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Dalla parte di Scottie Pippen
02 feb 2018
I giocatori più iconici di oggi hanno tutti preso qualcosa dal numero 33 dei Chicago Bulls.
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29 min
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“Mike, Scottie ha ragione: tu non hai mai vinto un titolo senza di lui”

Charles Barkley rivolto a Michael Jordan

Secondo studi recenti della neuropsicologia, ci sono nove differenti tipi di intelletto da riconoscere e classificare per valutare un soggetto. È la famosa teoria dell’intelligenza multipla che con il passare degli anni sta conquistando un credito sempre maggiore. Primeggiare esclusivamente in un tipo di ingegno è controproducente e solo un nutrito insieme di capacità è in grado di fare la differenza a livello sociale e lavorativo.

Se ne facciamo una questione di capacità intellettuali nel campo della cinestesia (la capacità estrema di gestire il proprio corpo) emergono ovviamente gli sportivi di alto livello, a prescindere dalla disciplina. Il variegato mondo della NBA è da sempre “infestato” da atleti di livello supremo, ma raramente ha conosciuto un giocatore con le abilità sensoriali e premonitrici di Scottie Pippen, uno dei difensori più mefistofelici della storia del gioco e il precursore ideale della figura della “Point Forward”. Stabilire le capacità necessarie per anticipare e neutralizzare le azioni e le intenzioni degli avversari è un esercizio davvero complicato: nel suo caso, la certezza è che abbia sfruttato queste abilità come nessuno aveva mai fatto in precedenza.

Privo di caratteristiche peculiari in grado di attrarre la curiosità del grande pubblico e penalizzato da un pessimo senso degli affari (finendo più volte in bancarotta), Pippen è rimasto schiacciato dal singolare triangolo delle bermuda costituito dalle ingombranti figure di Jerry Krause, Michael Jordan e Phil Jackson. Un pilastro imprescindibile della squadra più importante degli anni Novanta si è ritrovato spesso vittima designata di micidiali e spietati “mezzucci” necessari a tenere in piedi il complesso più machiavellico che la NBA abbia mai visto. Pippen ha spesso pagato il conto più alto per la pressione enorme intorno all’ambiente e ha risentito dei pessimi rapporti che, in qualche maniera contorta, alimentavano e facevano carburare una della macchine sportive più vincenti e spietate di sempre. Un vaso di coccio costretto a percorrere un lungo tratto di viaggio con dei vasi di ferro, per restare vicino agli stilemi cari al Don Abbondio di manzoniana memoria.

La versatilità fatta persona

In poche stagioni tra i professionisti è riuscito a sviluppare uno stile di gioco che ha anticipato le tendenze della pallacanestro contemporanea e, con il passare del tempo, ha perfezionato la capacità di coinvolgere i compagni e di avviare la fase offensiva. Per quanto riguarda la capacità di leggere il gioco da consumato regista pur non avendone il physique du rôle, sul piano della innovazione pura è probabilmente secondo solo a Magic Johnson e davanti a Charles Barkley, considerando in blocco la generazione del Dream Team di Barcellona 1992. Stiamo parlando della versatilità fatta persona: un giocatore capace di portare palla come un playmaker, di andare a rimbalzo come un lungo e di realizzare con la facilità e l’imprevedibilità tipica di un esterno di razza. Un nume che a queste doti aggiungeva delle capacità difensive in grado di alterare e mandare fuori ritmo le più raffinate macchine offensive in giro per la lega, svariando con grande disinvoltura su almeno quattro ruoli diversi.

Grazie ad un talento innato semplicemente straripante e una generosa apertura alare dotata da Madre Natura (221 centimetri di wingspan su un corpo di 203), Pippen ha spesso infranto i sogni di gloria degli antagonisti più agguerriti dei Chicago Bulls. Lo straordinario magnetismo di Michael Jordan lo ha prima favorito e in qualche modo agevolato nella sua progressione tecnica, ma con il tempo gli ha sottratto troppa attenzione e probabilmente i giusti meriti. La letteratura sportiva si è eccessivamente focalizzata sulla scivolosa distinzione tra primo e secondo violino, col risultato di svilire spesso il ruolo e la centralità nel progetto del titolare della maglia numero 33. La figura del Robin (il giovane aiutante di Batman) a cui spesso è stato associato è semplicemente desolante per il suo pedigree cestistico: trattasi di un supereroe in tutto e per tutto, un eccellente e controverso protagonista ricco di sfumature e sfaccettature, ma certamente non di una semplice spalla.

La sua parabola umana e sportiva ricalca alla perfezione il mito del sogno americano con la scalata al successo, compreso il lato detrimentale e meno edificante che si cela dietro ogni tipo di arrampicata sociale. Per certi versi è il giocatore più enigmatico e ricco di spunti della sua generazione, eppure viene costantemente ignorato o preso in considerazione solo in modo superficiale. Un specie di isolamento a cui ha indubbiamente contribuito con una serie di scelte sciagurate sul piano personale, gesti piccoli e grandi che lo hanno gradualmente trascinato ai margini della NBA. Per tornare al discorso iniziale: sul piano dell’intelligenza sociale pura e semplice non ha certamente mai brillato, per usare un eufemismo.

Dalle stalle alle stelle

La caratteristica più spiccata del giovane Scottie è la feroce determinazione nel cambiare le sorti di un destino che da principio non si prospetta esaltante. Figlio più giovane di una famiglia con ben dodici pargoli, passa buona parte della sua infanzia a giocare nei campi polverosi (non è un modo di dire) di Hamburg, un piccolo centro rurale di 3.000 anime in Arkansas. Ha tempo e modo di osservare da vicino i sacrifici del padre che, per mantenere la numerose prole, si consuma fisicamente lavorando in una cartiera — una fabbrica che come souvenir recapita spesso odori terribili proprio vicino alle finestre di casa. Pippen però non ha intenzione di restare intrappolato e sogna di viaggiare e di osservare il resto del paese, desidera toccare con mano le grandi città di cui sente parlare. La sua famiglia gli fornisce una base solida dal punto di vista affettivo, ma non è in grado di assecondare la sua voglia di scoprire il mondo. L’unica prospettiva è quella di affermarsi in un campo specifico realizzando il più classico dei progetti statunitensi. “Pip” ha un grande talento per il basket ma dubita seriamente di riuscire a sfondare con lo sport giocato: nel momento in cui comincia a valutare con una certa convinzione un futuro da giocatore professionista e concentra i suoi sforzi esclusivamente sul parquet è già vicino ai 18 anni.

Quando il padre è vittima di un infarto che ne paralizza una parte del corpo e influenza la capacità di linguaggio, Pippen è appena entrato al liceo e si dispera per la statura che non gli consente di primeggiare come vorrebbe. Matura l’idea di costruirsi una carriera come manager e comincia ad avvicinarsi al mondo della gestione sportiva di cui cerca di apprendere ogni trucco del mestiere, lavorando soprattutto nel campo delle attrezzature da football durante la pausa estiva.

Donald Wayne, il suo allenatore scolastico, si rivela l’uomo della provvidenza e un lungimirante osservatore. Il coach è magistrale nella sua gestione: con una saggia alternanza di bastone e carota lo spinge ai limiti del suo potenziale e lo traghetta progressivamente verso il sogno di giocare in NBA. Il giovane Pippen viene schierato da playmaker nelle squadrette locali e con il tempo si afferma come il giocatore-guida del suo liceo dopo una robusta cura tecnica e mentale del suo primo mentore. Ma è troppo basso e terribilmente magro per farsi notare e, nonostante la cattiveria agonistica, la tardiva esplosione lascia freddi i reclutatori collegiali. Al tempo del diploma è uno scheletro ampiamente sotto i 190 centimetri di altezza con un gioco ancora molto grezzo: il rischio di finire a lavorare nella cartiera e di seguire le orme paterne è concreto. Ma Wayne è talmente convinto delle possibilità del ragazzo da spendere tutta la sua influenza presso lo staff dell’università di Central Arkansas e la sua raccomandazione vale l’approdo universitario come studente/lavoratore. Don Dyer, che gestisce la squadra, si convince a farlo entrare nel programma come gestore delle attrezzature sportive del campus, ma nutre ben poche speranze nelle sue possibilità da cestista.

Contro ogni aspettativa, il nativo di Hamburg diventa un titolare fisso della squadra già a metà della prima stagione: una maggiore consapevolezza dei propri mezzi unita a una fondamentale crescita di oltre dieci centimetri in un anno cambiano radicalmente il suo approccio e le sue possibilità sul parquet. Sul finire della seconda stagione, raggiunta ormai quota 203 centimetri, ha già sperimentato tutti e i cinque i ruoli e la sua evoluzione continua a sorprendere lo staff di Central Arkansas: nel giro di breve tempo diventa uno dei personaggi più celebri all’interno del complesso scolastico. Dyer sfrutta nel migliore dei modi i suoi istinti da playmaker e lo indirizza progressivamente verso lo spot di ala piccola dopo una nutrita fase di sperimentazione cestistica. La competizione che la squadra si trova ad affrontare non è di primo livello (diciamo un buon grado amatoriale) e per questo le sue prestazioni restano coperte da un velo di fitto mistero per la maggior parte degli addetti ai lavori. La temuta invasione degli scout professionisti non avviene nemmeno quando le statistiche del ragazzo cominciano ad impennarsi clamorosamente: negli ultimi due anni di militanza nei Bears il suo rendimento è ormai paragonabile a un vero e proprio ciclone, e i malcapitati avversari della NAIA (National Association of Intercollegiate Athletics) non hanno risposte credibili da opporre al suo strapotere.

