
“Il calcio è bello perché ti dà sempre una seconda possibilità. È così pure la vita. Hai sempre un'occasione per ricominciare” ha detto qualche settimana fa. “Ora sono libero”.
Ciro Immobile pare sempre in lotta. Con la pressione delle aspettative, con i pregiudizi. Naturalmente con se stesso. Non è riuscito, fino a questo punto della sua carriera, a fermarsi e accettare lo stato delle cose. Con l'inquietudine ha bruciato quello che ha costruito, per poi ricostruire ogni volta.
L'inizio di stagione è stato perfetto. Sia nel club sia in Nazionale, ha recuperato l'attenzione che aveva perso negli ultimi due anni. Non è la prima volta che inizia forte. Prodigio al torneo Viareggio del 2010, capocannoniere in B alla prima stagione da titolare, in gol alla prima vera partita in serie A. Ha segnato la maggior parte dei gol stagionali nel primo trimestre sia al Genoa (4 su 5) sia a Dortmund (6 su 10).
Ha un dono per rialzarsi dopo le crisi. O, rovesciando il discorso, per andare in crisi dopo momenti di esaltazione. Ci si può fare l'idea che non abbia la tenuta mentale per ripetersi, sopportare il peso del suo talento. Oppure che abbia bisogno di scuotersi per rendere al meglio. È la teoria del suo allenatore a Sorrento, quando dice che Ciro era un ragazzino sempre allegro e così, aggiunge: “Qualche volta lo facevo incazzare io, per vedere com'era fatto caratterialmente”.
Il primo gol in serie A, il giorno dell'esordio col Genoa.
Sta di fatto che nella Lazio ha già sciolto le resistenze di una tifoseria diffidente, mettendo insieme 9 gol in 12 partite e buttandosi su ogni pallone come se fosse l'ultimo. La società l'ha acquistato al costo di un investimento incerto, solo 8,5 milioni.
E sta di fatto che nell'Italia di Ventura, dove ha la possibilità di competere per un posto da titolare, Immobile ha ripagato la fiducia con la prima doppietta in azzurro, pesantissima, contro la Macedonia. “È la notte più importante della mia carriera, la partita che sognavo da una vita” ha detto. Non sembra un'esagerazione, se consideriamo in prospettiva il suo percorso. E se consideriamo la gratitudine e la stima nei confronti del CT, a proposito del quale dice: “Il calcio è un dare e avere, impone uno scambio, una solidarietà”.

Se vive una rinascita, significa che ha conosciuto una morte simbolica. Lo riconosce, parlando del periodo all'estero, la grande occasione mancata: “Ho conosciuto il buio”.
I problemi di ambientamento in Bundesliga col Borussia Dortmund e in Spagna col Siviglia, si sono mischiati a preoccupazioni familiari. “Non ero più io. Non ero pronto né concentrato”.
In Germania ha sofferto il freddo, la lingua, e quella che chiama “assenza di calore umano”. In tutti quei mesi nessun compagno l'ha mai invitato a cena. Neanche chi a Dortmund c'è nato, come Kevin Großkreutz, al quale Ciro insegnava a pronunciare Mmocc a chi te muort. E poi il club lavorava poco sulla tattica, per i suoi gusti. Critiche che il Ds Zorc ha definito “vomitevoli”.
A ben vedere si può in parte smontare la narrazione di un suo fallimento all'estero.
A Dortmund si ritrova in mezzo a una crisi che coinvolge la squadra intera: i gialloneri si ritrovano a lottare per non retrocedere, nonostante Reus, Gündogan, Aubameyang e un maestro come Klopp. È la fine di un ciclo, un problema identitario che certo non può risolvere l'ultimo arrivato. E comunque Ciro realizza 10 gol e 3 assist in 1.671 minuti, che non è così male.
Per il gioco del Borussia sembrava una pedina perfetta, ma di sicuro il momento era sbagliato. Al Siviglia invece sembra meno adatto sul piano del gioco. E ha ancora meno spazio: non gioca mai una gara per intero, solo scampoli, eccetto l'andata e il ritorno in Coppa del Re contro il Logroñés (segna in entrambi i casi). Nella miseria di 747 minuti realizza 4 gol, compreso quello al Real Madrid a cui segue un'esultanza particolarmente emotiva.
