Vorrei provare a riflettere sull’autenticità e la crudeltà degli sport da combattimento. Ma non è facile perché anche Jake Paul è parte del contesto, e Jake Paul, per chi non lo sapesse, è uno youtuber, attore, influencer-imprenditore, rapper – autore qualche anno fa della terza canzone con più pollici versi della storia di YouTube, che al tempo stesso è diventata disco di platino – tutte queste cose a soli ventiquattro anni, a cui dal gennaio 2020 ha aggiunto anche una carriera da pugile professionista, con un record, oggi, di 4 vittorie e 0 sconfitte, un contratto con Showtime e una borsa, quella del suo ultimo incontro combattuto questo weekend, da due milioni di dollari.
Lo so, è un casino. Jake Paul ha scelto avversari abbordabili ma sempre un pelo più competitivi rispetto al precedente: il primo era uno youtuber come lui, mandato KO al primo round; il secondo un ex giocatore NBA, mandato KO al secondo; il terzo un ex wrestler e fighter di MMA trentasettenne con un’anca artificiale, mandato KO al primo; il quarto un ex campione UFC trentanovenne in forma, che però anche quando era campione UFC la sua specialità non era boxe, quanto la lotta corpo a corpo e il wrestling, e che comunque è famoso per essere passivo, attendista, che Jake Paul ha battuto ai punti dopo otto round in cui è sembrato molto vicino al proprio limite (e che a un certo punto lo ha infilato tra le corde del ring ma, appunto, essendo passivo non ha capitalizzato il momento). Sono stati, quindi, incontri poco interessanti dal punto di vista strettamente sportivo ma di cui hanno parlato, magari con un sopracciglio alzato, anche media serissimi, perché è impossibile ignorare tutti quei soldi e l’interesse del pubblico.
Dato che la situazione è complessa, vorrei provare a metterla nella prospettiva del tempo. Ricordando quando, il 26 aprile 1916, a Barcellona, nella Plaza de toros Monumental, il pugile americano Jack Johnson, il primo campione americano dei Pesi Massimi con la pelle nera, fuggito dagli Stati Uniti per evitare una condanna a un anno di galera (fondamentalmente per aver frequentato donne bianche), ha affrontato il poeta britannico, anche se nato in Svizzera e diventato famoso a Parigi, Arthur Cravan. Nipote di Oscar Wilde, editore e unica firma della rivista letteraria Maintenant, su cui peraltro aveva scritto che Oscar Wilde aveva messo in scena la propria morte, Cravan era un tipo intrattabile alto due metri, refrattario a qualsiasi regola o codice, persino quelli della bohème francese di inizio ‘900. Prima amico dei coniugi Delaunay, è stato condannato a otto giorni di prigione dopo averli offesi sulla sua rivista, per una ragione della stessa natura è stato sfidato a duello da Apollinaire, e per evitare di partecipare alla Prima Guerra Mondiale è scappato a Barcellona dove si guadagnava da vivere dando lezioni di pugilato.
Cravan (nome d'arte di Fabian Avenarius Lloyd) era più pugile di Jake Paul. Per dire, poco prima di affrontare Johnson aveva partecipato al campionato nazionale dilettanti che aveva vinto per assenza di sfidanti dalla semifinale in poi (c’era la guerra, appunto). I soldi dell'incontro gli servivano per emigrare negli Stati Uniti e dopo aver incassato una parte della borsa in anticipo aveva comprato un biglietto per la nave che salpava da Barcellona il giorno dopo l’incontro, pronto a filarsela appena finita. Jack Johnson, a sua volta, aveva perso il titolo mondiale appena un anno prima e in Europa si manteneva combattendo chiunque fosse stato disponibile, anche se aveva già intrapreso la parabola discendente della sua carriera, avrebbe combattuto più di venti incontri dopo quello con Cravan, tra Spagna, Messico, Cuba e Stati Uniti, dove è tornato sul ring anche dopo aver scontato la pena.
