Il disturbo da gioco d’azzardo è una malattia e come tale deve essere trattata, anche quando coinvolge dei calciatori. In questi giorni invece si sta parlando molto, e con poca cognizione di causa, di “ludopatia” (termine tecnicamente improprio ma di uso comune) come fosse diagnosticabile guardando i profili social di una persona. Il ministro dello sport Abodi, ad esempio, ha detto che la «ludopatia va affrontata» senza però dire come (senza entrare in un argomento ampissimo: lo Stato funge da garante sul gioco d’azzardo, da cui però guadagna tantissimi soldi, spendendone poi una parte, sempre più consistente, in spese socio-sanitarie per curare gli affetti da disturbo da gioco d’azzardo), ma hanno detto la loro anche partiti politici (per esempio la Lega ha chiesto le dimissioni di Gravina), presidenti, presidenti politici, ex calciatori, giornali e noi tutti, in massa sui social.
I fatti, se qualcuno in questi giorni fosse stato su Marte. Indagando su delle piattaforme di scommesse illegali, la procura di Torino si è imbattuta nel nome di Nicolò Fagioli. Interrogato, il calciatore avrebbe confessato di aver scommesso su queste piattaforme (dove è più facile mantenere l’anonimato). Secondo la ricostruzione di Repubblica, Fagioli avrebbe scommesso anche su partite di calcio (ma non sulla Juventus). Per questo Fagioli si è poi autodenunciato alla procura della FIGC (come da nota della Juventus): secondo il comma 5 dell’articolo 24 del Codice di giustizia sportiva, infatti, a ogni tesserato di squadre professionistiche «è fatto divieto di effettuare o accettare scommesse, direttamente o indirettamente, anche presso i soggetti autorizzati a riceverle, che abbiano ad oggetto risultati relativi ad incontri ufficiali organizzati nell’ambito della FIGC, della FIFA e della UEFA».
Dall’analisi del telefono e del tablet di Fagioli sarebbero poi emersi i nomi di altri calciatori, anche se non è ancora chiaro quanti e in che misura coinvolti. I due finora raggiunti da un avviso di garanzia e un atto di perquisizione - mentre erano in ritiro con la Nazionale - sono Zaniolo e Tonali. È possibile che sia accaduto perché qualche ora prima erano stati dati in pasto all'opinione pubblica da Fabrizio Corona tramite la pagina Instagram Dillinger News. Perché un’informazione del genere sia in mano a lui e non a un vero giornalista (o solo alla procura) è meglio non chiederselo. In ogni caso Corona promette di fare a breve altri nomi di calciatori coinvolti (sul perché ci sia persino eccitazione riguardo queste rivelazioni ci siamo già espressi in un altro articolo).
Breve storia dei calciatori che scommettono
Quindi, quello che sappiamo finora è che Fagioli (e gli altri coinvolti) scommettevano, come un italiano su due, ma su piattaforme illegali (un reato punibile con un’ammenda di 516 euro). Il calciatore della Juventus, secondo la ricostruzione di Repubblica, avrebbe ammesso di averlo fatto anche sul calcio (reato sportivo punibile con una squalifica fino a tre anni) mentre per gli altri ancora non abbiamo informazioni a riguardo (Zaniolo avrebbe detto di aver giocato solo a Blackjack e Poker su un sito che non sapeva fosse illegale, se così fosse se la caverebbe con l’ammenda).
La prima cosa da dire è che non sembra ci sia stata da parte di nessuno la volontà di alterare l’esito di una loro partita per fini economici (ma anche per questo bisognerà aspettare la fine delle indagini). È facile fare confusione perché è il caso più “comune” in Italia, quello che, quando finisce sui giornali, viene definito calcioscommesse. Uno dei più famosi fu quello del 1980 chiamato anche Totonero, ma c’è anche Scommessopoli del 2011, solo per citare due indagini arrivate a toccare la Serie A (ma più si scende di categoria, più il problema è endemico). In questi casi - più gravi sotto tutti i punti di vista - i calciatori vengono pagati, spesso da associazioni a delinquere, per “truccare” l’esito di una partita. Non sarebbero quindi loro a scommettere, o almeno non direttamente, ma trarrebbero vantaggio dall’esistenza stessa delle scommesse.
