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Cousin Feo è il vostro nuovo rapper preferito
27 dic 2019
Abbiamo intervistato Cousin Feo, rapper che vive di calcio.
(articolo)
10 min
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Magari eravamo noi che vivevamo dentro una bolla d’intolleranza talebana, ma a distanza di vent’anni mi sembra di poter dire che il mondo dell’hip hop e quello del calcio, in qualche maniera, si siano conosciuti più a fondo, stretti la mano, trovati l’uno nell’altro. Perché vent’anni fa, invece, appunto, quando ero un bboy imberbe che frequentava le jam, il calcio non era ancora entrato a far parte dell’immaginario collettivo street, gli emcees non indossavano maglie del PSG o della nazionale Nigeriana, e più in generale due sottoculture in fin dei conti così simili, dalla linea di sviluppo così interlacciata, con la stessa narrazione del successo, del boasting, del rapresenting si guardavano pure un po’ in cagnesco, l’una disconoscendo l’altra, almeno in Italia. Per quale motivo, poi, vallo a sapere.

Faccio questa premessa perché nell’ultimo mese mi sono successi due fatti correlati tra loro, penso di poter dire, discretamente illuminanti sul rapporto tra calcio e rap oggi, su come lo percepiamo.

A Milano, durante una presentazione del mio ultimo libro, che è su Cristiano Ronaldo, una persona dal pubblico mi ha chiesto a quale rapper mi sentissi di poterlo accostare (la risposta che ho dato è Jay-Z; poi mi hanno chiesto anche Messi, e non sono ancora sicuro ma per ora Big L mi sembra un ottimo compromesso). Una domanda del genere, che nessuno ha trovato implausibile, è assai significativa di quanto due mondi apparentemente distanti si siano ritrovati finalmente spalla a spalla, foss’anche sotto la stessa pensilina dell’entertainment capitalistico: non farà felice i puristi (né dell’una né dell’altra sottocultura), ma tant’è. Il secondo fatto, in aperta contraddizione rispetto al primo, è che in due diverse chat di whatsapp, nello stesso giorno, mi sono trovato un link all’ultimo lavoro di un rapper di South Central, LA, California, States: Cousin Feo.

Cousin Feo ha pubblicato, nell’ultimo mese, due album che dovrei meglio definire concept-album: uno si chiama Provoleta, e lo trovate qui, l’altro Choripán. Entrambi hanno una cover dall’estetica patchwork vaporwave, sembrano due libri editi da una cartonera de La Boca, e se non fosse ancora chiaro basta scorrere la tracklist per capire perché ne stiamo parlando su queste pagine. I titoli dei pezzi sono tipo Tevez, Milito, Saviola, Crespo; Maradona, Kempes, Batistuta, Sorin & Heinze.

Intendiamoci: né i concept-album né i pezzi che portano per titolo il nome di un calciatore sono un inedito assoluto, anzi. Qualche giorno fa su twitter Mundial Mag ha stilato una lista abbastanza evocativa di tracce di questo tipo, e un mio amico più addentro di me mi ha suggerito l’uscita, tra pochi giorni, di un concept di Armani Doc significativamente intitolato “Serie A”.

A maggior ragione, però, il lavoro di Cousin Feo mi ha colpito da subito. Perché in un contesto in cui calcio e rap moderno hanno trovato una formula di mescolamento di successo, Cousin Feo arriva come una DeLorean DMC-12 che si lascia alle spalle scie infuocate. Tutto, nei pezzi di Cousin Feo, trasuda lo-fi, una specie di passatismo, però coerente sia nei confronti della narrazione calcistica che di quella più prettamente hip hop, che finisce per assumere la sfumatura decisa, potente, di qualcosa di davvero rooted. Per questo, e per una serie di altre ragioni che mi sembrava interessante approfondire, mi sono messo in contatto con Cousin Feo, e l’ho intervistato.

«Mi piace pensarmi come un giocatore completo, con visione, reattivo: capace di giocare con e per la squadra. Uno che lavora duro ma anche un po’ stronzo», mi dice quando gli chiedo di definirsi come se fosse un calciatore. È chiaro che se in questa frase sostituissimo squadra con crew e giocatore con performer avremmo il ritratto di qualsiasi rapper come siamo abituati a immaginare un rapper. «Sarei uno di quelli che non si accontentano mai della carriera che hanno fatto, ma manterrei il mio stile di gioco nell’attesa che un grande club mi chiami, perché ho l’ambizione di essere sempre il meglio che riesco a essere». «Riconoscimenti, riconoscibilità, credibilità: lavoriamo sempre per vedere se lavorare così duramente ti ha fatto diventare quello che volevi diventare».