Qualche tifoso della squadra si rende conto di trovarsi di fronte ad un talento superiore, e i ragazzi con buoni contatti accademici gli offrono in più di un’occasione la possibilità di trasferirsi in qualche università più prestigiosa e dotata di maggiore visibilità. Pippen però sceglie saggiamente di restare e di completare il suo percorso di studi a Conway dove ha modo di rifinire il suo bagaglio tecnico lontano da pressioni eccessive e di conseguire la sospirata laurea. Le sue qualità ricevono attenzioni degne di nota solo sul finire del 1985, quando uno dei numerosi contatti sparsi nel paese da Marty Blake lo segnala per la prima volta. Blake al tempo è il principale responsabile dello scouting NBA, un vero e proprio guru nel riconoscere il talento (nel 1970 seleziona Dino Meneghin per gli Atlanta Hawks) e uno specialista nello scovare “diamanti” in realtà praticamente sconosciute. Pippen entra in una lista di cui fa parte anche Dennis Rodman, altro celebre esponente della NAIA a Southeastern Oklahoma State University. Il successo di Rodman nel Draft del 1986 fa naturalmente impennare l’interesse per il suo nome per l’annata successiva: Jerry Krause è il primo General Manager che presta la giusta attenzione alla raccomandazione su Scottie, e anche se il primo report non è molto chiaro viene scomodato con una certa disinvoltura il nome di Magic Johnson. Gli uomini di fiducia spediti sul posto confermano immediatamente le qualità del ragazzo anche se con le opportune riserve vista la competizione modesta. L’orientamento generale della sua valutazione si aggira su un buon secondo giro o, nel più ottimistico dei casi, in una tarda prima scelta nel Draft del 1987.

Krause è disperatamente alla ricerca di un talento di primo livello da affiancare a Michael Jordan, pressione naturalmente amplificata dalla personalità del celebre numero 23, notoriamente poco incline al compromesso. Dopo aver messo a segno un piccolo capolavoro con la selezione di Charles Oakley nel 1985, la sua aura subisce un duro colpo l’anno successivo quando, contro il parere dell’intera franchigia e di MJ, seleziona Brad Sellers (mestierante onesto) con un pick di buona lotteria. La pressione è già notevole e la proprietà si aspetta risultati incoraggianti con l’ingaggio di giocatori più significativi. Quando visiona la prima cassetta del ragazzo, scatta un colpo di fulmine tale che cancella ogni possibile titubanza e lo convince a rischiare buona parte della sua reputazione. Il GM dei Bulls passa in rassegna tutto lo staff della squadra (compreso coach Doug Collins, uno dei più dubbiosi) per convincerli della bontà della selezione. Gli ottimi risultati nelle varie rassegne prima del Draft fanno impennare le quotazioni di Pippen e in poco più di un mese da quasi sconosciuto comincia a entrare nel novero delle possibili prime dieci scelte. Krause dimostra tutta la sua abilità leggendo a dovere il bluff dei Sacramento Kings, che sono pronti a sceglierlo con la sesta scelta nonostante lascino trapelare all’esterno l’esatto contrario. Nel giro di pochi giorni trova un accordo con i Seattle Supersonics, titolari della scelta numero 5: i verde smeraldo selezionano il giocatore di Central Arkansas in cambio di Olden Polynice (numero 8) e di una seconda e una prima scelta futura. Uno degli scambi di maggiore successo della storia.

Una paziente formazione e lo spauracchio dei Bad Boys

Le precarie condizioni economiche della famiglia e qualche dubbio riguardo la sua salute a lungo termine lo spingono a negoziare un contratto molto lungo per minimizzare ogni tipo di rischio. Alle prime perplessità della proprietà dei Bulls, Krause sostiene il desiderio della sua scoperta paventando a Jerry Reinsdorf la possibilità che l’accordo diventi in breve tempo un buon affare, visto l’incremento medio dei salari NBA. Viene raggiunta una intesa tra le parti con una singolare durata di sei stagioni (rinegoziabile dopo la quarta a discrezione della squadra) ed un curioso quanto inedito sistema di interessi a vantaggio del giocatore, un’idea maturata dall’agente e dal suo entourage. Una strutturazione più unica che rara nella storia delle contrattazioni della lega e che sulla carta appare da subito molto meno convincente del quadriennale elargito ad Armon Gilliam, prima scelta del Draft 1987. La storia delle pessime scelte in fase contrattuale (e le varie conseguenze) sono uno dei temi ricorrenti della carriera di Pippen, una debolezza che si tramuterà in uno strumento di micidiale efficacia per aggirare la crescente importanza dei limiti salariali — tutto a vantaggio del management.

