La Regina degli Scacchi non è una storia vera. La protagonista, Beth Harmon, sembra a tutti gli effetti una campionessa del passato, ma non è mai esistita. Eppure se la recente serie prodotta da Netflix sta riscuotendo così tanto successo, affermandosi tra i migliori serial televisivi dell'anno e alimentando il trend già in crescita degli scacchi, non è merito solo del talento di Anya Taylor-Joy, attrice che impersona Beth Harmon, o della narrazione intrigante, precisa e ispirata, ma anche e forse soprattutto per la sua verosimiglianza.
Gli scacchi non sono nuovi a rappresentazioni sul grande e sul piccolo schermo, e del resto la sacralità dei gesti dei giocatori e la carica metaforica dello sport stesso sono sponde accattivanti per il cinema e per la televisione, con esempi celebri come Il Settimo Sigillo e Blade Runner. Ma tra gli appassionati, ogni volta che in TV o al cinema salta fuori una nuova scena scacchistica, scatta la corsa a individuare inesattezze ed errori - a volte, c’è da dire, marchiani. Non è stato così con La Regina degli Scacchi, che si è avvalso della consulenza di Bruce Pandolfini (coach e insegnante, che aveva già assistito Walter Tevis nella stesura del romanzo omonimo, da cui la serie è tratta) e Garri Kasparov.
Pandolfini, classe 1947, si è occupato della ricostruzione della scena competitiva americana degli anni '60, che fa da sfondo agli esordi di Beth dal campionato del Kentucky a quello nazionale: una riproposizione fedele di quello che ai tempi era un circuito dalle risorse modeste e scarsamente organizzato, dove si giocava più per passione che per vera ambizione, tra palestre scolastiche e sale da ballo. Kasparov, a cui era stato addirittura proposto di interpretare il personaggio di Vasily Borgov, ha curato invece gli incontri internazionali, facendo sì che ogni partita messa in scena nella serie ripercorresse le mosse di una partita realmente disputata. I puristi se ne sono accorti, e ci sono pagine e canali che hanno sviscerato ogni mossa (come il canale YouTube del croato Antonio Radic, in arte agadmator, che ha raccolto oltre due milioni di visualizzazioni per il suo video sulla serie).
C’è ad esempio una partita fra Petrosian e Akopian degli anni '80, ma anche un famoso Nezhmedtinov contro Kasparian del 1955, e così via fino all'ultima sfida tra Beth e Borgov per la quale Kasparov ha vagliato oltre settecento alternative prima di decidersi su un incontro fra Vassily Ivanchuk e Patrick Wolff, disputato a Bienna, in Svizzera, nel 1993 - una perla conosciuta fra i cultori della disciplina per la sua bellezza. I creatori della serie hanno addirittura ripreso alcuni dei tic di Ivanchuk che, come Beth Harmon, aveva l'abitudine di fissare il soffitto in cerca d'ispirazione prima di una mossa. Non solo: Kasparov ha “migliorato” l'incontro, aiutandosi con la propria esperienza e il probabile ausilio di un motore scacchistico di ultima generazione, per ideare un finale ancora più combattuto e affascinante.
Ma gli scacchi sono molto di più che semplici mosse su una scacchiera, e i consulenti hanno lavorato a lungo con gli attori per fargli assimilare il linguaggio del corpo, l'etichetta da torneo, la postura, i vari e peculiari modi di impugnare i pezzi, invitandoli a osservare i professionisti in azione e imitarne le movenze, come in una coreografia. E questo non senza lasciare spazio anche alla creatività degli attori: Anya Taylor-Joy, ad esempio, per sviluppare uno stile personale sulla scacchiera, ha detto di essersi ispirata proprio alla danza. Le rare licenze artistiche servono perlopiù a evitare allo spettatore le lunghe pause che punteggiano una partita, e a permettere ai giocatori di scambiarsi qualche battuta di dialogo nei momenti critici: il risultato è una rappresentazione che ha convinto gli appassionati e conquistato il pubblico generalista, a cui non viene richiesta una conoscenza approfondita degli scacchi ma che, intuitivamente, sa accorgersi della verosimiglianza.