Jason Hernandez, che è poi il suo vero nome, viene da South Central, nella suburra di LA. Lavora nel distretto scolastico di Santa Monica & Malibu, e si prende cura di suo nonno. Di origine guatemalteca, Cousin Feo è cresciuto in un contesto in cui il calcio è comunque stato molto presente, come in tutte le comunità latine della California. Strattonato dalla potenzialità di trasformarsi in un cliché e la volontà, invece, di liberarsene. «Vorrei che mi ricordassero, in futuro, per aver apportato qualcosa di nuovo al gioco. Doin’ what has been done but doin’ it differently».

In un’intervista di qualche tempo fa per una puntata del podcast di Urban Pitch Feo ha spiegato in maniera molto precisa, e se vogliamo anche qua rooted, il senso profondo del suo esperimento, che è quello di abbinare il codice comunicativo del calcio all’asset di valori, oltre che artistico, dell’hip hop. «Prendiamo il Wu-Tang: vedi, nessuno sapeva come avrebbe funzionato questa cosa del Wu-Tang», dice riferendosi al loro appropriarsi di un codice estetico ben preciso, come quello delle arti marziali. «Ecco: il Wu-Tang è stato uno schiaffo in faccia per tutti».

Feo vuole riprovare la stessa operazione: due linguaggi fusi insieme ne generano un terzo, un patois che non solo rende intellegibile l’uno con l’altro, ma che crea, lo dico con convinzione anche se mi rendo conto che possa suonare altisonante, una nuova cultura, una nuova consciousness. Dopotutto l’hip hop è una cornice massimamente organica, nella quale il confluire di elementi altri non solo non restituisce mai la sensazione di weird o di forzato, ma addirittura ne costituisce la sua stessa natura primigenia.

«Fondere l’estetica e la cultura di calcio e rap è il mio obiettivo principale. Il mio e quello di chi ha deciso di aiutarmi a creare una piattaforma, mi capisci, a partire da Keor Meteor (il produttore francese che ha creato le tracce di Crème Fraiche, il primo album davvero improntato sul calcio di Cousin Feo, NdR), perché senza una piattaforma, senza una cornice, non potremmo fare quello che ci piace di più fare del calcio, e cioè guardarlo, leggerne, imparare, e poi da artista parlarne, che è solo una maniera figa di fondere questi due interessi, calcio e hip hop, in una maniera creativa». «Un mix tra le due più grandi sottoculture a livello globale andava fatto, prima o poi, e che andrebbe fatto di più, far vedere alla gente, mi capisci, che è possibile. E il mio approccio, il mio flavour, è qualcosa che non è poi così scontato negli States. Ma ancora più importante è mettere insieme produttori, emcees, dj underground rispettati nelle loro bolle, nelle loro località, esporli su altri palcoscenici: è così che funziona la cultura hip hop ed è esattamente così che funziona per le tifoserie calcistiche».

Qualche barra da Batistuta, manoscritta, sudata come un viaggio in bus di 8 Miles.

«Sai cosa accomuna davvero rap e calcio? Il calcio è l’unico sport che si può giocare su ogni superficie, con un sasso, una palla di carta. Lo giochi per strada, che è dove cresci, che è dove apprendi lezioni: qualcuno se ne va per la sua strada, qualcun altro muore, qualcun altro si droga, qualcuno mette su famiglia e infine qualcun altro ancora fa carriera. È sport ma è anche vita ed è soprattutto strada, perché è da lì che viene l’energia creativa. E per il rap è esattamente la stessa cosa: ci devi mettere la stessa energia che senti per strada, e non è un caso che il rap venga chiamato THE GAME: ha le sue regole, alcune le rispetti, altre le detti».

Il legame con la strada è evidente anche nei titoli degli ultimi due concept, quelli a tema argentino, che non sono altro che due cibi da strada. Il choripán, peraltro, è anche una deliziosa metafora delle storture del calcio moderno: il tradizionale panino con la salsiccia, immancabile antefatto a ogni partita in Argentina, è stato al centro di un curioso caso lo scorso Gennaio quando il comune di Buenos Aires ne ha vietato la vendita nei chioschetti nei pressi dello stadio per evitare interferenze delle barras bravas in questo tipo di business.

