Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Perché dubitiamo delle lacrime di Cristiano Ronaldo?
12 dic 2022
Cosa ci dice il suo pianto al termine di Portogallo-Marocco.
(articolo)
11 min
(copertina)
Patrick Smith - FIFA/FIFA via Getty Images
(copertina) Patrick Smith - FIFA/FIFA via Getty Images
Dark mode
(ON)

Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.

Appena prima del fischio finale, Cristiano Ronaldo è nell’area del Marocco, come è normale che sia. Si gira verso l’arbitro, ha già capito, quello fischia e lui abbassa la testa. È la sua ultima partita importante? Jawad El Yamiq e Achraf Dari si avvicinano, lo toccano come si fa con le reliquie, un po’ sorridono, un po’ - si vede - sono in imbarazzo, quel tipo di sensazione che, credo, si provi davanti alla storia. Ronaldo, intanto, continua a camminare, dice qualcosa a Dari con fare particolarmente infastidito, che lo lascia stare. È quello il momento in cui ci accorgiamo che è sul punto di piangere. L’uomo dietro la telecamera, però, continua a seguirlo, è pagato per ignorare il dolore altrui. Ronaldo continua a camminare da solo, alle sue spalle il Marocco festeggia la prima semifinale in un Mondiale per una squadra africana, e chissà se sta pensando che lui è nato su un’isola più vicina all’Africa che all’Europa (probabilmente no). Joao Mario gli tocca la testa, gli dà un mezzo abbraccio smozzicato; un invasore - o forse un semplice tifoso - quasi gli si mette davanti alla faccia, sarà la persona ad avvicinarsi di più a Ronaldo, prima di essere trascinato violentemente via. Subito dopo Fernando Santos gli dà una leggerissima pacca sulla schiena, onestamente sembra voler essere da tutt’altra parte. Stacco.

Subentra una seconda telecamera, che lo riprende da davanti. Cristiano Ronaldo piange mentre imbocca il tunnel degli spogliatoi, è il primo a farlo. Non trattiene più le lacrime, forse ha deciso che non vale la pena, forse - pensano i maligni - è un messaggio in mondovisione. Il viso è contratto in una smorfia, più che lacrime di tristezza sembra vero dolore, come se si fosse rotto un osso o qualcosa del genere.

Cos’è che stride in tutta questa scena? Che Ronaldo è sempre da solo, che gli altri lo sfiorano appena. Negli ultimi metri è accompagnato da un uomo in giacca e cravatta con un pass, che in maniera asettica prova a consolarlo. Non so chi sia, ma non è un compagno, un componente dello staff, qualcuno che ha diviso questo Mondiale con lui; sembra piuttosto una persona pagata per accompagnare fuori le leggende del calcio, non farle stare da sole nel momento dell’addio.

Nessuno ha reso il calcio un fatto tanto personale e allora non è strano che, anche questa volta, Cristiano Ronaldo abbia trasformato un dolore di squadra in un dolore personale. Avete visto immagini della disperazione di Joao Felix, uno che in questo mese scarso ha provato a ribaltare un paio di stagioni particolarmente difficili? Quelle di Bruno Fernandes e Bruno Silva, che di questa squadra sono i leader tecnici? O quelle di Pepe, lui sì quasi sicuramente al capolinea di una storia con la Nazionale portoghese altrettanto lunga e gloriosa?

Ronaldo attira le telecamere, gli sguardi, i giudizi. È stato lui a volerlo, da sempre e per sempre. È stato così solipsista nel suo modo di vivere uno sport di squadra che ci costringe a dubitare anche davanti alle lacrime. Sono lacrime vere o di coccodrillo? Piange davvero perché il Portogallo è stato eliminato o forse perché Messi non lo è stato? Perché non ha segnato abbastanza gol? Perché è stato lasciato in panchina, come una riserva qualunque?

Prima dell’inizio del Mondiale gli avevano chiesto se avrebbe firmato per una vittoria del Portogallo senza i suoi gol. A chi altro calciatore si potrebbe fare questa domanda senza essere scontati? Ronaldo, comunque, ci aveva tenuto a tranquillizzare tutti, dicendo che sì, l’avrebbe fatto (sono magnanimo io). In Qatar ci è arrivato nel momento più ronaldesco della sua carriera, dopo una lunga intervista in cui ha ricordato a tutti che lui è lui e gli altri non sono un cazzo.

Mentre lasciava Manchester in fiamme forse pensava che la Nazionale sarebbe stata la sua piccola isola felice. Se allo United non è riuscito a guadagnarsi il rispetto col carisma, in assenza dei gol, in Portogallo nessuno ha uno stato più divino del suo, una persona che - ricordiamolo - in patria ha un aeroporto internazionale a lui dedicato (in Italia, per dire, hanno aeroporti internazionali dedicati Leonardo da Vinci, Falcone e Borsellino, Marco Polo, persone così). Cristiano ha segnato 118 gol con il Portogallo, più di chiunque altro con una Nazionale, e dalla sua apparizione nel 2004 la sua influenza sulla squadra è stata altissima. Se a qualcuno aveva provato a dire che, forse, visto il tipo di talento associativo del Portogallo una versione senza Ronaldo sarebbe stata più adatta a vincere il Mondiale, nessuno pensava sarebbe potuto succedere.

