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Il momento che ha cambiato la carriera di Federica Pellegrini
29 giu 2023
Un estratto da "Oro", la biografia di Federica Pellegrini pubblicata da La nave di Teseo.
(articolo)
6 min
(copertina)
IMAGO / PanoramiC
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Pubblichiamo un estratto da "Oro", la biografia di Federica Pellegrini edita da La nave di Teseo.

Si avvicinavano i Mondiali di Roma. Ero forte, gli allenamenti andavano bene, c’era una grande aspettativa su di me. Arriviamo a Roma, io e la squadra della Nazionale, una settimana prima dell’inizio delle gare. Ci sistemiamo al centro sportivo dell’Acqua Acetosa, dove finiamo la preparazione. Ero l’atleta di punta, avevo gli occhi di tutti addosso. Cominciano le interviste, le conferenze stampa. Immagino la gente scommettere: si fermerà o no? Scapperà ancora prima di tuffarsi? Per l’ansia smetto di mangiare.

A tre giorni dalle gare mangio come un uccellino. Ma sto bene, quindi non mi preoccupo. Alberto però avvisa Giovanni e gli dice presidente, la porti fuori a cena perché così non arriva alla gara. Giovanni mi ha portata al ristorante, ho ordinato un piatto di spaghetti vongole e bottarga, ancora me lo ricordo, e li ho mangiati quasi tutti.

Il primo giorno di gare, il 26 luglio, ci sono i 400 stile libero. Peso 63 chili, un paio in meno del mio peso forma. Gli impianti sono meravigliosi, gli spalti quasi a 360 gradi, all’aperto, con questa vasca incredibile e il cielo che all’imbrunire diventa rosa. Quando il pubblico urla senti tutto vibrare, perfino l’acqua della piscina.

La mattina ci sono le batterie: faccio un buon tempo, ma esco dalla vasca scontenta perché avrei voluto andare ancora più veloce. Il pomeriggio, per la finale, arrivo in piscina e mi sento la febbre. Saluto i miei prima di entrare. Mia mamma mi tocca la fronte e mi fa Fede, sei calda. Sì, mamma, lo so, ho un po’ di febbre, piagnucolo. Non ci pensare, mi dice lei, non succede niente. Sto di nuovo cercando una scusa per non fare i 400. Vado da Alberto con il costume da allenamento e la cuffia. Alberto, non mi sento bene. Come, non ti senti bene? Chiama Daniele Popolizio, il mio psicologo, che è a bordo vasca. Si parlano e Alberto mi dice entra in acqua e vedi quello che riesci a fare.

Faccio il riscaldamento tenendo 32 e 50 a passo. Uno schifo però almeno nuoto. Esco dall’acqua e mi metto il costume da gara. Ai 20 minuti io e Daniele andiamo in una stanzetta a parlare. Ho paura, gli dico. Ma paura di cosa? mi fa lui. Abbiamo fatto un’infinità di prove. Non capisci? Io questa gara la devo vincere, non la posso sbagliare, sono in casa, con tutto quello che ho passato questo oro me lo merito, è mio, lo voglio. A un certo punto arriva Luca Marin trafelato, urlando ti cerca Alberto, dove sei stata? In quel momento mi placo e rispondo, improvvisamente calma, manca un quarto d’ora, adesso vado. Prendo cuffia e occhialini. Alberto mi viene incontro e fa una cosa che mi ricorderò tutta la vita. Mi prende la testa tra le mani, mi guarda negli occhi e mi dice: qualsiasi cosa succeda, ricordati che io ti voglio bene. Vado verso la vasca come se stessi andando alla ghigliottina, con la mia musica nelle cuffie.

Ricordo il pubblico in delirio, ricordo il boato. Chissà, forse avere ritardato un po’ l’entrata in camera di chiamata mi ha aiutato ad azzerare tutto. Ha rallentato le ondate di paura. Mi siedo con le cuffie in testa e l’applicazione settata su riproduzione casuale in quel momento mi manda Disturbia di Rihanna. No more gas in the rig / Cant even get it started / Nothing heard, nothing said / Cant even speak about it / Out my life, out my head / Dont want to think about it / Feels like Im going insane / Yeah. Stava parlando a me. Un’altra di quelle incursioni dell’invisibile, una piccola intermittenza. E la mia testa fa clic. Ci sono, sono in pace, come se il rumore nel mio cervello si fosse spento di botto. Ora! Fatemi fare la gara ora, subito! grida il mio cervello.

