• Euro 2024
Daniele Manusia

Cristiano Ronaldo è ancora al centro di tutto

Le sue lacrime dopo il rigore sbagliato contro la Slovenia sono una storia a parte.

Dopo poco più di dieci minuti di gioco il Portogallo muove la palla dalla fascia sinistra, dove Leao sembrava leggermente più ispirato del solito, su quella destra dove Joao Cancelo scambia con Bernardo Silva. Il numero dieci corre in orizzontale verso l’interno del campo, conducendo con quel piede sinistro che tocca la palla con la frequenza con cui gli utenti di Tinder più bisognosi swipano verso destra. Il giocatore del City alza la testa, prende la mira, e quando è più o meno all’altezza dello spigolo dell’area di rigore accarezza il pallone crossando sul nel cuore dell’area, dove Cristiano Ronaldo si è mosso alle spalle del suo marcatore. 

 

Cristiano Ronaldo non ha mai avuto problemi di elevazione. Anzi, uno dei tanti modi per cui possiamo farlo passare alla storia è anche definirlo uno dei migliori saltatori in alto di sempre. In un Real Madrid-Manchester United, stagione 2012/13, ha saltato 2.93 metri. Ancora cinque stagioni fa, in uno Juventus-Sampdoria, è arrivato a 2.56. Non solo è impossibile dimenticarle queste cose, ma è anche impossibile non ricordarle mentre Ronaldo sta continuando a giocare, come se si sovrapponessero due linee temporali diverse. In questa, però, Ronaldo si alza da terra con una zavorra invisibile che gli impedisce di arrivare sulla palla. Noi ci stupiamo, ci chiediamo cosa sia successo, poi ci ricordiamo che ha 39 anni e mezzo.

 

Contro la Georgia, con la qualificazione e il primo posto già assicurati, avrebbe potuto riposare, come quasi tutto il resto della squadra titolare. Invece ha giocato. Quando Roberto Martinez lo ha sostituito, dopo poco più di un’ora, quando ormai era chiaro che quella era la serata di Kvaratskhelia, Mikautadze e Mamardashvili, e non la sua – nonostante, dal suo punto di vista, ogni serata dovrebbe essere la sua – è uscito con la testa bassa e una smorfia di disappunto, prima di prendere a calci una bottiglietta. Ormai non ci si chiede più se giocherà, quanto giocherà, o perché stia effettivamente giocando lui e non qualcun altro; ormai è chiaro che, in questo Europeo, il suo sesto, Cristiano Ronaldo è il centro drammatico di ogni attenzione.

 

Forse proprio perché “si è sottratto allo sguardo del pubblico europeo”, come scriveva Dario Saltari dopo la partita di esordio con la Repubblica Ceca, c’è qualcosa di ancora più magnetico in Cristiano Ronaldo. Dopo le molte invasioni di tifosi che vogliono strappargli una foto (tra cui uno che si è saltato da un piano più alto della tribuna per atterrargli davanti) il Guardian si chiedeva se Ronaldo non sia ormai “troppo famoso per giocare a calcio”. Ogni suo passo, ogni suo gesto, per noi vale più della partita stessa. Al tempo stesso sembrano anche accadergli più cose che altri giocatori in campo. 

 

Il centro assoluto della narrazione di questo europeo di Cristiano Ronaldo è arrivato, ovviamente, come tutti sapranno, quando ha sbagliato il rigore che poteva regalare il passaggio del turno al Portogallo nel primo tempo supplementare, senza passare dall’ulteriore serie di rigori e dalle tre parate di Diogo Costa. Aveva segnato gli ultimi 20 rigori calciati – l’errore più recente dal dischetto è del febbraio 2022, in una partita di FA Cup con il Manchester United – negli altri cinque campionati europei giocati ne aveva già segnati 14. E questo in particolare sembrava un regalo generoso del destino, in un torneo in cui sta faticando nella cosa che gli è sempre riuscita più facile: segnare (finora, in quattro partite, ha calciato venti volte in porta senza riuscirci: per Whoscored, con -2.9xG, è il più grande underperformer dell’Europeo).