I mesi a Dortmund. Oltre ai gol e agli assist, a me piace particolarmente quando (0:37) si prende a manate gioiose con Klopp e quando (1.09) sorprende Kagawa baciandolo in fronte.
Da quando ha vent'anni, non è mai rimasto nello stesso posto più di un anno. Nove squadre in sei stagioni e mezzo. Italia, Spagna e Germania. In controtendenza, noi tifosi della Lazio notiamo il suo impegno continuo e ci sembra il massimo dell'affidabilità, ci sussurriamo che può fermarsi qui, che forse abbiamo trovato il centravanti per i prossimi anni, quello giusto.
Prima dei suoi vent'anni, c'è molto.
C'è lui quattordicenne, nei Berretti del Sorrento, e lo vuole l'Inter ma Ciro Ferrara è più deciso e lo porta alla Juventus senza neanche un provino. Ci sono i primi calci a Trecase con la maglia del Torre Annunziata '88, e i mesi alla Salernitana dov'era poco stimato e veniva messo a fare il guardalinee.
E poi c'è il passaggio al Sorrento, dove va da solo col treno dopo la scuola, quaranta minuti per andare e quaranta per tornare. I treni che suo padre da ragazzo aggiustava per le Ferrovie mentre giocava lui stesso in Eccellenza. Lui che nel calcio non è riuscito ad andare oltre, e che del figlio dice: “Non sono capace di dargli consigli. Lo guardo e penso: è proprio bravo”.
A Torre Annunziata, nell'area metropolitana di Napoli, Ciro ci è nato il 20 febbraio 1990, un centinaio di giorni prima dei Mondiali. Nei comuni sotto il Vesuvio ha cominciato a giocare a pallone, era talmente piccolo che provava a smarcarsi passando sotto le gambe del marcatore. Da poco è anche diventato presidente onorario della squadra cittadina di cui è tifoso, il Savoia, fondato nel 1908, vicecampione d'Italia nel 1924 e oggi in Eccellenza.
Torre Annunziata è Savoia, e Savoia è Torino: sia la Juve che il Toro sembrano segnati dal destino sulla mappa di Ciro.

Bambino, con la maglia del Parma, dove fu bocciato a un provino.
Prima la Juve. La Primavera e quel torneo di Viareggio dov'è eletto miglior giocatore e fa una tripletta in finale. L'esordio in prima squadra nel 2009, a diciannove anni, giusto qualche minuto al posto di Del Piero.
Poi il pellegrinaggio dei prestiti per l'Italia. Un brutto anno tra Siena e Grosseto. Un altro, il 2011/12, che gli cambia la vita. Perché nel Pescara di Zeman, a ventun anni, Immobile si impone come uno dei grandi talenti del calcio italiano.
A Pescara ci arriva per volere del presidente Sebastiani. Immobile è carico: appena saputo del trasferimento, nel ritiro della Juve, ha fatto una scommessa su sé stesso con Quagliarella: toccherà le venti reti. Eppure deve ritagliarsi uno spazio, non ha certo il posto assicurato. Secondo l'ex compagno Sansovini, che con Insigne completava l'attacco, Ciro si ritrovò negli undici perché il titolare Maniero si era presentato alla riunione tecnica “con la tuta arrotolata” e Zeman lo volle punire.
Da lì Immobile guiderà gli abruzzesi alla promozione in A: in 37 partite colleziona 28 gol (sette doppiette) e 7 assist. La scommessa è vinta.
A Pescara ha conosciuto Jessica, con cui ha avuto due figlie e si è sposato nel paese originario di lei, Bucchianico, nel teatino. Di recente hanno iniziato una serie di siparietti in pubblico, sul loro Instagram in comune. La gag è che Ciro sta concentrato su un videogioco (di calcio o di macchine), lei prova a distrarlo e lui non la ascolta o le chiede di lasciarlo stare.
