Al novantesimo minuto di Manchester United - Tottenham, la regia televisiva inglese stacca l’inquadratura dall’azione di gioco. Le telecamere puntano su Cristiano Ronaldo, che sta prendendo la via degli spogliatoi prima del fischio finale. Cammina da solo e indossa ancora la pettorina arancione calata sulla maglia da allenamento a maniche lunghe. Pettorina che ha indossato nel corso del primo tempo, quando Erik ten Hag ha chiesto ai giocatori della panchina di riscaldarsi a turno. Il pubblico vicino al tunnel si sporge e tende le braccia per ricevere un “cinque”, ma Ronaldo, con passo marziale e a testa alta, non sembra vederli nemmeno.
In quel momento il Manchester United conduceva la partita con il punteggio di 2-0. Ten Hag aveva effettuato tre sostituzioni: McTominay per Antony, Eriksen per Casemiro e Elanga per Sancho. Aveva ancora due cambi a disposizione. Dalle immagini sembra quindi che Ronaldo, stufo di aspettare le decisioni dell’allenatore, decida di imboccare la via degli spogliatoi prima del tempo. Secondo la ricostruzione del sito The Athletic, Ronaldo avrebbe rifiutato di entrare in campo, ritenendo troppo poco il tempo che ten Hag stava per concedergli.
Non è la prima volta che Ronaldo ripara negli spogliatoi prima del fischio finale. Nel precampionato, durante il match contro il Rayo Vallecano, dopo essere sostituito all’intervallo, Ronaldo ha lasciato la panchina senza il permesso dell’allenatore. In estate ten Hag si era molto indispettito per l’episodio, anche perché Ronaldo era stato seguito negli spogliatoi da altri calciatori. Stavolta ten Hag non è sembrato curarsene più di tanto: «Non ci ho fatto caso, ci penseremo domani. Voglio concentrarmi sulla squadra, sulla magnifica prestazione di questi undici giocatori. Mi correggo, la prestazione l’hanno fatta anche i giocatori saliti dalla panchina. Una prestazione di squadra». Ieri sera, sul proprio sito, il Manchester United ha comunicato che Ronaldo è stato messo fuori squadra. E di ora in ora sono cresciute le voci di una possibile risoluzione anticipata del contratto. Ronaldo ha risposto, come di consueto, con un post su Instagram nel quale ha cercato di gettare acqua sul fuoco, ma che a leggerlo bene è solo un’altra riedizione del classico “Ronaldo non riesce a chiedere scusa”.
Visualizza questo post su Instagram
Un post condiviso da Cristiano Ronaldo (@cristiano)
Ronaldo si è chiamato fuori dal progetto del Manchester United ben prima di mercoledì sera. In estate ha cercato di lasciare i Red Devils in ogni modo. È solo perché non ha trovato una squadra da Champions League, la sua ossessione più oscura, che non è partito. Il 7 agosto, alla prima di campionato con il Brighton, una parte della tifoseria all’Old Trafford l’ha persino fischiato all’ingresso in campo per il riscaldamento prepartita.
CR7 è stato spesso bersagliato dai tifosi di tutto il mondo, tanto quelli che lo amavano quanto quelli che lo temevano, per certi atteggiamenti al limite dell’isteria che ne hanno fatto, soprattutto in quest’ultimo scorcio di carriera, un meme vivente. All’interno della retorica del calcio come sport di squadra e del bene del collettivo che è anteposto alle ragioni del singolo, Ronaldo di certo ha sbagliato. Ma per lui non è mai stata una questione di squadra, ma sempre e solo una questione personale, anche quando le cose giravano per il meglio.
Basta guardare quanto ha dovuto aspettare Benzema per ottenere il riconoscimento che meritava già da qualche tempo, e che invece per anni ha dovuto sacrificarsi come uno dei tanti paggetti alla corte del Re Sole portoghese. Gli allenatori con cui è andato meno d’accordo – Benitez al Real, Sarri alla Juventus e ora ten Hag allo United – sono quelli che fin dal principio hanno deciso di trattare Ronaldo come uno dei tanti calciatori del gruppo. Ma Ronaldo non è mai stato uno dei tanti, come può esserlo d’altra parte uno degli attaccanti più prolifici della storia del calcio? Uno che ha messo in bacheca cinque Palloni d’Oro, cinque Champions League; uno che ha segnato settecento gol in carriera.