Tutti abbiamo raccontato il Mondiale in Qatar come il Mondiale di Cristiano e Messi, forse perché volevamo che fosse così. Se i brand di solito sono i primi a prevedere il futuro, Louis Vuitton ha messo lui e l’argentino a giocare a scacchi sopra la valigia griffata che contiene la coppa e non Modric o Mbappé o Bellingham o qualche giocatore del Marocco. Dentro al Portogallo, però, le cose stavano andando diversamente.

Il primo a farcelo notare è stato Bruno Fernandes. Compagno in Nazionale ma anche di club, aveva accolto Ronaldo con un saluto freddissimo, anche questa volta davanti a una telecamera (c’è sempre una telecamera con Ronaldo). Il motivo di questa freddezza era da ricercarsi, probabilmente, nelle parole dette a Piers Morgan contro il Manchester United, di cui Bruno Fernandes è uno dei pochi leader riconosciuti. Davvero Ronaldo pensava che quelle parole non avrebbero avuto strascichi anche dentro al Portogallo?

Subito dopo i due si erano affrettati a smentire, parlando al contrario di un simpatico siparietto tra due amiconi, con Ronaldo che gli avrebbe detto «ma che sei venuto in nave?» visto il ritardo con cui era arrivato (forse qui ci sfugge la tipica ironia da isolano portoghese). La prima di tante smentite di questo Mondiale. Il Mondiale delle smentite, questo potrebbe essere il titolo del torneo per Ronaldo. Pochi giorni dopo ha dovuto smentire che Joao Cancelo ce l’aveva con lui, quando - durante un allenamento - Ronaldo gli si era avvicinato e con fare stranamente paterno gli aveva scosso la testa mentre quello teneva il muso. Poi aveva dovuto smentire di aver raggiunto un accordo con il club arabo dell’Al-Nassr, che pare disposto a pagargli uno stipendio da 200 milioni l’anno.

Intanto in campo le cose andavano così e così: contro il Ghana durante l’inno ha pianto, poi ha sbagliato un gol fattibile, poi ha accentuato una caduta per guadagnarsi un rigorino, l’ha segnato, ha esultato col Siuuu, è stato sostituito e ha visto il ghanese Bukari imitarne l’esultanza (più presa in giro, che emulazione). In ogni caso, in quella partita, è diventato il primo giocatore a segnare in cinque diversi Mondiali, un altro record per un calciatore che - come ha detto lui - viene inseguito dai record.

Contro l’Uruguay ha pensato di aver segnato, sfiorando un cross di Bruno Fernandes, esultando come se l’avesse toccata, ma finendo per essere smentito prima dalla FIFA, che non gli ha dato il gol, poi dall’Adidas - lo sponsor del rivale Messi - che ha fatto sapere di aver messo un chip nel pallone che rileva ogni tocco e che un tocco non c’era stato. Bruno Fernandes, comunque, ha detto che gli sembrava che Ronaldo l’avesse toccata e il Portogallo ha fatto un esposto per chiedere che il gol venisse dato al suo numero sette. In tutto questo, ci è sfuggito, che Santos l’aveva sostituito un’altra volta e che quindi, il rigore concesso nel recupero, l’aveva calciato Bruno Fernandes, il vero leader della squadra.

Ma se fino a quel momento era stato un Mondiale normale - normale se ti chiami Cristiano Ronaldo - la svolta è arrivata, e qui siamo al paradosso, nell’inutile partita contro la Corea del Sud. Con la qualificazione già in tasca, si poteva pensare che Ronaldo - 37 anni e uno stato di forma non proprio eccezionale - avrebbe riposato. Ma ovviamente tutti sapevamo che non sarebbe andata così: Ronaldo ha giocato, non ha segnato ed è stato sostituito al minuto sessantacinque. Era un cambio preparato? Uscendo dal campo Ronaldo è apparso infastidito, era infastidito con Santos? Dopo la partita ha smentito (di nuovo): ce l’aveva con un giocatore della Corea del Sud che gli metteva fretta, anche il CT del Portogallo aveva confermato questa versione.

Poi, però, è arrivata una telecamera (c’è sempre una telecamera) a inchiodarlo. Uscendo Ronaldo ce l’aveva sì con il suo CT, a cui si è rivolto con parole da mafioso: «Hai sempre una cazzo di fretta di sostituirmi, ma devi stare attento con me». Un nervosismo che è parso eccessivo a tutti, nei confronti di un allenatore che - anche nei momenti peggiori - lo aveva difeso e sostenuto. A cosa era dovuto? Perché Ronaldo non è riuscito a godersi questo Mondiale? Cosa voleva di più?

Forse Ronaldo aveva capito che - se l’Argentina con questo Mondiale, che vinca o che perda, sta celebrando l’addio di Messi, per il suo Portogallo non era così, che la squadra era già oltre l’era Cristiano Ronaldo. A confermarlo è arrivato addirittura un sondaggio sul quotidiano sportivo più importante del paese - A Bola - in cui il 70% dei partecipanti ha spuntato la casella in cui si sosteneva che Ronaldo avrebbe dovuto sedersi in panchina contro la Svizzera.