Certo, affondare nel sottobosco del calcio argentino, o inglese, deve essere cento volte più facile che farlo in quello statunitense, dove eppure negli ultimi tempi si stanno cristallizzando realtà, e penso ad Atlanta, o Los Angeles stessa, in cui il narrarsi delle tifoserie, ma anche delle stesse società Atlanta United o LAFC, passa in maniera massiva attraverso l’immaginario hip hop. Nelle settimane in cui ci siamo scritti, le due squadre di Los Angeles si sono affrontate nei playoff di MLS: i Galaxy (per i quali fa il tifo Cousin Feo) di Ibrahimovic sono stati sconfitti dall’LAFC di Carlos Vela.

Ma un rapper dovrebbe essere più come Zlatan o come Vela? E Cousin Feo è più Zlatan o più Vela? «Vedi, devi avere fiducia in te stesso, essere un po’ borderline tra pieno di te è consapevole di te. Zlatan fa un sacco di trash-talk, ma poi dimostra tutto sul campo, è uno che lavora duro; Vela, d’altra parte, legittima il dualismo, è uno che parla per se stesso, umile. Io sto nel mezzo: deve sempre esserci il momento in cui ricordi alla gente chi sei ma anche quello in cui ricordi a te stesso chi sei. E quanto hai voglia di vincere. E quanto vuoi farlo da solo, e quanto in una squadra».

Pochi giorni dopo l’ultima chiacchierata, invece, Zlatan ha annunciato di lasciare Los Angeles, e la MLS, con un tweet che si chiudeva così: «E ora potete tornare a guardare il baseball».

Dev’essere stato un colpo basso per la fanbase calcistica statunitense: un po’ come se qualcuno dicesse a Cousin Feo che ora può tornare a parlare di strade e cani e macchine con gli ammortizzatori, perché il calcio non gli appartiene più. Mentre Cousin Feo, in realtà, sembra quasi più addentro al football di quanto non lo sia all’hip hop.

Che non gli interessi tanto la patina glam del calcio quanto più quella calcistica, che più sa di rancio, fureria e potrero si capisce anche dalla serie di pezzi, chiamati “Death at the derby”, che per primi lo hanno fatto conoscere nell’underground. «”Death at the derby” è una serie a cadenza mensile, la facciamo insieme a Lord Juco, un emcee di Toronto. Il primo che volevamo fare era quello sulla finale di Libertadores (la Final del Siglo, che nessuno spero abbia dimenticato, NdR), poi ci siamo fatti prendere la mano: abbiamo fatto Fenerbahce-Galatasaray, Celtic-Rangers, Roma-Lazio (qua c’è il montaggio video di Legions of Rome, con una specie di spiccata preferenza per i biancocelesti, c’è da dire). Ma li facciamo senza nessun bias, senza nessuno sbilanciamento, senza schierarci».

Scegliere di fare dei pezzi sui Derby, per come la vedo io, è in qualche modo anche un manifesto estetico: un prendere le parti della tradizione. E quando si parla di rap, hip hop, tradizione, si finisce sempre per sorvolare uno stagno malmostoso, nel quale è facile rimanere impantanati. «Sai cosa è davvero innovativo? La maniera in cui presenti la tradizione», mi dice Cousin Feo cavandosi d’impaccio con una punchline sicura come quando sei nel mezzo di una rhyme-battle e le cose si stanno mettendo male.

In effetti, però, nel rap di Cousin Feo non c’è niente di davvero strabiliante da un punto di vista tecnico: le sue sedici barre sono sempre dritte, per quanto succose, non c’è mai un esercizio di stile, mai un arabesco. Nonostante questo, nell’ancora acerbo - ma allo stesso tempo ricco di prospettive - panorama del rap applicato al calcio il lavoro di Cousin Feo costituisce qualcosa di monolitico: non innovativo ma neppure banale o già visto, ma soprattutto qualcosa di coerente. Che non sia l’emcee più sbalorditivo che abbiate ascoltato negli ultimi dieci anni è abbastanza pacifico, ma la tecnica ha davvero sempre a che vedere con il talento, con l’estro? A volte non è anche l’affinamento umile di un mestiere? E in fin dei conti, non vale lo stesso per il calcio quanto per il rap?

Il tragitto dai luoghi disagiati in cui si nasce, si cresce e si affina la propria arte per arrivare a quelli ipercompetitivi in cui ci si afferma, alla fine della fiera, non è che la storia di ogni calciatore. E a pensarci bene, anche quella di ogni rapper.

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