 

Con la solita concentrazione ascetica, mentre intorno a lui i giocatori sloveni provavano ad avvicinarsi al dischetto per rovinargli il punto di battuta, e i suoi compagni li tenevano lontani a spintoni, mentre Orsato con un dito sull’auricolare ascoltava cosa gli dicevano dalla sala VAR, Ronaldo sembrava imperturbabile. Il volto scavato, le labbra risucchiate dai suoi stessi pensieri. Poi ha messo la palla in posizione, ha fatto i suoi soliti passi all’indietro con le gambe larghe, contemporaneamente consapevole di avere tutti gli occhi addosso e lontanissimo da ogni cosa, ha sputato, si è asciugato le mani sul culo, si è scaccolato. Ha guardato un paio di volte l’arbitro come se avesse avuto fretta, poi quando quello ha fischiato ha fatto il suo solito passo laterale e ha calciato. 

 

La sua tecnica di tiro dal dischetto è ormai un tutt’uno con la corsa per l’esultanza successiva e Ronaldo deve interrompersi dopo un paio di passi leggeri, quando si rende conto che Oblak ha intuito l’angolo in cui ha calciato, che gliel’ha parato. Si mette le mani in faccia, chiude i gomiti come per nascondersi, poi alza la testa al cielo, ingoia, come per ingoiare il dispiacere e andare avanti. Cristiano Ronaldo: il re della positività. Però passa troppo tempo prima che il gioco riprenda e ha modo di rimuginarci sopra girando in tondo in area di rigore. Il Portogallo batte il calcio d’angolo ma non crossano verso di lui e quando Orsato fischia la fine del primo tempo supplementare Ronaldo si scioglie.

 

In quei pochi minuti in cui la squadra deve riordinare le idee, Roberto Martinez deve dare le ultime indicazioni per provare ad evitare di giocarsela nella serie di cinque rigori, le telecamere non si staccano neanche per un secondo da Cristiano Ronaldo in lacrime. Non proprio una novità assoluta, il senso teatrale di Ronaldo è ben evidente fin dall’inizio.

 

Ogni azione ne rimanda almeno a un’altra. Quando a due minuti dalla fine era scattato in profondità e aveva calciato tra le braccia di Oblak, era stato fin troppo semplice pensare a tutte le volte in cui, dopo tagli identici, e conclusioni simili, la palla era finita dentro. Quando ha calciato una punizione da una posizione molto angolata a sinistra, quasi impossibile, forse Ronaldo stesso ha pensato a una punizione calciata, e segnata, da un punto simile, in una partita del 2012 con l’Apoel Nicosia. Con le lacrime, con la disperazione di Ronaldo, è la stessa cosa.  

 

Ha pianto quando il Portogallo è stato eliminato dalla Grecia nel 2004, con la maglia numero 17 e i capelli tirati su col gel. Quando ha sbagliato il rigore con il Chelsea, nella finale di Champions del 2008 (una partita che comunque il suo United ha vinto e in cui aveva anche segnato) ha detto che quello era stato «il peggior giorno della mia vita». Ha pianto con il viso incorniciato dalle falene quando un infortunio lo ha tolto dalla finale dell’Europeo del 2016. Ha pianto quando è stato espulso ingiustamente contro il Valencia, quando la Juventus è uscita dalla Champions League contro il Porto. Ha pianto persino poche settimane fa, quando non ha vinto una coppa in Arabia Saudita.

 

Stavolta però il suo pianto sembrava ancora più disperato. Inconsolabile, secondo lo scrittore americano Raymond Carver, è la parola più triste del vocabolario. I suoi compagni hanno provato a parlargli, ad accarezzarlo, girandogli intorno come una sola lingua che cerca di non far colare un gelato oltre i bordi del cono. Chissà magari qualcuno avrebbe potuto raccogliere un po’ di quelle lacrime in una fiala di vetro, un giorno sarebbe potuto essere esposte in qualche chiesa, venerate. La regia televisiva poi è andata a cercare la madre di Ronaldo in tribuna, anche lei in lacrime (secondo alcune ricostruzione sui social, prendetele come volete, Ronaldo vede prima la madre piangere e poi si scioglie lui: così in effetti sembra un dramma scritto da qualche sceneggiatore sentimentale). E insomma per chi conosce la sua storia, per chi sa la vita che ha vissuto Donna Dolores e il suo legame con quel figlio «non voluto», come ha detto lei, che ha provato a far sparire prima che nascesse con la magia nera, è un momento di intensità drammatica unico. Nessun altro calciatore in campo potrebbe portarci in simili territori. Forse, nessun altro essere umano in assoluto, per quanto famoso. 