E, contro la Svizzera, Ronaldo si è seduto in panchina. Santos ha usato le offese ricevute contro la Corea del Sud come motivazione, ma è sembrata più una scusa per non ammettere che era una scelta tecnica. Nelle tre partite dei gironi Ronaldo è stato un corpo estraneo alla squadra, ha partecipato pochissimo al gioco collettivo e si è mostrato poco lucido e centrato anche in quello in cui un tempo era il migliore al mondo, fare gol.

La partita con la Svizzera deve essere stata una tortura per lui: il suo sostituto, Goncalo Ramos, centravanti del Benfica non particolarmente fenomenale, ha segnato 3 gol - tre grandi gol - in una vittoria per 6 a 1. Quando è entrato Ronaldo ha segnato, ma in fuorigioco, non riuscendo a incidere il suo nome sul tabellino. Dopo la partita ha di nuovo dovuto smentire chi diceva che non aveva festeggiato con i compagni, che sembrava più amareggiato che contento. Sono usciti di nuovo video e contro video, dichiarazioni e controdichiarazioni. Fernando Santos è dovuto andare davanti ai microfoni a chiedere a tutti se, per favore, lo lasciavano in pace.

A quel punto il Mondiale gli era già sfuggito. Le storie erano altre: Messi era diventato Achille contro i troiani, Mbappé la reincarnazione di Marte, Modric una versione più mobile del maestro Splinter, mentre lui sedeva in panchina, così come era successo con il Manchester United.

Il riscatto poteva arrivare contro il Marocco: in una partita in cui la spinta associativa del gioco portoghese non stava funzionando, contro una squadra bravissima a chiudere tutti gli spazi, la capacità di Ronaldo di cavare un gol dal niente poteva essere decisiva, ma così non è stato. Ancora una volta vederlo giocare a calcio è stata la cosa meno interessante, come accade ormai da almeno un anno: 5 passaggi provati, 3 riusciti, 10 tocchi, un tiro in porta.

In assenza di presente, con Ronaldo è impossibile non relativizzare: non avendo segnato contro il Marocco, e ipotizzando come difficile la sua presenza nel 2026, CR7 chiude la sua carriera senza neanche un gol nelle sfide a eliminazione diretta del Mondiale, lui che invece nelle stesse partite della Champions League ci ha costruito la sua leggenda.

Se non possiamo parlare di quello che ha fatto in campo, che possiamo dire del suo Mondiale? In un posto che gli somiglia, in un spazio breve e concentrato, Ronaldo ha messo in scena tutti gli archetipi negativi della sua carriera: l’individualista, l’arrogante, il peso morto. Da una parte la squadra che lo ha scaricato, lodando il suo essere uomo squadra davanti alle telecamere ma poi non sopportando la sua presenza in campo; dall’altra il suo cerchio magico, quelle persone che, anche davanti all’evidenza, continuano a dire che è il migliore al mondo, che Santos l’ha tradito, che il Paese è in rivolta per la sua mancata titolarità. “Hanno ucciso una Nazione” ha scritto la sorella.

Dove si pone Cristiano Ronaldo tra queste due narrazioni? Sicuramente è influenzato in negativo dalla tossicità della seconda, ma non è detto che si meriti la prima. Dopo questo torneo cosa penseremo di lui? Sarà stata la conferma che, sì, è stato un fenomeno, ma che il suo ego ha fatto male al calcio come gioco collettivo? Che da oggi, da quell’ultimo addio in lacrime, possiamo finalmente smettere di esaltare il suo calcio iper individualista per iniziare a parlare dei Musiala, dei Bellingham, dei Pedri e degli Haaland?

In quelle lacrime, però, c’è qualcosa che ci sfugge, ma che secondo me dobbiamo riconoscergli: sono lacrime di una persona che ha amato il calcio più di tutti, che in tutti questi anni lo ha onorato nell’unico modo che conosceva, ovvero attraverso il lavoro e i gol. Poteva inventarsi qualcosa di diverso? Non poteva.

In questo mi sembra Ronaldo sia più vicino a una figura come Kobe Bryant, uno che si è fatto odiare da tanti per la sua ossessione verso il gioco, ma che - ogni volta che scendeva in campo - si percepiva come anche le cose peggiori che faceva erano guidate da una passione bruciante, un amore per il basket più che per sé stesso. Anche per questo, come Kobe, Ronaldo è stato più un punto di riferimento per altri atleti, che non un campione riconosciuto e amato da tutto il pubblico.

Adesso il futuro per Ronaldo, per la prima volta, è un'incognita. Potrebbe sparire per sempre, in un ritiro più che dorato, ma potrebbe anche restare, continuare a rovinare la sua legacy o, chissà come, ripulirla. In ogni caso, qualunque sarà la sua scelta, rimarrà la scelta di una persona che nella sua maniera perversa e patologica ha dato tanto a uno sport che in questi giorni sta celebrando la sua essenza davanti al mondo. Forse di questo, dovremmo ricordarcene più spesso.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura