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Il protocollo anti-COVID della NBA sta funzionando?
20 gen 2021
Nella NBA sono già state rimandate 14 partite per motivi legati al coronavirus.
(articolo)
13 min
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Convivere con il virus è l’espressione emblema gli ultimi dodici mesi e (spoiler) sarà altrettanto almeno nei prossimi dodici, se tutto andrà bene. Spesso strattonata e martoriata per far sì che assuma significati che non dovrebbe assumere, in realtà racchiude un concetto estremamente elementare, anche se difficile da applicare: cambiare le dinamiche sociali e lavorative in modo da trovare un equilibrio sostenibile tra la salute pubblica, che in fin dei conti non è altro che la somma di tante saluti individuali, e la sostenibilità a breve, medio e lungo termine dei sistemi che regolano la nostra vita e le nostre attività.

Per la NBA convivere con il virus significa trovare i compromessi che consentano lo svolgimento più regolare possibile delle partite, limitando a questa singola stagione le inevitabili perdite economiche (non inferiori al 30%, ma potenzialmente peggiori) dovute principalmente all’assenza totale o quasi di tifosi nei palazzetti, con il minor numero possibile di contagi tra i giocatori e tutti gli attori non protagonisti, dagli allenatori in giù.

Per quel che sappiamo del virus, almeno nelle varianti fin qui prevalenti, la pratica sportiva al chiuso non può essere svolta in sicurezza, altro concetto di cui spesso ci si riempie la bocca, nella maggior parte dei casi a sproposito. Perché, per prendere una breve tangente, va benissimo raccontarsi che ristoranti, palestre, scuole e determinati luoghi di lavoro e ritrovo sono sicuri se si vuole spingere la politica a tenerli in considerazione e a non sacrificarli, ma no, non sono realmente sicuri e non lo possono essere. Così come non lo possono essere tutti i contesti in cui non c’è sufficiente ricambio di aria, si indossano dispositivi di protezione insufficienti (potrebbe essere per tutti il momento di iniziare a preoccuparsi seriamente della questione e di smetterla con le inutili mascherine lavabili in tessuto, tra le altre cose), si forza l’emissione di aria dalle vie respiratorie e si resta in presenza di altre persone per tempi prolungati.

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I rischi di contagio nei vari contesti sociali, da uno studio pubblicato sul British Medical Journal.

Detto che le possibilità di contagio in campo non dipendono solo dai droplet, ma anche dall’aerosol e che quindi giocare a basket in sicurezza non è possibile, l’unico modo per evitare i contagi è proteggere individualmente i giocatori e tutti coloro che lavorano con loro, per trasformare una serie di protezioni individuali in protezione di tutto il gruppo.

Come mandare avanti la stagione in attesa del vaccino

La soluzione ideale - per la NBA come per tutto il mondo - è e sarà il vaccino. Al momento sappiamo che i prodotti approvati negli USA (Pfizer e Moderna), così come tutti gli altri in fase di sviluppo o valutazione, impediscono lo sviluppo della malattia, ma non è chiaro se e in quale misura possano impedire che il soggetto vaccinato si infetti e sia contagioso. Che è anche il motivo per cui almeno fino a che non sarà stato vaccinato un numero congruo di persone - o, nel caso specifico, la totalità o quasi dei soggetti interessati di uno specifico ambito come la NBA - tutte le altre misure di prevenzione dovranno obbligatoriamente restare in vigore, per evitare contagi tra i non vaccinati e le categorie a rischio (si pensi agli allenatori over-65).

Si è già discusso dell’opportunità che le leghe sportive professionistiche possano accedere alle dosi in anticipo rispetto a quanto sarebbe etico e logico presupporre, dal momento che i protagonisti sono principalmente atleti di età media inferiore a 30 anni e in perfetta salute. Nelle ultime ore il commissioner Adam Silver ha anche suggerito che vaccinare pubblicamente i giocatori possa incentivare la popolazione di scettici, che negli Stati Uniti è tutt’altro che marginale, ad aderire alla campagna vaccinale.

Premesso che purtroppo non è il caso di essere troppo ottimisti riguardo all’entusiasmo che i giocatori dimostreranno all’idea di farsi vaccinare, questo pare però più un tentativo di sondare le acque e capire se una decisione simile - probabilmente possibile dal punto di vista pratico in tempi relativamente brevi - causerebbe danni di immagine alla NBA. Quanto proposto dal commissioner ha certamente un fondo di verità, e ancor più non si può negare che per persone costrette a stare in casa seguire uno sport può essere una valvola di sfogo, utile dal punto di vista della salute mentale; ma nel momento in cui in California si è costretti a ignorare le leggi sulla qualità dell’aria perché per smaltire i cadaveri occorre far funzionare i forni crematori praticamente senza sosta, forse le priorità di somministrazione dovrebbero essere altre.

Nell’attesa di questa soluzione, l’unica altra alternativa è semplicemente evitare che il contagio arrivi in campo, cioè evitare che soggetti contagiati e contagiosi entrino in contatto con altre persone, siano esse parte dei vari staff e giocatori. In assoluto nessuna soluzione è valida come quella già sperimentata a Orlando in estate per la fine della regular season e gli interi playoff: è sufficiente chiudere tutti in una bolla, con test quotidiani e quarantene obbligatorie prima di entrare ed eventualmente rientrare, per avere la ragionevole certezza che non si contagi nessuno. E in effetti a Disney World nessuno si è contagiato, l’equilibrio competitivo tra le squadre è stato garantito e l’intera operazione è stata un (costoso) successo.

Destinato però a restare un caso isolato, perché a meno di particolari combinazioni di eventi - e in ogni caso limitatamente alle Finals o alle fasi finali dei playoff - in questa stagione non vedremo una nuova bolla, perché i giocatori (e non solo) hanno già fatto sapere che non se ne parla nemmeno: è un contesto troppo insidioso per la salute mentale, senza contare che la spinta di supporto alle proteste del movimento Black Lives Matter, incentivo non marginale per la partecipazione alla bolla nella scorsa estate, pare meno necessaria e meno vigorosa, anche grazie all’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca.

Va ricordato come sempre che tutto ciò che la NBA decide dipende da trattative e accordi con la NBPA, l’associazione giocatori, e nulla può essere imposto dall’alto. Quindi se per i giocatori non si può fare e non ci sono margini di trattativa, diventa automaticamente impossibile anche per i proprietari e la lega tutta.

Che cosa dice il protocollo Salute & Sicurezza della NBA

La NBA quindi, in collaborazione con le principali autorità mediche e sanitarie statunitensi, a inizio stagione ha redatto un protocollo “Salute & Sicurezza” di 158 pagine contenente tutte le indicazioni specifiche e dettagliate per regolamentare la vita individuale e le attività che gravitano intorno allo svolgimento delle partite. Tra i punti salienti c’è il divieto di partecipare ad attività sociali a rischio con assembramenti di 15 o più persone nelle città di riferimento della squadra, mentre per le trasferte sono stati previsti limiti al numero massimo di soggetti in viaggio, cene di squadra solo in locali di fiducia, ben selezionati e disposti ad adeguarsi alle richieste della lega e la possibilità di ospitare in albergo un massimo di due persone già facenti parte della propria cerchia di congiunti, come li definirebbe la nostra classe dirigente. Più in generale si è imposto un minimo di 10 giorni più due sotto osservazione lontano dai campi di allenamento per tutti i positivi, corrispondenti al periodo necessario per cessare di essere contagiosi, e molto altro, inclusa l’istituzione di una linea diretta di segnalazione delle violazioni, così da scoraggiare iniziative individuali che possano compromettere l’integrità del sistema.

Per i giocatori, gli allenatori e lo staff medico, denominati nel loro complesso Tier 1, sono attualmente previsti due test al giorno, un con tampone molecolare e un con tampone rapido, e l’auspicio è di arrivare a tre test quotidiani, uno dei quali da eseguire quanto più vicino possibile all’inizio di ogni partita, per abbattere il più possibile i rischi. Per altri dipendenti o collaboratori delle franchigie che però non entrano a stretto e prolungato contatto con il campo da gioco, indicati come Tier 2, un test al giorno e anche per i “congiunti” di cui sopra è prevista una valutazione.