La presenza di un forte elemento antisportivo in queste storie ha spesso coperto la possibilità di una correlazione tra i calciatori coinvolti e la loro passione, più o meno declinabile in un disturbo, per il gioco d’azzardo. È così strano che calciatori come Cristiano Doni, Andrea Masiello, Stefano Mauri, Luigi Sartor (per citare quelli più coinvolti negli ultimi casi, ma i nomi potrebbero essere tantissimi) siano finiti a truccare partite perché coinvolti in maniera problematica con l’universo delle scommesse?
Uno degli episodi più famosi legati al calcioscommesse, l'autogol di Masiello che poi avrebbe confessato «Quell'autogol lo feci per i soldi».
È una domanda che abbiamo preferito non farci. L’unico calciatore di cui si è storicamente parlato in relazione a un possibile disturbo del gioco d’azzardo è stato Giuseppe Signori, anche lui coinvolto in un caso di calcioscommesse e poi assolto a 10 anni di distanza. Se n’è parlato perché Signori è stato ossessivo nel manifestare questa sua passione (chiamiamola così: è controproducente dare del malato a qualcuno senza essere un dottore), diventando una macchietta, ma anche un parafulmine per gli altri, perché scommetteva anche sui Buondì e ci sembrava un vizio simpatico.
Secondo Roberto Di Martino, ex procuratore della Repubblica di Cremona che ha condotto l’ultima inchiesta sulle partite truccate, sarebbe però il 70% dei calciatori a scommettere in maniera più o meno forte e più o meno lecita. Il caso più famoso, per il protagonista coinvolto, è quello che riguarda Gianluigi Buffon. A maggio 2006 il suo nome (e quelli di Chimenti, Iuliano e Maresca, che però nessuno si è filato) è uscito durante le indagini su un giro di scommesse milionarie affidate a tre broker di Parma, mettendo anche a rischio la sua partecipazione ai Mondiali. A dicembre la sua posizione venne archiviata, perché l’ipotesi di una vera e propria associazione non trovò conferma. Buffon comunque disse di aver scommesso solo sul calcio estero (non sulla Juventus, come sembrava in un primo momento) fino a prima del novembre 2005, quando ai calciatori venne vietato di scommettere su tutte le partite, continuando poi a farlo solo su altri sport (evitando quindi anche possibili squalifiche). Gli toccò di nuovo nel 2012, ma in quel caso non fu neanche indagato (c’erano alcuni suoi assegni verso una tabaccheria che effettuava anche scommesse).
Anni dopo Buffon avrebbe parlato di quello come dell’attacco del più vergognoso ricevuto in carriera: «Mi dà fastidio che sia stata messa in dubbio la mia correttezza sportiva. Se ho scommesso - e mai sulle partite - è stato perché chi vive la nostra vita deve trovare una trasgressione. Io non vado in discoteca, non ho mai fatto uso di droghe, ho sempre avuto solo una donna. Scommettevo, ma quelli sono fatti miei. E da lì a vendere le partite, al riciclaggio, ad altre cose losche, ce ne passa». Le sue parole sono abbastanza indicative, per l’ambiguità del contesto a cui si riferiscono. Scommettere è una “trasgressione”? E lo è per un calciatore allo stesso modo che può esserlo per me che gioco ogni tanto prima del turno di Europa League?
Da questo punto di vista è interessante andare a vedere il caso dell’Inghilterra dove, per motivi anche storici e culturali, il discorso sul gioco d’azzardo legato allo sport è molto più dibattuto e presente. In Premier League il caso più recente è quello di Ivan Toney, centravanti del Brentford e della Nazionale, a cui sono state contestate 126 scommesse sulla Premier League, di cui 29 su partite della sua squadra (e di queste 29, per 16 volte Toney aveva scommesso sulla vittoria e 13 sulla sconfitta, ma in queste 13 lui non era mai sceso in campo). Dopo aver accertato che Toney non aveva in nessun modo “truccato” queste partite, la FA lo ha squalificato per 15 mesi, poi ridotti a 11 quando l’attaccante si è dichiarato colpevole di tutti i capi d’accusa e infine ulteriormente abbassati a 8 quando uno psichiatra ha diagnosticato a Toney un disturbo del gioco d’azzardo.