Entro in acqua e faccio i primi 200 in pieno controllo. Dalle riprese si vede bene il momento in cui mi sposto per non dare la scia alle due inglesi, Joanne Jackson e Rebecca Adlington. Ai 100 sono già in testa. Quando viro ai 200 metri mi dico dai Fede, ora puoi accelerare. Ai 300 sono parecchio avanti. Tocco a 3’59”15: oro, record del mondo e prima donna a scendere sotto i 4 minuti nei 400 stile libero.

Dopo la gara di solito sei un po’ assente, l’adrenalina pompa, i sensi sono alterati. Sei come dentro una campana. Ricordo un rumore sordo che veniva dagli spalti ma forse era dentro di me. Cerco Alberto con gli occhi ma non lo trovo. Esco dalla vasca e lui non c’è. La sera quando ci siamo abbracciati aveva ancora gli occhi rossi e gonfi. Era stato troppo anche per lui. Alla fine della gara era scappato, commosso. Ce l’avevamo fatta. Era stata dura ma ce l’avevamo fatta, insieme.

Due giorni dopo ci sono le batterie dei 200. La mattina vado scialla e faccio un tempo di merda. Alberto mi fa il cazziatone, i campioni devono fare i campioni! Entro in semifinale con il sesto tempo. Il pomeriggio mi dico dai, facciamo una gara tirata, così mi preparo per la finale del pomeriggio successivo. Faccio 1’53”67: record del mondo. Battendo il mio stesso record, 1’54”47, fatto a Riccione a marzo di quell’anno. Nessuno se lo aspettava. Alberto era sbigottito.

La sera prima telefono a mia mamma e le dico mamma, portami una pizza che ho fame. Lei era in una pizzeria vicino al Vaticano. Quando i camerieri capiscono che sono io le danno una pizza destinata a un altro cliente, poi la mettono sul taxi e le dicono corra, signora! È arrivata all’Acqua Acetosa con la pizza ancora calda.

Il giorno dopo mi presento molto tesa alla finale. È l’incubo della corsia 4, quella di chi è chiamato a vincere. In corsia 3 c’è Joanne Jackson, nella 5 Dana Vollmer e nella 6 Allison Schmitt. Faccio il mio solito colloquio con Daniele, passo da Alberto. Però c’è poco da dire: devo fare i 200 a tutta velocità dall’inizio alla fine. Avevo fatto il record del mondo il pomeriggio del giorno prima, la gara la potevo buttare via solo io. Parto normale, passo in testa ai 100 metri e da lì in poi volo. Vado talmente forte che mi sembra di non sfiorare neanche l’acqua, di volare sopra la piscina. Tocco a 1’52”98, medaglia d’oro e nuovo record del mondo. Allison Schmitt vince l’argento a quasi due secondi da me. Bronzo Vollmer, quarta Jackson. Quel record non è stato ancora battuto.

Negli anni ho imparato che alcune volte in gara sei magica. È una sensazione strana. Ti butti in acqua e di colpo il tempo si dilata, rallenta. Esci fuori da te, come se a nuotare fosse qualcun altro. Vedi tutto in modo nitido, da sopra. E in quel preciso momento finisce anche la fatica. È una specie di estasi, un diverso stato di coscienza. Giri le braccia, ma hai la sensazione che stiano girando pianissimo. Stai andando velocissima, ma ti sembra che tutto sia immobile e tu sia sospesa. Ti senti leggera, allineata come una corda di violino. Diventa tutto facile, naturale, limpido. È una magia.

Il pubblico impazzisce, mio fratello e il mio babbo sventolano la bandiera di Venezia. Mia mamma piange. Alberto mi viene incontro tendendomi le braccia. In quei momenti ti senti onnipotente. È la droga dello sport. La gente ti guarda come se fossi dio, ti venera. E poi i telegrammi, la politica, il presidente.

La mattina dopo al risveglio quello stronzo di Alberto mi chiama, sei sicura di non voler fare anche gli 800? Per un secondo ho pensato li faccio. Perché in quel momento sentivo che avrei potuto fare qualsiasi cosa. Ma avrei rischiato. E se agli 800 facevo schifo? No, me la volevo godere.

Roma è stata la settimana più esaltante della mia carriera. Nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo di lì a pochi mesi, quanto la mia vita sarebbe cambiata e quanto dolore mi avrebbe riservato.

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