Il loro incontro fu un fiasco e anche se una troupe era impegnata in delle riprese che avrebbero poi dovuto portare a un film non ne abbiamo immagini se non qualche foto. A seconda delle testimonianze è durato sei o sette riprese, la cosa sicura è che Cravan è finito KO. Secondo Blaise Cendrars – che ha ricordato Cravan per «il talento immenso che ha usato tanto male quanto la sua forza fisica» - il tutto è durato poco più di un minuto, ed è finito con il pubblico che ha tirato le sedie sul ring. Si racconta di un Cravan tremante, inseguito e preso a calci nel culo da Johnson, a sua volta attento a non colpirlo troppo forte per non far finire troppo presto l’incontro, finché non ha perso la pazienza e lo ha mandato al tappeto. Una volta negli USA, sulla rivista The Soil, Cravan ha raccontato l’incontro in ben altri termini, sostenendo che per quanto fosse un pugile magnifico, rapidissimo e agile, Johnson non avesse le mani pesanti, che i suoi colpi non facessero davvero male.
Arthur Cravan verrà lodato, postumo, dai dadaisti, e André Breton lo considerava un precursore di quelle forze che all’inizio del secolo scorso hanno spinto l’arte in direzione della non-arte. Cendrars racconta anche di una volta in cui Cravan aveva riempito un teatro di persone che avrebbero dovuto assistere alla sua morte, al suo suicidio, salvo poi trasformare l’evento in una conferenza anche piuttosto pedante. Poco tempo dopo, però, nel 1918, Cravan è scomparso su una barca al largo del mare del Messico, suicida sul serio o autore di un'ennesima messa in scena, come qualcuno ama pensare anche in assenza di ulteriori prove della sua esistenza su Terra dopo quel giorno.
La confusione tra realtà e finzione, tra arte e vita, tra provocazione (spettacolo) e sport, si rifà quindi a un’estetica datata, vecchia di più di cento anni. Difficilmente, nel caso in cui qualcuno lo ritenga tale, oggi si può vedere Jake Paul come un avanguardista, o precursore di una «nuova era», come ha detto lui a The Athletic. Al tempo stesso, proprio come per Arthur Cravan, rissoso anche fuori dal ring, poeta nervoso e aggressivo come se in qualche modo potesse far pesare la propria stazza e i propri pugni anche sulla pagina, sempre in bilico tra sentimentalismo e brutalità, anche per Jake Paul è difficile dire che si tratti solo di soldi, o di fama. In fondo sul ring ci è andato davvero, ha fatto vedere qualche combinazione non da dilettante e, con appena un anno e mezzo di esperienza, ha resistito otto riprese contro un atleta che nel combattimento ci sguazza da più di vent’anni.
Gli appassionati più puri ovviamente ripudiano questo tipo di eventi. Ancora ancora Mike Tyson che torna sul ring a cinquant’anni, giusto perché è Mike Tyson, ma di Jake Paul non vogliono neanche sentirne parlare. Gli spettatori in più, quelli che eventualmente potrebbe convertire alla boxe e spingerli a seguirla anche al di là della sua presenza sul ring, non valgono tutto il sistema di palestre, allenatori, gavetta, nasi rotti, specchi incrostati di sudore, e i valori che tramite questo sistema vengono tramandati – il rispetto, l’etica del lavoro, del sacrificio, del dolore. Difficile sostenere che a questa cultura, per quanto non priva di questioni problematiche, si possa sostituire quella dell’auto-promozione, dei personaggi semi-famosi che si sfidano tra loro, che usano la boxe o l’MMA per guadagnare street-cred o risolvere diatribe da “veri uomini”. Oltretutto se è vero che ogni pugile alle prime armi farebbe bene a scegliere i propri avversari (o loro sceglieranno lui) c’è qualcosa di perverso nel cinismo con cui Jake Paul attira nella propria rete esseri umani lontani dal proprio prime tecnico o atletico, fragili e fuori posto in un ring di boxe.