La sua però è solo l’ultima di una serie piuttosto lunga di squalifiche: nel 2020 Kieran Trippier venne multato e sospeso per aver rivelato i dettagli del suo imminente trasferimento a un amico che poi ci avrebbe scommesso sopra, per un motivo simile è stato squalificato anche Daniel Sturridge. Harry Toffolo, a cui sono state contestate scommesse tra il 2014 e il 2017, è stato squalificato per 5 mesi, ma al momento la sua pena è sospesa. Mentre per quanto riguarda Paquetà l’indagine a suo carico è ancora in corso, ma sembra gli sia costata il passaggio al Manchester City in estate.
Se poi allarghiamo il discorso da calciatori che scommettono sul calcio, che come detto può avere pesanti risvolti “sportivi”, al gioco d’azzardo “in generale”, la questione ci appare molto più radicata. In Inghilterra sono tanti i calciatori, anche di primo piano, ad aver parlato dei loro problemi col gioco d’azzardo. Wayne Rooney ha raccontato di aver perso 800 mila euro in soli 5 mesi scommettendo online. Ha iniziato a farlo con il cellulare durante un ritiro con lo United perché si stava annoiando: «Non mi sembravano soldi veri. Non era come andare in un negozio di scommesse dove è impossibile andare oltre un certo limite». Kieron Dyer nel suo libro racconta di come all’interno della Nazionale inglese quasi tutti giocavano d’azzardo e giocavano forte accumulando debiti oltre le centinaia di migliaia di sterline. Michael Owen ha sempre negato i suoi problemi con le scommesse, ma sembra abbia perso ingenti somme di denaro nel corso degli anni, soprattutto con i cavalli. Oggi è uno degli sportivi più attivi nel pubblicizzare agenzie di scommesse, anche senza licenza.
Il caso più grave è però quello di Michael Chopra, che dice di aver perso oltre due milioni di euro a causa del gioco d’azzardo, arrivando a scommettere anche fino a 20mila sterline al giorno. Ha raccontato di aver iniziato a 17 anni, quando si è trovato a viaggiare con la prima squadra del Newcastle. I calciatori più anziani giocavano a carte sul pullman scommettendo grosse cifre, «era considerato un modo per fare gruppo». I debiti di gioco hanno influenzato negativamente la sua carriera, tanto che il Sunderland lo mandò in una clinica specializzata (la Sporting Chance clinic fondata da Tony Adams per dare supporto ad atleti professionisti) senza grande successo. Ora sembra aver superato il suo disturbo e ne parla apertamente, anche per sensibilizzare. «La tua prima scommessa è la tua peggiore scommessa», ha detto recentemente.
Perché tra gli atleti e il gioco d’azzardo funziona così bene
Quelli riportati sono gli esempi più conosciuti del calcio italiano e inglese, ma scavando ci si potrebbe scrivere un libro. Forse l’atleta più importante tra quelli con una “passione” per le scommesse è stato però Michael Jordan. Moltissimo si è parlato - al tempo in cui era il più grande sportivo della sua epoca e anche più recentemente dopo l’uscita del documentario The Last Dance - dei suoi presunti problemi col gioco d’azzardo, ma quasi sempre rafforzando la narrazione per cui questi erano un tratto necessario della sua mentalità vincente, qualcosa cioè necessario per la sua grandezza.
Nel 1993 Jordan disse di non avere problemi con il gioco d’azzardo, ma di avere «un problema con la competizione». È una frase abbastanza perfetta per raccontare come il confine tra le due cose non sia poi così netto e come per gli sportivi sia facile confondere competizione e gioco d’azzardo. Secondo uno studio del 1998 che ha coinvolto atleti universitari e semplici studenti negli Stati Uniti (capirete che è piuttosto difficile fare studi clinici di questo tipo sugli atleti professionisti), gli atleti avevano un tasso più elevato di problemi e patologie legate al gioco d’azzardo. Un altro studio evidenziava come gli atleti fossero più portati a fare scommesse “rischiose”, perché aggiungeva ulteriore competizione alla loro puntata.