Insomma, i parallelismi tra i personaggi de La Regina degli Scacchi e la realtà sono molti. Tranne ovviamente uno, per certi versi il più importante, e cioè che non è mai esistita una donna che sia riuscita a laurearsi come migliore giocatrice del mondo. Un aspetto su cui per forza di cose la finzione ha dovuto colmare il vuoto della realtà. Una realtà che alle donne di spazio ne ha lasciato molto poco e che non è così facile da spiegare.
Perché negli scacchi ci sono così poche donne
Partiamo quindi dai numeri. Secondo i dati registrati dalla FIDE nel novembre 2018, ci sono al mondo 668.785 giocatori competitivi di scacchi, di cui soltanto 99.325 (il 15% circa) sono donne. Tra i migliori cento giocatori del mondo secondo il rating Elo (un sistema di valutazione dei giocatori di scacchi) troviamo soltanto una donna, la cinese Hou Yifan alla posizione 88, quattro volte campionessa del mondo femminile. Come osservato da Håkon Hapnes Strand, esperto di scacchi norvegese che ha realizzato un quadro demografico dello sport nel suo paese, persino in Norvegia, dove la moda degli scacchi è forte grazie all'influenza del campione del mondo in carica Magnus Carlsen, la parità di genere è molto lontana, con sole 113 giocatrici a fronte di 2.536 giocatori maschi - ovvero il 4,3% del totale. Il rating medio degli uomini è 1.364, mentre quello delle donne è 1.285 e soltanto una delle giocatrici può vantare un rating superiore a 2.300.
Se ci concentriamo solo sui praticanti di giovane età, però, qualcosa sembra muoversi, forse proprio per merito dell'effetto-Carlsen. L'età media delle giocatrici donne è infatti di 25,6 anni, mentre quella degli uomini è 41,8 anni. Non solo: nelle categorie giovanili, il rating medio delle ragazze è superiore a quello dei maschi, 1.184 contro 1.056. Al di là della rilevazione norvegese, che sembra suggerire che l'appianamento del campo sia solo una questione di accesso e interesse per la disciplina, la panoramica del mondo degli scacchi descrive una schiacciante predominanza maschile, che si traduce anche in un sostanzioso wage gap (il montepremi maschile per i campionati mondiali è un milione di euro, il doppio di quello femminile) e in stereotipi culturali.
La Regina degli Scacchi mostra quanto sarebbe stato difficile, per una ipotetica Beth Harmon, muoversi verso le eccellenze di un sistema così marcatamente patriarcale: avversari e compagni di allenamento la trattano in verità da pari a pari, consapevoli che la passione per gli scacchi non è una questione di genere, ma per la stampa, per la politica americana, per la famiglia e per i coetanei Beth Harmon rimarrà sempre un'anomalia. Lei, che ha un rapporto combattuto con le figure maschili della sua vita, giungerà infine a una laboriosa realizzazione del proprio ruolo nel mondo, rendendosi conto che il vero femminismo – e la serie rappresenta questo tema con eleganza ed efficacia – non è un concetto da forzare sugli altri, ma un modo di essere se stesse senza cedere alle pressioni, senza dover dimostrare nulla a nessuno: «Penso che sia molto più facile giocare a scacchi senza un pomo d'Adamo», risponde con leggera ironia ai giornalisti che la provocavano nella trasferta in Russia.
Nella serie la prima reazione di Beth Harmon a questo sistema è un moto di rabbia, ostentando la propria femminilità e la voglia di emancipazione anche a costo di autodistruggersi. In questo senso, la sua dipendenza da alcool e farmaci rimanda a una concezione “artistica” della disciplina, all'idea dello scacchista “geniale e dannato” come Paul Morphy, citato nella serie, o in tempi più recenti Alexander Alekhine e Mikhail Tal. Per Beth Harmon, comunque, rimane principalmente una via di fuga per allentare la pressione delle aspettative, molte delle quali legate al suo genere.