Finché Ronaldo con i suoi gol era determinante per le vittorie delle sue squadre, i suoi atteggiamenti avevano acquisito persino una connotazione positiva. Dimostravano il suo attaccamento alla causa, l’inscalfibile voglia di vincere, l’assoluta resilienza. Via via, con l’età che avanzava, sono diventati insopportabili bizzarrie da primadonna. Mercoledì, fuori dallo spogliatoio del Manchester United, mentre Ronaldo lasciava da solo lo stadio, si udivano le urla dei suoi compagni che festeggiavano la vittoria sul Tottenham, dimenticandosi di lui.
Quando le valutazioni dipendono dai risultati, non si fa mai giustizia degli sforzi di un singolo o di una squadra. Nella inversione dei valori che c’è stata di recente, però, Ronaldo ci ha messo tanto di suo. Aver avuto la parte migliore della propria carriera dopo i trent’anni può averlo persino danneggiato. È come se l’avesse convinto che la fine per lui non dovesse arrivare mai. Che avesse ancora tempo per ritoccare il suo record di gol in Champions League, attualmente fermo a 140 segnature, a +13 da Messi, +49 da Lewandowski, +54 da Benzema. Che dovesse giocare tutte le partite, proprio tutte, anche quelle con squadre di bassa classifica, accumulare gol come fossero monete da conservare in un deposito per poi nuotarci dentro, anziché riposare.
Purtroppo per Ronaldo, il suo fisico straordinario ha cominciato a perdere colpi fisiologicamente. Negli ultimi anni al Real Madrid, sembrava che stesse per trasformarsi in un attaccante d’area di rigore. Alleggerito il suo gioco da tutti gli orpelli inutili, Ronaldo avrebbe lottato contro il decadimento fisico avvicinandosi alla porta. Poi qualcosa è cambiato. Già negli anni alla Juventus, Ronaldo in campo è andato alla ricerca delle consuete zone di campo: larghissimo a sinistra, per ricevere palla sui piedi fronte alla porta; oppure basso, per toccare il pallone più spesso. Forse questo è successo perché Ronaldo non si fidava abbastanza dei giocatori che aveva intorno e ha sentito di dover fare uno step di responsabilità; o forse è proprio perché ha sentito che le forze iniziavano ad abbandonarlo, che è andato alla ricerca di conferme per il campo. Le zolle più battute in carriera come coperta di Linus. Ha cercato tra i ciuffi d’erba i pezzi migliori del suo repertorio: ha tentato più volte il colpo in rovesciata, ci ha stordito calciando male decine di punizioni tutte uguali. Così facendo ha peggiorato le cose, si è stancato di più e per questo si è innervosito, si è intestardito con atteggiamenti controproducenti.
Per certi versi è questo il momento più interessante della carriera di Ronaldo. Non la parte superomistica dell’accumulo infinito di record individuali, che finivano per diluirsi uno nell’altro fino a perdere di importanza, piuttosto l’enorme conflitto che deve star vivendo dentro di sé. Il conflitto di un uomo che si è raccontato come infallibile e che ora si scopre mortale tanto quanto gli altri. La dissociazione tra ciò che è stato e ciò che non riesce più a fare deve distruggerlo profondamente. Se a gennaio, alla riapertura del mercato invernale, dovesse ripetersi la tiritera estiva, con il suo agente Mendes che lo propone a tutte le squadre rimaste in corsa per la Champions League, e anche stavolta nessuno vorrà prenderlo, come reagirà? Se dovesse ripiegare su un campionato di seconda fascia, in un altro continente, gli unici forse disposti ad accollarsi Cristiano Ronaldo col suo stipendio faraonico e la sua necessità di mettersi al centro, cosa potrà raccontarci per convincerci che è ancora il migliore? Quello della sua fanbase è persino un falso problema, Ronaldo è ancora oggi la persona più seguita su Instagram al mondo con 488 milioni di follower. Il problema più grande sarà cosa racconterà a sé stesso. La frustrazione di Ronaldo di mercoledì sera è sincera, ma l’uscita precipitosa verso gli spogliatoi, davanti alle telecamere di mezzo mondo, è anche l’ennesimo tentativo di prendersi una porzione di luce dei riflettori per sé. Perché non riesce a immaginare di poter vivere all’ombra.