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I giocatori NBA si sottopongono a tampone due volte al giorno.

A questo proposito va ricordato che i tamponi molecolari hanno specificità e sensibilità estremamente elevate, ma richiedono tempi di elaborazione e valutazione non inferiori a 3 ore, mentre i tamponi rapidi, anche quelli di ultimissima generazione, non sono del tutto affidabili dal punto di vista della sensibilità, cioè la capacità di individuare correttamente i soggetti malati, e in circa il 20% dei casi presentano falsi negativi, cioè indicano come negativo un soggetto che in realtà è positivo, mentre risultano specifici praticamente quanto i molecolari (97%) e quindi solo in rarissimi casi danno luogo a falsi positivi.

Il tempo di incubazione media del virus è intorno ai cinque giorni e si estende da 3 a 10, mentre il momento di massima contagiosità è tra 1-2 giorni prima della comparsa dei sintomi e la settimana successiva, il che significa che in assenza di tampone si può essere estremamente contagiosi prima ancora di sviluppare qualsiasi tipo di sintomo. E tutto questo senza considerare i soggetti asintomatici, casi tutt’altro che rari tra atleti nel pieno della forma. Va da sé quindi che è assolutamente insufficiente limitarsi ad isolare il malato al momento della comparsa dei sintomi, mentre è necessario individuare quanto prima l’eventuale presenza del virus tramite tampone, possibilmente molecolare, dal momento che, come abbiamo visto all’inizio, giocare a basket non può essere un’attività sicura e consentire a un atleta contagioso di scendere in campo avrebbe quasi certamente risvolti spiacevoli.

L’unico modo per aggiungere un ulteriore livello di prevenzione è il tracciamento dei contatti, o contact tracing, dicitura ormai familiare a chiunque legga i bollettini che elencano i giocatori indisponibili, cioè la segnalazione di tutte le interazioni potenzialmente pericolose avute con soggetti risultati positivi o anche solo a propria volta individuati come contatti a rischio. Chi non mostra sintomi ma ha avuto un contatto a rischio deve aspettare almeno 72 ore prima di effettuare il tampone, perché prima del tempo minimo di incubazione del virus è improbabile rilevare un’eventuale infezione. E in queste 72 ore in un contesto che va alla quotidiana ricerca del caso zero è assolutamente indispensabile che il soggetto a rischio resti isolato, e quindi è ovviamente da escludere che possa scendere in campo.

Il sistema NBA prevede tra le altre cose un sensore, il Kinexon SafeZone, installato su un braccialetto che i giocatori devono indossare praticamente sempre tranne che durante le partite e quando si trovano a casa o in hotel, che è un po’ la versione potenziata delle varie App di tracciamento usate con più o meno (come nel caso di Immuni) successo dai cittadini dei vari stati.

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Il braccialetto SafeZone by Kinexon.

Durante il primo mese di regular season il protocollo ha indubbiamente retto: al momento non dovrebbe essere a rischio il proseguimento del campionato e il problema finora non sono stati i contagi, limitati a due soli focolai (Dallas e Washington) e che hanno interessato nell’ultima settimana 16 giocatori su 497 testati - anche se mettendo il tutto in prospettiva una simile percentuale di positivi all’interno della popolazione italiana equivarrebbe in Italia ad assicurarsi quasi 20.000 morti.

Perché il protocollo fa saltare tante partite

Per poter disputare una partita è richiesta la disponibilità di almeno otto giocatori, ma come ben sappiamo almeno un incontro ogni notte viene rinviato in mancanza di questo requisito per almeno una delle due squadre in campo. Il problema principale in questo momento è legato all’elevato numero di giocatori soggetti a isolamenti da contact tracing, e si sviluppa in due criticità precise: la prima è che allenamenti limitati, continui stop&go e la necessità per i preparatori atletici di dedicarsi quasi più a organizzazione e gestione delle procedure previste dal protocollo anti-Covid si traducono in un maggior rischio di infortuni muscolari e articolari, o quantomeno in una qualità di gioco non eccelsa, data la difficoltà a entrare e restare nella forma fisica ideale.