Negli stessi anni '60 in cui è ambientata la serie, ad esempio, Bobby Fischer si permetteva dichiarazioni come: «Tutte le donne sono scarse. Sono deboli, paragonate agli uomini. Non dovrebbero giocare a scacchi, sono come principianti». Non si deve pensare che sia un punto di vista anacronistico, tutt'altro. Nigel Short, Grande Maestro inglese, nel 2015 sollevò un vespaio quando suggerì alle donne di «accettare con grazia il fatto di possedere abilità diverse dagli uomini. Non hanno un cervello adatto agli scacchi. Io non ho alcun problema ad ammettere che mia moglie ha un'intelligenza emotiva superiore alla mia, e lei non s'imbarazza nel chiedermi di spostare l'auto dal garage». Quando poi Judit Polgár, probabilmente la migliore giocatrice donna di sempre, batté proprio Nigel Short, Amanda Ross, direttrice di un chess club londinese, commentò in diretta televisiva: «Polgár deve aver portato il suo cervello da uomo, oggi».
La battaglia per la parità tra uomini e donne sulla scacchiera è insomma anche una questione di schermaglie psicologiche, simili alla prudente fase di studio nell'apertura di una partita. Ma affondano anche in un dibattito accademico che è più acceso di quanto si pensi. Nigel Short, con le sue opinioni, faceva riferimento a studi come Explaining Male Predominance At The Apex Of Intellectual Achievement pubblicato dall'australiano Robert Howard nel 2014: una teoria controversa, che cerca di spiegare un ipotetico “vantaggio intellettivo” maschile sviluppatosi per motivi legati all'evoluzione, e che tuttavia ha trovato terreno fertile nel mondo degli scacchi moderni, dove le capacità femminili godevano purtroppo già di poca stima. La stessa Judit Polgár, titolare persino di una vittoria contro Magnus Carlsen nonché dell'ottavo posto nella classifica mondiale nel 2005, rappresenta però già di per sé un case study in grado di ribaltare le posizioni di Howard e Short. Il padre László Polgár, anch'egli psicologo, la addestrò agli scacchi fin da piccola, insieme alle sorelle Susan e Sophia, allo scopo di dimostrare la propria teoria, opposta a quella di Howard: il talento innato ha un'importanza minima, non esistono differenze rilevanti fra l'intelletto maschile e quello femminile, e i risultati dipendono al 99% da impegno e dedizione. Un caso virtuoso, sicuramente, ma raro, qualcuno potrebbe obiettare - troppo raro per convincere l'opinione collettiva. La realtà, però, è che quello di Judit Polgár non è un episodio isolato.
Le donne nel passato degli scacchi
Andando alla ricerca di altre Beth Harmon realmente esistite incontriamo per esempio la storia di Vera Menchik che, prima di morire nel 1944 sotto le bombe sganciate su Londra dagli aerei nazisti, si era laureata campionessa del mondo femminile, la prima della storia, e si era anche tolta lo sfizio di battere avversarsi – maschi – altolocati, come il baronetto George Alan Thomas, impomatato campione di badminton. C’è poi la storia di Maria Teresa Mora Iturralde, che meriterebbe una serie tv tutta sua. Nata a Cuba, un paese dove gli scacchi erano trattati con la stessa serietà dell'Unione Sovietica e patria del leggendario José Capablanca, Maria Teresa Iturralde studiò scacchi con lo stesso Capablanca, conquistò giovanissima i suoi primi tornei e nel 1922 divenne campionessa nazionale, battendo una lunga serie di avversari maschi. Capablanca spese parole di ammirazione per lei nella sua autobiografia, e si narra che l'allieva riuscì persino a battere il maestro in una serie al meglio delle tre partite. Eppure, dopo il 1922 di Maria Teresa Iturralde si perdono quasi le tracce, impegnata soltanto in competizioni femminili in giro per l'America Latina, vittima di un sessismo sistemico che, se non impediva ufficialmente alle donne di competere con gli uomini, faceva di tutto per non incoraggiarle.