La prima versione di Pippen lascia intravedere delle ammorbanti qualità, ma allo stesso tempo evidenzia la mancanza di abitudine a confrontarsi con un livello di gioco superiore. Per sua fortuna coach Collins è un eccellente insegnante e un paziente cesellatore di fondamentali: quest’ultimo si rivela l’ennesimo tassello fortunato nella serie di allenatori che lo hanno seguito negli anni più importanti della formazione. I suoi progressi sono in qualche modo rallentati da cronici problemi alla schiena che vengono curati e monitorati con assoluto scrupolo: viene lanciato gradualmente in squadra e altrettanto pazientemente viene introdotto in una lega di cui conosce a malapena la maggior parte dei giocatori e dei protagonisti principali. Il suo approccio naif e il suo candore fuori dal tempo per certi versi affascinano la dirigenza che sta rifondando la squadra dopo anni di record negativi e rivoluzionando la cultura del lavoro dell’intera franchigia. Trascorre la maggior parte del suo primo anno come cambio degli esterni e come sostituto principale dello stesso Brad Sellers, al tempo uno dei pochi tiratori specialisti con le fattezze di un lungo. Fa il suo esordio da titolare nella delicata Gara-5 del primo turno dei playoff contro i Cleveland Cavaliers e risponde con una prestazione maiuscola da ben 24 punti, condita da una presenza demoniaca su tutte le linee di passaggio degli avversari. Non uscirà più dal quintetto titolare e il passaggio del turno è probabilmente il primo mattoncino verso la la gloria.

“Pip” rompe progressivamente il ghiaccio con i ritmi e le leggi del mondo NBA e nelle due annate successive comincia a spremere i frutti del suo potenziale. Collins ne incentiva lo sviluppo muscolare con buoni risultati mentre Jordan comincia a farlo entrare progressivamente nella sua ristretta cerchia di contatti, eleggendolo a partner di allenamento preferito. L’ascesa nel numero 33 verso il vertice della lega combacia ovviamente con l’aumento vertiginoso delle quotazioni dell’organizzazione, una squadra che sta gettando le basi per raccogliere il testimone dei Boston Celtics di Larry Bird nella Eastern Conference.

Lo scoglio principale verso il titolo è la profondità e lo stile gioco dei Bad Boys. Si tratta ovviamente dei Detroit Pistons di Chuck Daly, un singolare caso di giocatori con una condotta sul campo al limite del codice penale guidati in panchina da un raffinato galantuomo. Sono necessarie tre lunghe e sanguinose stagioni per avere la meglio sulla squadra della città dei motori, annate che si chiudono in modo sempre più pesante e che cambiano radicalmente l’anima tecnica del roster progressivamente migliorato da Krause. Le difficoltà dei Bulls nel compiere l’ultimo passo verso la gloria sono cristallizzate dalle sue esitazioni al cospetto del gioco fisico dei Pistons: il prodotto di Arkansas viene regolarmente intimidito dalle strabordante personalità di Dennis Rodman e di Bill Laimbeer che lo eleggono rapidamente a vittima sacrificale e perno ideale delle “Jordan Rules” (le celeberrime regole ideate per limitare MJ). Incertezze che sono comprensibili per un giocatore molto giovane che ha alle sue spalle poche stagioni di pallacanestro autoriale e che arranca per un tipo di pressione in grado di far vacillare stelle di altissimo cabotaggio. Nel 1989 è costretto ad abbandonare una gara decisiva per una clamorosa gomitata di Laimbeer che costa l’intera stagione al team, mentre nel 1990 — quando sembra ormai aver scalato le marce giuste per superare l’ostacolo — incappa nell’infausta “Migraine Game”.

