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Tre pali, una palla bianca, una mazza e un gruppetto di ragazzini che giocavano a cricket su una strada asfaltata e leggermente in salita. Io, in quanto femmina, non ero ammessa a quelle prime esperienze di cameratismo maschile, e li guardavo lanciare, colpire, correre, afferrare oltre il cancello di casa, con invidia. I maschi parlavano una lingua diversa quando stavano tra di loro, e la distanza mi consentiva di sentirli senza che il loro linguaggio fosse inibito dalla mia presenza.
Non doveva fare caldissimo, quel giorno del 1996 a Lahore. Mio cugino giura di essere stato davanti alla tv di quella casa che affaccia sulla stessa strada, allora non ancora asfaltata ma sempre leggermente in salita, dove anche mio padre aveva difeso una porta fatta di tre paletti di legno. La nazionale srilankese era giunta alla sua prima finale mondiale – un traguardo che avrebbero rivisto, ma che non aveva mai raggiunto dalle prime partite della metà degli anni Settanta. Probabilmente io stavo dormendo, mi piace però immaginarmi, a tre anni, davanti a quella partita che l’indomani avrebbe portato Tissa Jayatilaka a scrivere sull’«Observer» che «non c’è stato un attacco terroristico, e nemmeno un disastro naturale o uno scandalo politico di proporzioni epiche. Eppure, lo Sri Lanka è finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo» (che poi, quelli elencati da Jayatilaka sarebbero stati gli unici motivi per cui avrei sentito quel paese menzionato in un telegiornale italiano). No, nessuna catastrofe. Lo Sri Lanka aveva vinto la coppa del mondo, e il cricket, sull’isola come del resto dappertutto nell’Asia del Sud, era già una religione.
Per comprendere cosa sia questo gioco oggi nel subcontinente indiano prendo in prestito le parole di Ramachandra Guha: «Quando Sachin Tendulkar sta battendo contro il lanciatore pakistano Wasim Akram, l’audience televisiva supera in numero l’intera popolazione europea».
I ragazzini ci giocano a scuola, le divise bianche sporcate dalla polvere. Quelli più grandi si ritrovano a piedi scalzi sulla terra rossa di campetti improvvisati all’ora in cui il caldo, come diceva Michael Ondaatje, smette di «abbracciare chiunque» e l’aria si appesantisce di un color arancione. Chi, come mio cugino, non si può permettere l’ultima mazza uscita sul mercato, la intaglia da sé con nastro adesivo e tessuto ad ammorbidire l’impugnatura, e adesivi sul fianco esterno a simulare l’estetica dei ricchi.
Com’è successo che lo sport per eccellenza dei bianchi benestanti sia diventato una religione per coloro che essi stessi avevano colonizzato e sfruttato? La domanda evoca la vecchia storia della Bibbia in cambio della terra, e forse la mia risposta non si allontana nemmeno tanto. Molto semplice: ovunque gli inglesi andassero – e con andare intendo colonizzare – il cricket li seguiva. La politica imperiale e il gioco erano, in qualche modo, inseparabili. A dircelo, oggi, è la lista dei paesi più influenti in questo sport: Regno Unito, India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, Sudafrica, Nuova Zelanda. Altrettanto lungo è l’elenco dei paesi assenti (Singapore, per citarne uno), che hanno dovuto fare i conti con la specificità della storia e l’imprevedibilità umana. Ad ogni modo, negli Stati del Commonwealth il cricket è un retaggio dell’imperialismo britannico, e per i britannici non è mai stato soltanto un gioco, ma qualcosa che da sempre incarna l’etica cristiana e la morale vittoriana: l’una e l’altra venivano diffusi attraverso uno strumento di civilizzazione – che questo fosse la lingua inglese, il cristianesimo o il cricket non faceva alcuna differenza.
Per Lord Harris, ex capitano della squadra inglese ed ex governatore di Bombay, il cricket era a tutti gli effetti parte della cultura imperialista, centrale al progetto imperiale e necessario per imporre alla caotica India un’organizzazione sociale che combinasse mascolinità, lavoro di gruppo e rispetto assoluto della gerarchia. In India, l’impero ha incorporato il tessuto sociale preesistente nel sistema economico capitalista dell’Occidente: lì il cricket, come del resto il polo, serviva a far sì che le caste più agiate si sentissero partecipi dello stile di vita dei dominatori. Basti anche solo pensare che nel 1887, quando l’allora Ceylon fronteggiò gli inglesi in un test match, la squadra era formata esclusivamente da burgher, il piccolo gruppo etnico costituito dai discendenti dei vecchi coloni portoghesi e olandesi, perché in epoca coloniale chi prendeva parte al gioco aveva stretti legami con i britannici, come appunto la minoranza burgher con antenati europei.
Il plot twist che trovo più interessante di questa storia è come il cricket, da espressione della dominazione coloniale, sia finito per diventare simbolo di alcuni ex territori colonizzati e, molto spesso, addirittura dei loro nazionalismi. In Beyond a Boundary*, per esempio, viene raccontato come nelle Indie Occidentali la resistenza più forte contro il potere coloniale sia giunto non da gruppi politici organizzati, quanto piuttosto attraverso partite internazionali di cricket, nella presenza tanto di chi quei match li giocava quanto di chi li andava a guardare. Molti vi diranno che C.L.R. James ha scritto la più bella descrizione del gioco del cricket che avrete la fortuna di poter leggere, ma per me l’ode più bella al secondo tempo di questo sport arriva da uno scrittore nato su un’isola sotto l’India, Shehan Karunatilaka, quando scrive che «la palla è fatta di pelle, con una cucitura rigida che corre lungo la sua circonferenza. La mazza è ottenuta dal legno di salice. Il suono dell’una che colpisce l’altra è musica». Pura musica.