Anche questa storia, letta con gli occhi di oggi, sembra un'eccezione. Ma in realtà non è proprio così. Indagando le radici del gioco, fino al chaturanga indiano del quindicesimo secolo, scopriamo che gli scacchi inizialmente erano ritenuti una disciplina dove le donne sapevano e potevano eccellere. La leggenda racconta che una volta il re Udaya Varma, del Kerala settentrionale, era impegnato in una difficile partita e non sapeva trovare la giusta strategia. La regina allora, che osservava distrattamente dalla stanza accanto, cominciò a cantare una filastrocca disseminando nelle strofe indizi sulle mosse vincenti. Il re decifrò il messaggio della moglie, e vinse la partita. Ma anche al di fuori della leggenda, la storia degli scacchi è costellata di storie di giocatrici di successo. Le ha raccontate Hana Schank, giornalista e scrittrice americana, nonché talentuosa giocatrice di dama e scacchi, in un articolo intitolato eloquentemente “Perché abbiamo un Bobby Fischer e non una Bobbi Fischer?”, scritto con l'aiuto del saggio Birth of the Chess Queen di Marilyn Yalom.
Nel pezzo si sottolinea ad esempio come nell'antica Spagna era consuetudine che le donne si dedicassero agli scacchi nel periodo di riposo che seguiva il parto. Una storia francese del 1200 narra di un cavaliere che, per ottenere la mano della figlia di un emiro, doveva prima batterla a scacchi. E in alcune scuole tedesche del 1500 gli scacchi erano parte integrante del programma, sia per i bambini che per le bambine. Gli scacchi erano un gioco praticato per svago e sfida individuale, una disciplina dalle sfumature artistiche dove brillavano intuizione, sensibilità, inventiva: tutte capacità in cui le donne erano ritenute particolarmente dotate. Ma poi, dal 1700, gli scacchi si spostarono dai salotti privati verso i bar e i pub delle grandi città, diventarono una pratica competitiva, più complessa e tecnica: le partite erano brutali lotte per la predominanza più che sfoggi di intuito, e pertanto erano un'attività non più consigliata per le giovani nobildonne. Anche oggi, opinione rinforzata dal gioco asettico e impeccabile dei motori scacchistici, si ha l'impressione che gli scacchi premino un tipo di intelligenza militare, matematica, schematica: ma se anche così fosse, siamo sicuri che si tratti di un tipo di intelligenza prettamente maschile? Non sarà forse un altro bias cognitivo?
Il professor Wei Ji Ma della New York University ha recentemente analizzato i dati della scena scacchistica indiana e ha concluso che l'achievement gap delle donne (i risultati inferiori agli uomini) non sono altro che un normale riflesso del participation gap (il minor numero di donne partecipanti). Allargando però l'esperimento alle migliori venti federazioni nazionali, il matematico José Camacho Collados ha ridimensionato le conclusioni di Wei Ji Ma, pur concordando con il suo proposito: il nocciolo della questione, a suo modo di vedere, va ricercato in più ampi fattori sistemici socio-culturali, più che nei dati statistici delle singole federazioni. A questo proposito, le osservazioni decisive arrivano forse da un altro studio, guidato dall'economista Maria Cubel, che ha notato come le donne tendano a produrre performance inferiori alle loro capacità (underperform) quando giocano contro un uomo. Se si affrontano due giocatrici donne con il medesimo rating Elo, osserva Cubel, ciascuna ha il 50% di possibilità di vittoria. Ma se una donna affronta un uomo con il medesimo rating Elo, nel suo campione di dati la possibilità di vittoria scende al 46%, come se l'uomo avesse un rating superiore di trenta punti. È una differenza, nota Cubel, che si può apprezzare in particolare nelle delicate fasi di mediogioco dove la partita abbandona gli schemi consolidati e i giocatori iniziano a improvvisare. Qui, secondo lo studio, le donne tendono a commettere più errori rispetto agli uomini. Secondo l'ex-campionessa nazionale indiana Aarthie Ramaswamy questo dipenderebbe dal peculiare “killer instinct” degli uomini, che sarebbero «più disposti a correre un rischio sacrificando un pezzo, mentre le donne sono più calcolatrici e prudenti». Secondo questo assunto, Beth Harmon giocherebbe con un cervello decisamente maschile perché ha uno stile aggressivo e spregiudicato, che mette subito alle corde gli avversari. Per Maria Cubel, però, questo assunto sarebbe di fatto antiscientifico e le peggiori performance delle donne andrebbero spiegate attraverso la teoria della “minaccia indotta da stereotipo” (stereotype threat, Steele e Aronson, 1995). Detta in maniera semplice: quando un gruppo è vittima di uno stereotipo negativo, l'ansia e le pressioni subite influenzano il comportamento rischiando di confermare quello stesso stereotipo, come in una forma di sudditanza psicologica.