Ronaldo sta dimostrando di non essere pronto, come uomo prima che come professionista, al passo d’addio. Tanti sportivi, soprattutto tra quelli che hanno avuto carriere longeve e vincenti, hanno dimostrato che per loro non è semplice mettere via un mestiere che è anche una grande parte della propria identità. Francesco Totti, Valentino Rossi, Roger Federer: sul finire delle loro carriere hanno tutti dichiarato di essere spaventati dall’idea di smettere con lo sport. Per paura hanno trascinato le loro carriere in stagioni che hanno avuto poco senso dal punto di vista sportivo, sia in valore assoluto sia in relazione alle loro carriere. Ha senso danneggiare così una parte della propria legacy? Personalmente ho sofferto per l’addio al tennis di Roger Federer in quel di Londra il mese scorso. Non tanto per il ritiro dalle attività agonistiche in sé, quanto per aver constatato che il giocatore che ho amato così tanto e così a lungo non esiste più. Ma sono altrettanto sicuro che in giro per il mondo ci sono milioni di tifosi che invece avrebbero voluto vedere ancora un’altra partita di Federer, anche del Federer malconcio di Londra. Conosco persone che hanno seguito tutti i match dell’Argentina al Mondiale 2010, solo per aspettare che la palla finisse fuori nella zona delle panchine e che il CT Maradona mandasse, con uno stop o un tocco di sinistro, qualche bagliore della sua luce originale ancora a cinquant’anni. Gli sportivi oggi sono anche degli intrattenitori che non vogliono smettere di accontentare il loro avido pubblico.
Anche quando i loro risultati sono buoni, spesso assistiamo ad atteggiamenti degli sportivi a dir poco schizofrenici. Lo scorso anno il quarterback Tom Brady, sette titoli NFL in bacheca, ha annunciato il ritiro, salvo poi rimangiarsi tutto in poche ore. Fernando Alonso ha bruciato i ponti per ottenere un anno di contratto in più da Aston Martin, rispetto all’accordo che aveva praticamente già chiuso con Alpine. Zlatan Ibrahimovic si è ritagliato per sé un ruolo da capitano non giocatore: lo si vede a bordo campo, in borghese, sbracciarsi per dare indicazioni ai compagni in campo. Ma possiamo considerarlo ancora un giocatore?
Il fine carriera di uno sportivo è un tema difficile da affrontare e le risposte ai quesiti che ho posto non sono scontate. Ci sono molte persone, e tra queste c’è anche l’ex calciatore Roy Keane, che pensano che ten Hag e il Manchester United stiano mancando di rispetto a Cristiano Ronaldo. Che meriti, per come ha servito il club in passato, un fine carriera più dignitoso di così. Ma la partita con il Tottenham ha procurato uno strappo che non può essere ricucito. Anche per il momento in cui è accaduto: dopo un avvio di campionato orribile, lo United ha trovato un filotto di buoni risultati; poi è arrivato il City di Guardiola che gli è passato sopra come un carro armato. La vittoria contro la squadra di Conte può essere già considerata cruciale, non solo per come andrà questa stagione, ma anche per la solidità delle fondamenta del nuovo progetto tecnico che ten Hag sta provando a gettare.
In una situazione già così delicata, il Manchester United non può far finta di nulla e a Ronaldo non basta più mostrare il curriculum per essere perdonato.