La storia del cricket è costellata di partite against all odds tra colonizzatori e colonizzati. Probabilmente la più conosciuta è quella degli Ashes del 1882, quando il Kennington Oval di Londra ha assistito a una disfatta degli inglesi per mano della squadra australiana così incredibile da spingere lo «Sporting Times» a decretare la morte del cricket nella sua terra natia e ad annunciare che le sue ceneri sarebbero state portate in Australia – humor d’oltremanica, immagino. Ora, si può discutere della posizione ambigua dell’Australia tra le fila dei colonizzati, dal momento che è stata sì oggetto del colonialismo britannico, eppure, più tardi, soggetto a sua volta delle tendenze coloniali nell’area del Pacifico. Ma non si può non prendere atto dell’enorme significato politico di quel match.
La partita più leggendaria però, sebbene forse meno conosciuta, si era giocata in quello stesso Ovale ma quasi quattordici anni prima, con l’inizio del tour della all-indigenous squadra australiana, segnata anche da tragiche morti dovute al viaggio estenuante e all’esposizione a malattie sconosciute. Il tour contò molte vittorie e altrettante sconfitte, e richiamò migliaia di spettatori curiosi, che lo trasformarono in un’esibizione esotica dai toni razzisti, complice anche il dibattito intorno alle teorie dell’evoluzione. Era il 1868 e L’origine delle specie di Charles Darwin era stato pubblicato appena un decennio prima. Il «Daily Telegraph», menzionando che era interessante vedere impegnati in un gioco amichevole «rappresentanti di due razze» come il «modern Englishman» e «l’aborigeno australiano», notava che questi «tipi indiani» erano a tutti gli effetti «vestiti e sani di zucca». Chi l’avrebbe mai detto. A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi qual è la differenza tra la traiettoria che ha preso il cricket nel cosiddetto «sud globale» e quella imboccata da qualche decennio dallo yoga nel cosiddetto «primo mondo». Perché mio cugino, che ha giocato a cricket con mazze arrangiate su una strada polverosa, e chi sui terrazzi di Manhattan, borraccia e tappetino alla mano, inizia una sessione di yoga con un namasté sono tanto diversi? Sicuramente esiste una tematica di potere, anche economico. In parallelo, mi sembra che si profili una questione di globalizzazione, anche culturale. Ed entrambi gli aspetti, come si potrà immaginare, sono profondamente legati al colonialismo. Secondo Arjun Appadurai, uno dei più importanti teorici della globalizzazione, per l’ex colonia la decolonizzazione non è soltanto «uno smantellamento delle abitudini e dei modi di fare coloniali», ma anche un dialogo con il passato coloniale. Un fare i conti con. «Non ho alcun dubbio che lo scontro tra razza, casta e classe non abbia ritardato bensì stimolato il cricket nelle Indie Occidentali» scrive C.L.R. James, aggiungendo poi che sì, la tradizione britannica voleva che si entrasse in campo lasciandosi alle spalle i compromessi delle proprie quotidiane esistenze, ma che questo «per noi» avrebbe significato scinderci dalla nostra stessa pelle.
Così il campo da gioco diventava un palcoscenico sul quale determinati giocatori interpretavano dei ruoli carichi di significato sociale. Un po’ diverso da quello che accade nello yoga occidentale.
In questo senso, secondo alcune concettualizzazioni della globalizzazione intesa come omologazione, le culture locali non ricoprono un ruolo passivo, ma sono anche agenti che reinterpretano la cultura dominante. Negli Stati Uniti, dove è stato portato dai britannici, il cricket non è sopravvissuto. Qualcuno direbbe (ed è stato detto) che tutto ciò che gli inglesi associano agli americani – impazienza, insolenza, innovazione, volgarità – è in antitesi con questo tipo di gioco. Invece Mike Marqusee, scrittore e grande giornalista sportivo, ricorda che Neville Cardus, «self-made snob» ed esperto di cricket, una volta ha detto che «là dove, come negli Stati Uniti, la lingua inglese non viene parlata, non può esserci un vero, autentico cricket, motivo per cui gli americani non hanno mai eccelso nel gioco». Mi ha fatto molto ridere pensando a cosa avrebbe potuto dire sentendo gli accenti con cui sono state accolte le vittorie indiane, pakistane, srilankesi. Negli Stati Uniti, con il tempo, si è affermata una versione ben diversa del cricket: il baseball. L’egemonia culturale americana ha fatto poi sì che il baseball si diffondesse nella sua area di influenza, diventando per esempio estremamente popolare in Giappone.
Lo sport nasce, si trapianta, muore per mano dell’essere umano, a causa delle traiettorie della storia, ma anche in maniera del tutto imprevedibile. Relegarlo entro confini nazionali o geografici sarebbe essenzialista e intellettualmente scorretto, ma lo sarebbe anche non ammettere che lo sfruttamento di alcuni sport, più di altri, avvantaggia alcuni, più di altri.
* libro del 1963 di Cyril Lionel Robert James, pubblicato in Italia da Casedeilibri nel 2006 con il titolo Giochi senza frontiere. Del cricket o dell’arte della politica.