio tutto il peso del nostro ciclismo, senza mai crollare. Vittima della maledizione di Sisifo, ha passato la sua carriera a trascinare la sua pietra su in cima alle montagne senza che questa potesse però rimanere lì sopra. Di fatto Nibali è rimasto senza eredi e all’orizzonte ancora non se ne vedono.
In questo continuo dedicarsi anima e corpo alla salvezza del movimento, Nibali si è però trasformato in una sorta di personaggio nazionalpopolare, elogiato dai media fino allo sfinimento. Talmente tanto da farlo risultare indigesto a qualcuno, sostanzialmente un sopravvalutato. La monopolizzazione nei media del discorso ciclistico italiano da parte di Vincenzo Nibali è stata in questi anni un’arma a doppio taglio per la sua popolarità, per quanto fosse inevitabile.
Il rapporto con il pubblico italiano è stato controverso anche da un altro punto di vista, quello che lo metteva a paragone con Marco Pantani.
Un’eredità diventata inevitabile dopo il Tour vinto nel 2014, il primo da parte di un ciclista italiano proprio dopo Pantani nel 1998, ma allo stesso tempo scomoda, pesantissima e opprimente. Il paragone con Pantani, per paradosso, invece di mettere in prospettiva la grandezza di Nibali, ha finito per fargli ombra, non tanto per i risultati sportivi quanto per le diversissime personalità. Come ha detto il DS dell’Astana, Giuseppe Martinelli, «[Nibali e Pantani] si possono assomigliare per dei successi che hanno avuto, ma fuori dalla bici non potevano essere più diversi». Per quanto riguarda il rapporto con il pubblico, questo confronto - che lo stesso Nibali ha cavalcato ricevendo in regalo la Maglia Gialla di Pantani dalla madre di Marco prima del Tour de France del 2014 e promettendo di riportarle la propria quando l’avesse vinta - ha finito per schiacciarlo. Troppo dirompente il ricordo di Pantani, troppo grigio lo stile di Nibali. Come ha scritto Giovanni Fontana proprio qui sull’Ultimo Uomo all’indomani di quella storica vittoria del Tour: «Nibali non sarà mai Pantani. Non lo sarà mai per il tipo di ciclista che è: troppo completo, troppo equilibrato, a confronto del migliore essere umano che abbia mai pedalato su una salita (scusa, Charly Gaul). Non lo sarà mai perché non può colpire l’immaginario della gente come lo ha fatto Pantani, fortissimo e disperato, tanto da diventare l’epitome del ciclista maledetto».
C’è da dire che il confronto potrebbe anche essere letto al contrario, almeno rimanendo esclusivamente sulla loro carriera su strada. C’è chi ha scritto, come Paolo Tomaselli sul Corriere della Sera, che in realtà, proprio perché non aveva il talento e la personalità debordante di Pantani, Nibali si può considerare più grande del suo predecessore per i risultati che ha raggiunto. Ciò che è certo è che le vittorie con cui Vincenzo Nibali ha coperto le mancanze del ciclismo italiano sono state tutte costruite sapientemente, sfruttando i punti di forza del siciliano, che ha saputo apparecchiarsi le corse per mettersi in condizione di arrivare in trionfo al traguardo. All’inizio della sua carriera poteva contare su un buono spunto nello scatto e una grande abilità in discesa, su cui ha costruito la vittoria nella tappa del Monte Grappa al Giro 2010, ad esempio. Con il passare degli anni, però, Nibali ha imparato che la caratteristica che davvero lo rendeva diverso dagli altri era la capacità di avere ancora energie quando i suoi avversari si spegnevano tutto intorno a lui. La resistenza, potremmo dire in una sola parola. Quella cosa per cui a un certo punto, superato un determinato chilometraggio, un certo dislivello, ai corridori normali si spegne la lampadina. Per Nibali, invece, quello era il momento di forzare la mano, di piegare le sorti della gara a suo favore.
Come dicevamo in occasione della vittoria alla Milano-Sanremo del 2018, quindi, in un certo senso Nibali «è sempre stato quasi “costretto” a dominare le corse che ha vinto, e non avrebbe potuto fare altrimenti», proprio per questa sua necessità di sfruttare la sua resistenza fuori dall’ordinario. Questo ha fatto sì che nelle sue vittorie - soprattutto nei grandi giri - si palesasse sempre l’ombra dell’assenza di avversari degni, tali da certificarne in un certo senso la grandezza. Il punto, invece, è che proprio la necessità di Nibali di dominare le corse per arrivare a vincerle, ha fatto sì che i suoi avversari sembrassero incapaci di competere su quel piano, ritrovandosi ridotti a semplici comparse.
Non erano, cioè, i suoi avversari ad essere scarsi ma era Nibali a essere drasticamente superiore. Era il siciliano che alzava il livello, portandolo là dove gli altri non potevano in alcun modo arrivare.
Gli si rimprovera di non aver mai affrontato Contador e Froome e di aver vinto il Tour de France 2014 solo in virtù delle loro assenze, ma ci si dimentica del capolavoro fatto nella tappa del pavé quando Froome fu costretto al ritiro e Contador si beccò più di due minuti compromettendo un Tour che comunque sarebbe terminato per lui di lì a poco per una brutta caduta prima delle montagne.
Nibali quindi ha vinto il Tour dopo il ritiro dei suoi due principali avversari ma l’errore è pensare alle due cose come direttamente consequenziali, in uno strano e perverso rapporto causa effetto. Si dovrebbe invece ragionare in termini di what if, e allora si potrebbe disquisire del fatto che quel Nibali era la miglior versione di Nibali che si sia mai vista, tanto da riuscire a fare il vuoto in quella famosa tappa del pavé, con la Maglia Gialla già saldamente addosso. Capace poi di stroncare le resistenze di tutti gli altri partecipanti, quasi ridicolizzandoli. E forse, paradossalmente, è proprio per questa sua straripante superiorità che la vittoria di Nibali al Tour viene sminuita.
Eppure, nella secolare storia del ciclismo, gli italiani capaci di trionfare sulle strade di Francia si contano sulle dita delle mani come in una breve filastrocca, e non è un caso: Bottecchia, Bartali, Coppi, Nencini, Gimondi, Pantani, e Nibali appunto. A distanza di anni nessuno si chiede più contro chi questi uomini hanno vinto il loro Tour de France, con quanto distacco, in che condizione. O addirittura in quale momento delle loro carriere. Spesso ci dimentichiamo anche in che modo quei Tour de France sono stati vinti.
Quindi è pressoché certo che anche alla vittoria di Vincenzo Nibali verrà riconosciuta col passare degli anni la giusta grandezza. E, forse, in un futuro che sembra tutt’altro che roseo per il ciclismo italiano, riusciremo anche a capire cos’è che rende Vincenzo Nibali, lo “Squalo dello Stretto”, nato a Messina il 14 novembre del 1984, uno dei più grandi ciclisti italiani di sempre.