Ovviamente Jake Paul è furbo e non si presenta come una parte del meccanismo che erode la terra da sotto i piedi a quei pugili e fighter che vogliono farsi un’onesta carriera nel mondo da combattimento, bensì come una possibile alternativa allo sfruttamento a cui, in media, sono sottoposti. Per questo ha cavalcato l’onda di protesta contro le paghe UFC: Woodley, che secondo alcune fonti ha guadagnato un milione per l’incontro con Paul, secondo altre addirittura due, nei suoi ultimi incontri in UFC arrivava a circa un quarto della cifra e veniva da quattro sconfitte consecutive.
Oppure, per fare un altro esempio recente (di due fine settimana fa), Jared Cannonier, attualmente numero 3 dei pesi Medi UFC, si è lamentato di essere povero in canna, dopo aver vinto un incontro per cui ha guadagnato poco più di 160mila dollari, bonus compresi. Non può permettersi di non combattere, di scegliersi gli incontri, Cannonier, né tanto meno di infortunarsi, o di prendersi periodi di riflessione come ha detto di voler fare Jake Paul adesso. E un giorno prima dell’incontro tra Paul e Woodley, in UFC, Giga Chikadze e Edson Barboza hanno dato spettacolo per due round e mezzo, finché il secondo è andato due volte knockdown, ha resistito a uno strangolamento e ha costretto l’arbitro a interrompere l’incontro mentre barcollante chiedeva di continuare, il tutto per una cifra che va dai 120mila per lo sconfitto ai 200mila dollari, bonus compresi, per il vincitore (non ci sono ancora cifre ufficiali ma su per giù saranno queste).
Il problema però non sono i soldi. Il successo pugilistico di Jake Paul equivale al successo commerciale dei libri scritti dagli influencer e non dovrebbe scandalizzare più di tanto, semmai il problema sono le paghe dei fighter UFC, ancora basse in relazione ai guadagni. Il contrasto più grande non è sul piano economico (in fondo Canelo Alvarez giusto qualche mese fa ha portato a casa una borsa da 15 milioni di dollari) ma su quello dell’autenticità. Su questo punto, anche se il confine tra un incontro autentico e uno no è sottile, non ci può essere compromesso.
Negli sport da combattimento il rischio è sempre calcolato, ma l’asticella è fissata molto in alto, anche per i migliori. Una delle cose che mi hanno spinto a guardare MMA è proprio il fatto che il rischio incluso nelle regole dello sport è, in un certo senso, il massimo rischio accettabile in una competizione. Certo, Conor McGregor celebra la sua ricchezza quotidianamente sui social, ma quando entra nell’ottagono e la porta si chiude dietro di lui corre gli stessi rischi di tutti. Nel suo incontro McGregor si è fratturato la caviglia, seduto a terra a portare avanti il suo braggadocio faceva una figura patetica, in senso buono, la sua umanità era sotto gli occhi di tutti. Pochi giorni dopo ha ricominciato a farsi foto da superuomo, con piede ingessato e l'altro calzato in un mocassino di velluto, ma alla fine dell'incontro era nudo davanti ai nostri occhi e non poteva farci niente.
Il rischio, che Jake Paul minimizza trattando la boxe come un settore in cui investire il giusto, è una parte fondamentale dell'attrazione che questi sport esercitano sugli spettatori. Le MMA sono «uno sport estremo», mi ha detto una volta Marvin Vettori (attualmente numero 4 dei Medi UFC), paragonandolo ai ciclisti che scendono dalla cima di montagne ripide, sono uno sport «vero», mi ha detto invece Alessio Di Chirico. E più passa il tempo più capisco quanto siano affermazioni profonde. Ho iniziato a seguire questo sport quando il campione dei Pesi Medi era Chris Weidman. Aveva vinto il titolo contro la leggenda Anderson Silva, che nel loro secondo incontro si è fratturato la tibia nel tentativo di colpire con un calcio basso la gamba di Weidman. Qualche incontro dopo, però, Weidman è stato portato a terra da Luke Rockhold, che ha aperto a gomitate una strada che portava alla faccia di Weidman, togliendogli la cintura e un pezzo di anima. Rockhold, però, ha sottovalutato il suo avversario successivo, il veterano Michael Bisping, che a causa di colpi passati oggi ha un occhio di vetro, ed è andato KO. Né Rockhold né Weidman si sono mai più ripresi, Rockhold ha continuato ad andare KO e Weidman, dopo una serie triste di sconfitte, giusto lo scorso aprile si è fratturato la tibia in un modo simile a quello con cui Anderson Silva se l’era fratturata contro di lui.