Una variabile che è invisibile perché interiorizzata se è vero quello che dice persino la fortissima giocatrice indiana Koneru Humpy, secondo cui la superiorità maschile negli scacchi «è semplicemente un fatto da accettare»
Come gli scacchi possono aprirsi alle donne
Come fare allora a combattere questo stereotipo? Secondo giocatrici come Judit Polgár o Irina Krush, i tornei a esclusiva partecipazione femminile non aiutano, ma rischiano casomai di rinforzarlo facendo apparire gli scacchi femminili come uno sport di serie B. Soltanto accettando la piena competizione con gli uomini nei tornei open le donne potranno trovare le motivazioni necessarie a emergere.
Secondo altre, invece, come Jennifer Shahade, i tornei femminili sono indispensabili per la promozione del gioco, perché le donne rischierebbero di incontrare ostacoli insormontabili all'ingresso nel mondo competitivo, perdendo così ogni motivazione agonistica. Riproducendo in piccolo, quindi, quegli squilibri che porta con sé l’intera società. La Regina degli Scacchi, in questo senso, muove i suoi passi seguendo molti degli studi scientifici che abbiamo citato: non ci sono differenze rilevanti nell'intelligenza maschile o femminile, ci sono soltanto contesti socio-culturali più o meno favorevoli a un genere o all'altro, o casi dettati dalla sorte.
La storia di Beth Harmon, a questo proposito, pone un interessantissimo what if: cosa sarebbe successo se Bobby Fischer fosse stato una donna? Non è un mistero che la protagonista sia ritagliata intorno alla figura di Fischer. Anch'egli fu un bambino prodigio, emerso nella scena scacchistica degli anni '60 partendo dal campionato del Kentucky, e come Beth amava aprire le partite muovendo il pedone in e4. Primo americano a sfidare ad armi pari i maestri russi battendo Boris Spassky (il Vasily Borgov della serie), Fischer era un giocatore geniale ma anche un individuo problematico, capriccioso, combattuto, spesso scontroso nelle relazioni con i media, emigrato in Islanda dopo i continui scontri con il governo americano. Come suggerisce la serie, con la popolarità di Bobby Fischer nel 1968 una ipotetica Beth Harmon sarebbe magari potuta diventare un'icona pop e un simbolo di emancipazione femminile.
Non è detto, però, che questa possibilità sia svanita per sempre. Gli scacchi stanno vivendo in questi ultimi anni una continua crescita, partendo dall'immaginario cool promosso dagli ultimi sfidanti per il titolo del mondo, Magnus Carlsen e Fabiano Caruana, ma anche dal successo del Grande Maestro Hikaru Nakamura come streamer su Twitch, dove allena in diretta campioni degli eSports e celebrità del web con uno stile ironico e moderno (anche lui, come Harmon e Ivanchuk, ha mostrato l'insolita tendenza a fissare il soffitto quando riflette su una mossa, al punto che i follower hanno scatenato i meme immaginando che sul soffitto dello studio di Hikamura sia installato uno schermo che proietta in tempo reale i suggerimenti del motore scacchistico Stockfish). Nei mesi di lockdown il suo canale ha raccolto oltre 350mila spettatori, e si stima che la popolarità degli scacchi su Twitch sia cresciuta di sei volte da marzo.
L'effetto-Beth Harmon del resto, un po' come l'effetto-Carlsen in Norvegia, sta già dando i suoi frutti: i download delle app scacchistiche sono ovunque in crescita, e non resta che attendere un nuovo flusso di giovani giocatrici. Judit Polgár disse una volta che gli scacchi stavano tornando a essere sempre più uno sport che una scienza: questo, ai suoi occhi, li rendeva una disciplina più artistica. La storia di Beth Harmon potrebbe dare un'ulteriore spinta a questa tendenza, spostando con una spallata i bias cognitivi e i meccanismi sistemici di emarginazione, in virtù della passione per un gioco che non ha genere.