Capire i motivi è abbastanza semplice: nella vita degli atleti è presente una continua enfasi sulla competizione, con tutto quello che ne consegue a livello psicologico, dalle “scariche di adrenalina”, alla ricerca della vittoria a ogni costo. Diventa poi difficile non portarsi questo bagaglio fuori dal campo e il gioco d’azzardo è un terreno ideale dove poterlo riversare. Quante volte vi è capitato, anche vedendo i profili social dei calciatori, di vederli intenti in giochi di carte? Ovviamente non c’è niente di male, ma forse non è un caso che è uno dei modi più ricorrenti che usano per combattere la noia.
Da noi - anche per una tradizione importante verso i giochi di carte - alcuni racconti sono leggendari. Come quello di Domenico Morfeo che una volta portò Adriano al suo paese «dove frequentavo i bar per giocare a carte. Lui vide delle scene mai viste: quando si giocava, o si perdeva, c’erano delle persone che sbattevano i pugni sul tavolo, avevano reazione di tensione in quelle partite». La domenica dopo esultarono proprio mimando una partita a carte. O i racconti di e su Francesco Totti e la sua passione per tutti i giochi di carte da quelli tipo Unofino ad arrivare alle notti al casinò. Anche qui, faccio due esempi ma potrei farne centinaia.
Che succede se all’interno di questa predisposizione psicologica i calciatori vengono immersi in una cultura dove scommettere sul calcio, o comunque il gioco d’azzardo, non è solo innocuo ma anche divertente e giusto?
Il rapporto tra il calcio e le scommesse va molto oltre i calciatori
Durante il primo turno di Premier League, i tifosi inglesi hanno ricevuto undicimila pubblicità sul gioco d’azzardo. Il report che ha evidenziato questi numeri sottolinea come la deriva sia “travolgente e ineluttabile”. Nella quasi totalità dei casi queste pubblicità non erano indicate come tali (sui social dovrebbero avere la dicitura “ads”) e mancavano di sufficienti avvertimenti sui rischi del gioco d’azzardo. Le squadre di Premier League hanno votato all'unanimità di non avere più sponsorship sulle maglie con agenzie di scommesse a partire dalla stagione 2026/27, in molti però ritengono che sia una misura incoerente perché ignora tutto quello che avviene intorno alle maglie dei calciatori, quel bombardamento di inviti a giocare d’azzardo che ricevono i tifosi ogni volta che guardano una partita.
È un’incoerenza di cui siamo bene a conoscenza anche in Italia. Sebbene le pubblicità sul gioco d’azzardo siano vietate nel nostro Paese dal 2018 (misura contestata da Gravina), la realtà è che lo sono solo per finta. Le agenzie di scommesse hanno diversi modi per aggirare le regole e li usano con grande fantasia. Uno di questi è la creazione di siti di notizie sportive che in realtà sono specchietti per reindirizzare verso le loro piattaforme, dove gli utenti possono piazzare scommesse su praticamente qualunque cosa. Sono siti più o meno camuffati, che fanno più o meno approfondimento (alcuni hanno linee editoriali non banali), ma la cui finalità è chiara. E, infatti, in nessuno di questi troverete quella che dovrebbe essere la notizia sportiva della settimana, cioè questa, perché metterebbe in cattiva luce il loro prodotto, che non è l’informazione.
Un altro metodo sono le rubriche all’interno di trasmissioni sportive e giornali tradizionali in cui si “discute” di scommesse come se fossero un’informazione. Non sono quindi pubblicità dirette, ma rubriche in cui si comparano quote, si parla delle loro fluttuazioni e da cosa possono essere causate. Sono così onnipresenti che è facile non farci caso. Li trovate nelle trasmissioni di Sky, Sportitalia e DAZN, per citare solo i canali più importanti. Addirittura il servizio di streaming che mostra la maggior parte delle partite di Serie A ha una sua piattaforma di scommesse chiamata DAZNBet. Non potendo promuoverla direttamente (proprio per il divieto del 2018), si limita a farlo con una piattaforma di scommesse “per divertimento”, cioè dove si può scommettere senza soldi con dei premi in palio, chiamata DAZNFun.