Arrivati a Gara-7 nella “solita” finale di conference contro la truppa di Daly, il pronostico è per la prima volta a vantaggio della squadra di MJ. Gara-6 si è chiusa con una vittoria molto agevole per Chicago e Detroit appare stanca e sfibrata, idealmente vicina alla resa e per la prima volta fisicamente in difficoltà. A poche ore dalla palla a due Scottie — che ormai è un giocatore da 20 punti a sera, il miglior rimbalzista e lo stoppatore principe della squadra — comincia ad avvertire un forte mal di testa. Quando si prepara per il riscaldamento confida al trainer Mark Pfeil il timore di non riuscire a giocare. Massaggi ed aspirine non danno il risultato sperato e “Pip” scende in campo completamente in balia dei rumori del pubblico e delle luci del palazzetto. Resta sul parquet, ma assomiglia più ad un ectoplasma che alla solita risorsa tuttofare — un fattore che cambia l’inerzia della gara e ancora una volta priva Jordan del primo passaggio alla finale NBA.

La reputazione del giocatore, in costante ascesa fino a quel momento, appare seriamente compromessa e gli interrogativi sul suo rendimento al livello più elevato agitano la mente della dirigenza e tifosi. Resta per due giorni in preda ad una furiosa emicrania e su consiglio dei dottori esegue persino una radiografia al cervello. Una volta ristabilito, cerca di gettarsi alle spalle l’amaro finale con un’intensa estate di lavoro per riuscire a portare le sue qualità a un livello ancora più elevato. La percezione del pubblico e degli addetti ai lavori resta incrinata, come evidenzia la mancata convocazione per l’All-Star Game del 1991. Quando si libera lo spot di Larry Bird che rinuncia per infortunio, la selezione ricade infatti su Hersey Hawkins nonostante l’ottimo record dei Bulls e i tangibili progressi di un bagaglio tecnico che diventa via via sempre più raffinato. Convocato per la prima nel 1990, la sua mancata conferma per la partita delle stelle è semplicemente incomprensibile.

La gloria

La riscossa e l’ora della piena affermazione di tutto il gruppo dei Bulls arrivano immediatamente dopo, e l’evoluzione a pura dinastia sportiva è garantita da una solidità impressionante a tutti i livelli. L’ultimo tassello che manca per canalizzare la furia agonistica di Jordan, bilanciare il gioco e responsabilizzare tutti i giocatori arriva da risorse interne: archiviata l’era Collins (in ogni caso fondamentale per sviluppare il core della squadra), le attenzioni di Krause si rivolgono verso Phil Jackson, strappato al ritiro poco tempo prima e considerato l’uomo giusto per gestire una panchina bollente. Assistente dalla stagione 1987 su indicazione del GM e poi capo allenatore dal 1989, introduce immediatamente il sistema di gioco “Triangolo” (o Triple-Post Offense) sviluppato da Tex Winter, anche lui assistente sotto contratto dal 1985. Pippen beneficia più di tutti del nuovo impianto di gioco e alla soglia dei 25 anni è ormai a tutti gli effetti uno dei migliori interpreti della lega.

Sempre più versatile e al culmine del suo atletismo, “Pip” è un rullo compressore che si abbatte sugli avversari insieme a Jordan, un mostro a due teste che stritola la concorrenza. I Bulls conquistano il primo titolo nel 1990-91 spazzando via in finale Magic Johnson ed i suoi Lakers: a recitare un ruolo fondamentale c’è ovviamente Pippen che, dirottato in marcatura sul leader dei gialloviola, lo costringe a numeri modesti in Gara-2 (4/13 dal campo), partita che segna inevitabilmente la storia della serie. Difende con grande perizia anche su James Worthy e cancella finalmente buona parte delle perplessità che aleggiano sul suo conto conquistando il primo anello della sua carriera.

Assaggiata la gloria dopo un percorso ricco di ostacoli, Chicago non si ferma sostanzialmente più ed arriva a tre anelli consecutivi (un inedito dai tempi di Bill Russell) nonostante le difficoltà e le feroci tensioni presenti all’interno dell’organizzazione. In piena trasformazione dopo il tramonto del dualismo Magic/Bird, la NBA è letteralmente ostaggio delle lune dei Bulls e sulla carta nessuno sembra in grado di fornire risposte alle qualità dei due fuoriclasse in maglia rossa. Nel 1992 i malcapitati Trail Blazers non offrono grande resistenza, mentre molto più affascinante si rivela l’epilogo della stagione 1992-93 quando è Charles Barkley a tentare di strappare il titolo direttamente dalle mani del dinamico duo.