 

Jonathan Liew (in un altro articolo del Guardian) ha collegato la nostra attenzione per Ronaldo al romanticismo di fine ottocento: “Quello che i romantici vedevano in un’abbazia in rovina, alcuni lo vedono nella figura di Cristiano Ronaldo via via più piccola”. Aspettiamo, cioè, che l’ultimo centimetro di sole scenda dietro la linea dell’orizzonte. Ma può essere tutto qui il nostro coinvolgimento? 

 

Sicuramente dipende anche da lui, dal fatto che, come scriveva Dario Saltari nel pezzo citato sopra, Cristiano Ronaldo sembra la persona che tiene di più alla partita che sta giocando. Dal fatto che, nonostante “dal calcio ha già ottenuto tutto ciò che poteva ottenere e che, qualsiasi cosa farà, non potrà cambiare di una virgola il significato della sua carriera”, Ronaldo sembra pensare che tutto dipende da quegli ultimi novanta minuti. E, se non da quelli, dai prossimi. Per questo aver segnato il primo rigore della serie finale è stata una consolazione solo parziale, quella vera e propria è arrivata dopo, quando Diogo Costa gli ha assicurato altri novanta minuti, almeno altri novanta minuti.

 

A giudicare dal finale di carriera si direbbe che Cristiano Ronaldo stia provando a colmare un vuoto incolmabile, e che magari sia sempre stato così, che sia questa la spiegazione di tutte quelle stagioni con più gol che partite giocate, passate a inseguire e farsi inseguire da Messi. Il che renderebbe solo particolarmente crudele e inutile il gesto di quelle persone, e in questo caso di quella persona molto probabilmente di nazionalità slovena, che prima di andare a vedere la partita ha pensato a portare con sé una maglia dell’Argentina con il numero 10, per sventolarla in faccia a Ronaldo mentre si preparava a calciare una punizione. Non serve: il vuoto su cui si affaccia Ronaldo non ha la forma di Messi. Può prendere quella forma, l’ha presa per un lungo tratto della sua carriera, ma se di vuoto si tratta… beh, che forma ha il vuoto?

 

 

In ogni caso, il nostro legame con Ronaldo va ben al di là di questo. Lo conosciamo troppo bene, lo abbiamo visto troppo a lungo, lo abbiamo odiato o ci siamo identificati con lui, con la sua straordinarietà, troppe volte ormai. In fin dei conti è proprio questa sua espressività, reiterata negli anni, a renderlo unico e straordinario. Il rapporto tra la sua capacità di controllare e programmare ogni dettaglio, compresa la percentuale di grasso corporeo con cui invecchiare per prolungare la sua carriera, la maschera della sua perfezione, e quei momenti in cui quella maschera cade rompendosi in mille pezzi. 

 

Cristiano Ronaldo è stato anche un grande attore. Magari involontariamente, ma lo è stato. Il suo carisma, legato indissolubilmente alle sue performance atletiche e sportive, lo ha portato più in alto di quanto non avrebbero fatto quelle perfomance da sole. La nostra non è la nostalgia di camminare tra le rovine e pensare ad epoche passate e antiche civiltà scomparse, quanto piuttosto il piacere di constatare la resistenza degli antichi acquedotti, l’ammirazione per la bellezza di quella pietra modificata dal tempo e dagli elementi naturali, ogni giorno, da secoli e secoli, una bellezza in cui noi riconosciamo quella di tutta l’umanità. 

 

Adesso che il patto col diavolo di Ronaldo sta venendo meno – per colpa del diavolo che non mantiene le sue promesse, sia chiaro, perché Ronaldo ce la sta mettendo tutta – e qualcosa, anche se non visibile al nostro sguardo, in lui è ormai invecchiato, una sola cosa accomunava chi lo aveva sempre amato e chi lo aveva sempre odiato, ma anche chi a volte lo ha amato e a volte lo ha odiato e adesso non sa bene cosa pensare di lui, dopo quel rigore sbagliato: volevamo tutti vederlo ancora in campo, almeno altri novanta minuti.

 

Finché possibile, vogliamo vederlo sbattersi per segnare quel gol, che sarebbe, secondo Wikipedia, il suo ottocentonovantaseiesimo – fa ridere anche solo scriverlo, un numero del genere – in carriera, ma sarebbe di sicuro più importante di tutti gli altri ottocentonavantacinque. Sempre meno importante, però, dell’ottocentonovantasettesimo. 

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).