Prima di ogni partita col Pescara, Ciro si scambiava un messaggio con la mamma e a fine gara lei commentava la sua prestazione. La mamma che lo chiama ancora Seccatiello, perché continua a vederlo gracile e senza appetito. In verità a Pescara mangiava 17 arrosticini per volta, un omaggio scaramantico al numero della sua maglia.
Questo sfasamento percettivo della madre si può accostare allo sfasamento fra il gioco fisico di Ciro, la sua potenza, e la voce acuta e sottile che sembra deformata per scherzo dall'elio.
Agile come un esterno ma con la presenza di una torre, tutt'altro che macchinoso, bravo tecnicamente, opportunista in area e generoso in tutte le fasi di gioco. Un centravanti che aiuta la manovra e al tempo stesso ha l'istinto del bomber, di quelli che fanno la felicità di qualsiasi allenatore. Difficile trovare in giro un attaccante con la completezza delle sue caratteristiche. Professionista, mai sopra le righe, come modello ha Cavani “soprattutto perché è un atleta”.
C'è anche l'altra Torino nel suo futuro. Quando arriva al Toro, il suo cartellino è diviso tra i granata e la Juventus. Una situazione evidentemente anomala. Va peraltro a vivere in affitto in una casa di proprietà di Giorgio Chiellini: “Se si rompe un tubo devo chiamare lui”.
Ciro proveniva da una stagione 2012/13 in chiaroscuro al Genoa, la prima davvero in serie A per lui. Una stagione che aveva ridimensionato la trionfante annata al Pescara, con 34 presenze e solo 3 assist e 5 gol (compreso però quello alla Juventus, che aveva la metà del suo cartellino).
Torino lo accoglie, prima che lui ne diventi un idolo. Immobile e Cerci si incastrano alla perfezione l'uno all'altro, e il cuore granata ha uno spazio vuoto esattamente della misura di quell'incastro. Un ristorante napoletano della città gli dedica una pizza, la “Ciro Immobile”, ma lui non l'ha mai provata perché ci sono le pere.
Torna a segnare come ai tempi di Pescara, e come allora si laurea capocannoniere del campionato con 23 reti in 34 partite. Stavolta però è la serie A. Stavolta pare aver compiuto il grande passo: ha ventiquattro anni e addosso gli occhi del grande calcio europeo. La spunta il Borussia Dortmund, dove va a sostituire Lewandowski.
Tornerà solo diciotto mesi dopo, in prestito dal Siviglia. Un trasferimento che conviene a tutti. Lui ha bisogno di ritrovare familiarità con l'ambiente e col campo, e di mettersi in vetrina per l'Europeo.
Torino gli restituirà la sicurezza perduta, la luce dopo quel buio che aveva conosciuto. Insieme a Belotti forma una coppia molto interessante, oltre che dirompente per efficacia. In 14 gare Immobile colleziona 5 gol e ben 5 assist. Ventura non lo mette mai in discussione, Ciro perde alcune partite solo per un infortunio muscolare.
Poi se ne va, per la seconda volta. Ma ora è diverso. Lascia intendere che vuole una realtà più importante, dice esplicitamente che la Lazio è un punto d'arrivo. La Torino granata non gliela perdona. Alla prima occasione, poche settimane fa, quando Immobile torna con la maglia biancoceleste, viene martoriato dai fischi. E lui segna.

Il ritorno in granata
Adesso in Nazionale può trovare la continuità di gioco e di reti che gli è sempre mancata. C'è l'amico Insigne come a Pescara, c'è il maestro Ventura come a Torino. Ci sono tutte le condizioni per cambiare passo.
Con la Lazio ha già segnato, in poche settimane, più di quanto abbiano segnato nell'intera stagione scorsa Klose (8), Matri (7) e Djordjević (6).
Ora, verosimilmente, può toccare quota venti reti, come quelle della scommessa con Quagliarella. Può tornare fra i grandi marcatori del campionato e dimostrare che gli ultimi due anni sono stati un inciampo. E soprattutto può fermarsi per un po', Immobile. Crescere davvero, magari reggendo il peso che in passato gli ha fatto buttare tutto all'aria. Magari accettando la propria incostanza.