Lo stesso succede anche sulla quasi totalità dei quotidiani sportivi. Dall’home page del sito della Gazzetta dello Sport mi ci sono voluti due click per arrivare su una piattaforma di scommesse (e volendo c’è direttamente Gazzabet), leggermente più difficile sul Corriere dello Sport, ma i click necessari sono sempre due, uno su Tuttosport. Cito questi tre perché sono i più importanti, ma è un esercizio che si può fare quasi su ogni sito di informazione sportiva più o meno riconoscibile.
Ultimamente il metodo preferito dalle agenzie di scommesse sembra però quello di arrivare al suo pubblico direttamente tramite gli influencer, i giornalisti e telecronisti sportivi italiani (che, a loro volta, sono diventati degli influencer). Anche qui si vive su un confine sottile tra informazione e pubblicità. Questi personaggi si travestono da “tipster”, parlando da esperti, non ti dicono direttamente di scommettere, ma snocciolano dati, numeri, consigli. La maggior parte hanno anche degli accordi con le agenzie di scommesse e possono dare dei codici promozionali. È un metodo che crea anche un po’ di confusione, perché spesso non giornalisti e giornalisti dividono gli stessi spazi, e se i primi devono rendere conto solo al loro commercialista, per i secondi esisterebbe una deontologia del mestiere.
Non fraintendetemi: niente di tutto questo è illegale, visto che questo tipo di comunicazione è stata esclusa dal divieto perché considerata dall’Agcom come semplice informazione (“spazio quote” viene definito), eppure è difficile non pensare male. Non dico che l’informazione sportiva debba essere “il cane da guardia del potere”, però poi diventa difficile considerarli credibili quando devono trattare l’argomento dall’altra parte, anche moralizzare, come sta accadendo in questi giorni.
Come scrive Angelo Carotenuto su Domani, non sono poi solo gli organi di informazione a servire come veicolo per le agenzie di scommesse, ma anche le stesse squadre. Il Milan ha un accordo con Snaifun; Juventus, Lazio e Monza con Eurobet Live; Roma, Napoli, Sassuolo e molte altre con Starcasinòsport, l’Inter ha LeoVegas sulla maglia d’allenamento. C’è poi il Bologna con UnibetTV, il Cagliari e il Verona con Bwin Tv. Vengono definiti partner di Infotainment, perché appunto l’idea è che questi siti facciano prima di tutto informazione, poi se casualmente a mezzo click di distanza puoi piazzare una scommessa, vedi tu.
Se questo è il nostro orizzonte, se - insomma - tutto ciò che ruota intorno al calcio e all’informazione calcistica ci invita a scommettere, ci dice che farlo è bello, divertente, non pericoloso, e soprattutto normale, come possiamo fare la morale a Fagioli e agli altri per aver seguito i consigli del mondo in cui vivono? Ovviamente è giusto che, qualora venisse accertato che hanno scommesso sul calcio, vengano squalificati, perché non si possono ignorare le regole (per un principio giuridico in cui tutti prima o poi ci siamo imbattuti), ma dovremmo evitare di andare oltre, lasciare che per il resto decidano loro, con l'aiuto delle loro famiglie ed eventualmente di specialisti, se ne hanno bisogno.
Quello che possiamo fare noi è usare questo caso per aprire un dibattito. In Italia ci sono un più di un milione e trecentomila persone che soffrono di disturbo da gioco d’azzardo. Meno del 10% di loro ha iniziato un percorso di recupero. Con la pandemia il problema si è acuito, con grandi profitti per le agenzie di scommesse online, che hanno capitalizzato il nostro stare chiusi in casa, in preda all’ansia e alla noia.
Le conseguenze del gioco d’azzardo sono pericolose e non si limitano al rischio di perdere molti soldi, che è già gravissimo di per sé. Quando diventa patologico, il gioco produce stati d’ansia, ci rende improduttivi, cambia il nostro umore, ci porta alla depressione. La vita di chi soffre di questo disturbo è logorata, porta a rovinare le relazioni, le abitudini: è un problema sociale che non possiamo ignorare. Possiamo però scegliere da che parte stare, e anche il calcio italiano e l’informazione sportiva dovrebbero farlo.