I siparietti tra “Sir” Charles e Scottie sono un cult assoluto all’interno della serie e regalano spesso infuocate quanto improbabili marcature con situazioni di gioco letteralmente paradisiache per gli appassionati. Memore del trattamento ricevuto dai Pistons e in generale dalla durissima concorrenza nella sua conference, Pippen non arretra di un millimetro e dà vita ad un duello rusticano di pregevole fattura contro una della poche megastar in grado di avvicinare la sua versatilità. Il trash talk, i momenti ironico/drammatici, i rispettivi spintoni (senza alcun flop) e la selvaggia intensità sprigionata dai due sono forse uno dei momenti più alti della visione di gioco di una generazione che, quando non eccede in colpi gratuiti, è in grado di interpretare la pallacanestro con una durezza e una purezza d’insieme difficilmente riproducibile. La copertina va nuovamente a Jordan per forza di cose (è indiscutibilmente il miglior giocatore del pianeta), ma quella del 1993 è una finale molto significativa anche per Pippen, finalmente considerato tra i primi 5/6 monarchi del gioco. Guida la squadra nella produzione di assist, è ad un passo dalla doppia cifra di media alla voce rimbalzi e ridefinisce gli standard della difesa uno-contro-uno e di quella in aiuto ai compagni. Soprattutto, è completamente a suo agio nel gestire gli aspetti emotivi del gioco. Quasi chirurgico.

I dolori contrattuali e il mal di Kukoc

L’instancabile ricerca di forze fresche ed in particolare di un altro fuoriclasse in grado di allungare la finestra vincente dei Bulls gioca brutti scherzi. Nel Draft del 1990 Krause seleziona Toni Kukoc, ovvero uno dei giocatori europei più importanti di tutti i tempi. Da quel momento il tema del rinnovo contrattuale di PIppen assume i contorni di un giallo e la stanza dei bottoni lancia messaggi contrastanti alla sua stella: la firma del giocatore croato e la sua corretta integrazione nel salary cap diventano in breve l’ossessione della dirigenza.

“Pip” paga il prezzo del pessimo contratto firmato nel 1987 e, nonostante la gloria del 1990-91, è solo il sesto/settimo giocatore più pagato del roster. L’accordo gli offre una scarsa flessibilità e gli nega la possibilità di rinegoziare, un’opzione a esclusiva discrezione della proprietà dopo il quarto anno. La squadra ha persino la facoltà di tagliare gli anni di contratto residui con un modesta buonuscita. Ancora una volta la possibilità di infortunarsi e la mancanza di una solida tutela lo spingono ad assumere una decisione controproducente: la sua richiesta è infatti quella di un lunghissimo contratto pluriennale del tutto simile al precedente. La situazione precipita rapidamente e i rapporti tra giocatore e staff dirigenziale vanno incontro alla prima di numerose battaglie. ll prodotto di Arkansas è geloso della considerazione prestata al giocatore europeo, un’attenzione che a suo modo di vedere è una mancanza di rispetto nei suoi confronti e dei veterani in generale. Jordan accoglie il suo punto di vista e nega fermamente di supportare la franchigia quando gli viene richiesto di mettersi in contatto con Kukoc per agevolare personalmente la trattativa.

Il proprietario Jerry Reinsdorf, dopo una serie di tentennamenti, si offre disponibile a rinnovare ed estendere il contratto, ma fa chiaramente capire al suo fuoriclasse che la durata eccessivamente lunga lo avrebbe trasformato rapidamente in un giocatore ancora insoddisfatto e sottopagato nel giro di poche stagioni. È ormai convinzione comune che la media degli ingaggi sia sul punto di esplodere ancora e l’orientamento generale, dove possibile, è quello di preferire accordi brevi o molto flessibili. Nonostante l’avvertimento reiterato anche poco prima della firma e i vari consigli ricevuti da altri giocatori, Pippen sceglie testardamente la via della “sicurezza” immediata ancora una volta, firmando uno dei peggiori contratti della storia (i 126 milioni ricevuti da Kevin Garnett solo qualche anno dopo definiscono bene la sua miopia del momento) senza una reale possibilità di uscita e consegnando completamente il suo destino nelle mani di un GM senza alcun tipo di scrupolo.

Alle Olimpiadi del 92 (siamo già al Dream Team di Barcellona) il rancore della coppia dei Bulls non si è ancora placato e quando il malcapitato Kukoc incrocia il parquet con la squadra USA viene letteralmente umiliato da Scottie, che intende dimostrare al suo management e al mondo intero la reale differenza di valore. Il nativo dell’Arkansas dimostra interamente la sua grandezza procedendo alla demolizione sistematica del suo futuro compagno di squadra, costretto ad un mesto 2/11 dal campo: Kukoc viene idealmente travolto da un TIR di cui non riesce a individuare nemmeno la targa.