Le MMA non fanno sconti, ti costringono a guardare il lato peggiore della competizione, i segni che restano sul volto e sul corpo. Non guardano in faccia al numero di follower, al conto in banca, non seguono nessuna narrazione predefinita. A volte sono i piani dell’UFC stessa a saltare, con atleti mediaticamente forti sconfitti a sorpresa da outsider magari piatti, poco magnetici, che non hanno seguito il copione (sempre e soltanto implicito). Gli atleti sanno di avere pochi minuti per provare a scrivere un pezzetto della propria storia, e che l'inchiostro per scriverla è il sangue dei loro avversari.
Proprio sabato scorso, nello stesso evento UFC di Barbosa e Chikadze, il giorno prima che Jake Paul facesse la sua cosa, il fighter italiano Alessio Di Chirico è andato KO dopo 17 secondi contro il ghanese Abdul Razak Alhassan. Alhassan veniva da tre sconfitte consecutive e si giocava il contratto con l’UFC. Di Chirico aveva vinto un solo incontro dei suoi ultimi quattro. Alhassan ha ricevuto un nuovo contratto dall’UFC e Di Chirico deve aspettare la sua occasione per rifarsi. «Non vi dico frasi scontate perché sapete che sono uno che non si arrende», ha commentato Di Chirico dopo l’incontro.
Seguo Di Chirico da quando ha esordito in UFC, lo intervisto da più di cinque anni e volendo o no ho costruito un rapporto che non mi permette di essere freddo, neutro, quando combatte. Ci sono stato male, quando è andato giù, ma le MMA sono fatte così, questa è la loro vera brutalità, non quella che apre tagli e macchia il tappeto su cui combattono, gradualmente, mano a mano che gli incontri si susseguono, fino a sembrare la scena di un crimine. Mesi di preparazione, anni di allenamenti e sacrifici che possono svanire o venire danneggiate in pochi secondi. MMA e boxe sono state a lungo contrapposte, ma questa è una cosa che hanno in comune.
C’è qualcosa di mistico, o diabolico, nel modo in cui il talento si sublima nelle prestazioni di pugili e fighter, nel modo in cui la violenza diventa una forma d'arte e uno dei due combattenti si fa opera, o comunque presta il proprio corpo (o lo prestano entrambi, a turno) affinché l’arte del loro avversario possa esprimersi, come quei corpi donati alla scienza che diventano scheletri nelle classi di medicina. Se ho capito bene, da questo nasce il rispetto che due combattenti provano l’uno per l’altro, dalla consapevolezza che entrambi stanno accettando un rischio per qualcosa di più grande, che non riguarda solo il loro record, la loro carriera, il loro successo.
Forse questa è una cosa che persino Jake Paul può imparare. Il giorno si spingerà oltre i propri limiti, il giorno in cui magari sarà disposto a rischiare davvero. Ha provato paura Jake Paul, o i suoi calcoli erano troppo esatti? O se non è paura - perché non tutti provano paura - ha sentito quel brivido di cui vibrano i corpi dei combattenti dopo che l'arbitro ha dato il segnale di inizio? Il brivido di aver messo in gioco tutto se stesso, tutto quello che ha? Sinceramente, non mi interessa quello che farà, ma gli auguro di provare prima o poi quel brivido che ha fatto tremare Arthur Cravan quando si è trovato di fronte Jake Johnson. Solo allora, e se riuscirà a resistere a quella voce che gli suggerisce di scappare, potrà dire di aver combattuto sul serio.