La seconda riguarda le tempistiche dell’intera stagione, che la NBA gradirebbe si svolgesse su 72 partite (soglia che fa scattare i pagamenti completi dei diritti TV da parte delle emittenti locali che trasmettono le partite) e con conclusione delle Finals entro il 22 luglio. Questo sia per consentire ai giocatori di Team USA di partecipare alle Olimpiadi di Tokyo, sia per evitare che le Olimpiadi stesse risultino un concorrente insidioso in termini di ascolti TV (sempre che i Giochi si disputino, e al momento l’ottimismo in tal senso non è esattamente travolgente) e sia per fare in modo che la stagione 2021-22 torni ad occupare l’abituale spazio nel calendario, con inizio nella seconda metà di ottobre.

Un’eccessiva mole di partite rinviate sicuramente potrebbe creare difficoltà, anche se la programmazione della seconda metà della regular season è stata lasciata volutamente in sospeso proprio in previsione di eventualità simili, ma i margini di manovra sono ancora sufficienti. Nel tentativo di ridurre i contatti e quindi ovviamente anche i contatti a rischio - prendendo quindi di petto la situazione e scongiurando scenari ancora più complicati da gestire - settimana scorsa la NBA ha imposto, sempre in accordo con l’associazione giocatori, regole ancora più restrittive per la vita quotidiana dei giocatori per non meno di due settimane.

https://twitter.com/TheSteinLine/status/1349081336930295811

Gli ultimi aggiornamenti al protocollo.

Limitazioni sempre più simili a quelle della bolla o addirittura più severe, come il divieto di cenare fuori con i compagni in trasferta, che ai giocatori continuano a piacere abbastanza poco. Se tra i più giovani la tendenza è di adattarsi e anche, perché no, approfittare delle circostanze per mettersi in mostra e avere a disposizione minuti e responsabilità altrimenti fuori portata, alcuni veterani come George Hill già iniziano a chiedersi se valga la pena di continuare a giocare in queste condizioni. Eventuali singole defezioni possono essere assorbite, come successo a Orlando ai Lakers con Avery Bradley, ma solo finché il malcontento è limitato. Stiamo parlando di soggetti la cui vita nulla ha a che fare con la nostra e che potrebbero certamente permettersi di non lavorare per qualche mese, ma comunque esseri umani la cui salute mentale merita rispetto e attenzione (si pensi a Kyrie Irving oggi e a Paul George in estate, o più in generale a Kevin Love e DeMar DeRozan). E comunque se tutti smettessero di lavorare per qualche mese rischierebbe di saltare per aria tutto il sistema, non solo questa stagione, ed è quindi indispensabile trovare un equilibrio.

L’altro nodo è che le nuove restrizioni fanno a pugni con alcune notevoli incongruenze che riguardano tutto ciò che sta appena fuori dal controllo della lega. Come ad esempio il fatto che gli assistenti di volo di Delta, che si occupa dei viaggi di 28 squadre su 30, non si sottopongono costantemente a tamponi nonostante siano spesso a contatto con un mondo che dovrebbe essere quanto più possibile Covid free. Il protocollo della NBA è quanto di più avanzato e dettagliato si possa concepire, le parti in causa sono costantemente al lavoro per aggiustarlo, migliorarlo ed adattarlo, ma in un mondo interconnesso bastano poche falle, anche non dipendenti in alcun modo dalla volontà e responsabilità delle parti direttamente in causa, perché il virus si insinui. E, per quanto detto sopra, chiedere rigore assoluto ai giocatori ma non imporlo a chiunque altro giri intorno a loro rischia di provocare sentimenti complicati da gestire, specialmente per atleti afroamericani alle dipendenze di proprietari caucasici.

Convivere con il virus è enormemente complicato, anche se si ha il piano migliore possibile.

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