Le difficoltà senza Michael

Arrivati sul tetto del mondo nel 1992-93 con il terzo titolo in fila, un Pippen insolitamente appagato e in uno dei rari periodi di tranquillità sta per ricevere una delle notizie più clamorose nella storia dello sport professionistico: Jordan annuncia il suo ritiro a soli 30 anni. Molteplici sono le cause della decisione — la morte del padre, la pressione eccessiva e lo scandalo delle scommesse che lo sta travolgendo — ma quello che conta è che la squadra più forte della lega perde di colpo il giocatore più forte di tutti i tempi.

Pippen risponde con una stagione memorabile dal punto di vista tecnico, sviluppando immediatamente una buona chimica con Kukoc che — al termine di un lungo tira e molla tra Krause, Gilberto Benetton e Maurizio Gherardini — ha lasciato Treviso e il campionato italiano (dove era nettamente meglio pagato: altri tempi) per coronare finalmente il sogno della NBA. Dopo un breve periodo di assestamento, la squadra di Phil Jackson decolla verso i vertici della Eastern, dimostrando ulteriormente la solidità granitica del roster nonostante l’assenza di Jordan. “Pip” gioca una pallacanestro celestiale e fattura l’impressionante media di 22 punti, 6 assist e quasi 9 rimbalzi. È ovunque sul campo e difende sempre in modo straordinario ogni sera, senza risparmiarsi. Domina anche l’All-Star Game che controlla dal primo all’ultimo minuto di gioco, tanto da venir eletto MVP della partita. Una regular season stratosferica conclusa al terzo posto della conference nonostante il timido avvio nelle prime partite, un rodaggio necessario per definire i nuovi equilibri senza il miglior giocatore di tutti i tempi.

Shea Serrano nel suo Basketball (And Other Things) ha incoronato questa schiacciata come la più "irrispettosa" di tutti i tempi.

Chicago passeggia al primo turno di playoff ma secondo i pronostici è destinata ad uscire contro i feroci New York Knicks di Pat Riley, nettamente favoriti e probabilmente più profondi e attrezzati per lottare per l’anello. La serie si trasforma in una battaglia senza esclusioni di colpi e regala alla storia sportiva un paio di clamorosi episodi che lo coinvolgono direttamente, passaggi cruciali destinati a impattare sulla considerazione complessiva del giocatore e forse sulla percezione del primo ritiro di Jordan. Il primo fattaccio è poco lusinghiero e fotografa alla perfezione il suo persistente rancore verso Toni Kukoc e, ancor di più, la costante paura di non godere della giusta considerazione. Phil Jackson infatti, nella cruciale Gara-3, con il punteggio inchiodato sul 102 pari e con l’ultimo possesso a disposizione chiama un timeout e disegna un gioco per liberare al tiro il croato, chiamato a ribaltare lo 0-2 nella serie a cui erano scivolati i Bulls. Il numero 33 perde la testa e, convinto di meritare maggior rispetto, mette in scena una delle più clamorose obiezioni di coscienza mai viste rifiutandosi di tornare in campo: pur dando l’impressione di aver cambiato idea subito dopo, i compagni sono ormai rientrati senza di lui. Kukoc realizza il canestro decisivo mentre la sciagurata scelta del suo celebre “nemico” va effettivamente a inserirsi nella storia dei playoff — ma dalla parte sbagliata.

La squadra sopporta meglio del previsto la brutta situazione e Chicago resta concentrata sul basket giocato nonostante le furiose polemiche. Jackson lo inchioda di fronte alle sue responsabilità ma gli offre immediatamente l’occasione di ripartire, riconoscendo in questo modo i meriti complessivi della sua stella, protagonista di una stagione sopra ogni tipo di aspettativa. Nella partita successiva infatti arriva puntuale il riscatto e il pareggio nella sfida contro la odiata New York. La serie si trascina fino a Gara-5 quando Scottie realizza una giocata che potrebbe finalmente farlo entrare nella ristretta cerchia dei giocatori decisivi nei delicati finali di partita: con il punteggio in bilico, anticipa di un giro intero le intenzioni degli attaccanti dei Knicks e vola a contestare la conclusione da fuori di Hubert Davis, oscurando la visuale verso il canestro e trasformando un tiro comodo in una sorta di impresa impossibile. Pippen si estende talmente tanto da arrivare a toccare la mano dell’attaccante, ma solo quando la palla è già stata scoccata verso il ferro: l’arbitro però assegna un fallo al giocatore dei Bulls e concede i due liberi che siglano la fine della partita e dell’intera serie ormai compromessa. Una decisione molto contestata e uno dei fischi peggiori e più chiacchierati di tutti gli anni Novanta, una vicenda arbitrale ancora oggi al centro di clamorose congetture e un importante scippo alla sua carriera. Agguantare la finale di conference con un’ impresa di quel tipo avrebbe probabilmente cambiato in positivo la percezione della squadra durante i mesi del periodo sabbatico di Jordan; inutile sottolineare come avrebbe migliorato notevolmente anche l’immagine e l’autostima di Pippen, e forse sdoganato completamente il suo talento agli occhi del grande pubblico.

Le voci di un possibile rientro del numero 23 (poi concretizzato nel marzo del 1995) si rincorrono a partire dall’estate successiva, un fattore che destabilizza ulteriormente il roster e vanifica i numerosi tentativi del giocatore di imporre e di stabilire un nuovo tipo di leadership. Manca il tempo per cementare rapporti più congeniali alla sua complessa personalità: la tensione e l’incertezza logorano il clima dello spogliatoio e alle prime avvisaglie di contrasti la stampa ripropone a getto continuo la storia del gran rifiuto al tiro di Toni o del mal di testa del 1991.

Di nuovo insieme

Il campo, per l’ennesima volta, dimostra il livello supremo che ha raggiunto: nel 1994-95 viaggia a 21.4 punti, 8.1 rimbalzi, 5.2 assist, una stoppata e quasi 3 recuperi (primo nella lega) ad allacciata di scarpe, leader in ben cinque differenti voci per la sua squadra. Parliamo di Olimpo assoluto e in effetti gli unici a compiere una simile impresa si contano sulle dita di una mano: Kevin Garnett, LeBron James, Giannis Antetokounmpo e Dave Cowens.

Tuttavia il comprensibile bagaglio emotivo dovuto alla ricomparsa di Jordan sul finire della stagione fa passare in secondo piano il suo rendimento monopolizzando i media. Nel frattempo, come previsto, il contratto firmato nel 1991 comincia ad assumere i contorni di un clamoroso disastro: la proprietà non cede alle sue richieste di adeguamento salariale (siamo alla guerra totale tra le parti) ed è vittima delle manovre del fenomenale agente di Kukoc: Luciano “Lucky” Capicchioni è abilissimo nello sfruttare una clausola che gli dà la possibilità di liberarsi dal vincolo con la franchigia dopo il primo anno e il croato rinegozia un accordo che lo trasforma nel giocatore più pagato della squadra, mandando su tutte le furie persino la NBA che vede aggirati in un solo colpo numerosi vincoli salariali. Questo episodio e le richieste sempre più assurde delle matricole in termini finanziari determinano l’istituzione della “scala salariale” appositamente dedicata ai rookie, con termini rigidi e alquanto precisi.

Il definitivo ritorno di Jordan dà linfa alla seconda epopea della squadra, mentre il management ancora una volta si dimostra all’altezza con dei rinforzi mirati (Rodman su tutti) in grado di garantire una stagione regolare con ben 72 vittorie all’attivo. L’annata precedente si era mestamente chiusa con un record di 47-35, un momento di pura transizione al di là del rientro di Jordan. Dopo l’eliminazione per mano degli Orlando Magic di Penny Hardaway e Shaquille O’Neal, la concorrenza viene annichilita dalla combinazione della solita coppia d’oro che tra attacco e difesa soffoca completamente le squadre avversarie. Arrivano in rapida successione altri tre titoli consecutivi sullo sfondo di una lega che sta radicalmente cambiando, ma che continua a non avere alcuna risposta credibile all’egemonia di Chicago. Pippen intanto trova anche il tempo di partecipare alle Olimpiadi di Atlanta 1996 dove conquista il secondo oro olimpico della carriera.

Quando termina l’avventura dei Bulls nel 1998, Scottie è un giocatore fisicamente spremuto che ha imboccato la strada di un comprensibile declino fisico e che alla soglia dei 34 anni non ha il tempo e il modo di ridefinire o arricchire una carriera inimitabile. In estate firma un contratto finalmente soddisfacente con Houston: l’idea dei Rockets è quella di dare l’assalto al titolo NBA con la combinazione del suo talento unito a quello di Charles Barkley e di Hakeem Olajuwon. Un’avventura completamente fallimentare e ricca di tensione, culminata nei continui litigi con “Sir” Charles e con “Pip” sempre più malinconico e polemico.

Chiede ed ottiene uno scambio a Portland, dove conosce una relativa seconda giovinezza in qualità di playmaker occulto di una squadra ricca di talento ma priva di disciplina. Sfiora il titolo del 1999 dove riesce ancora una volta ad incidere in modo apprezzabile in una finale di Conference di altissimo livello, ma si arrende ai Lakers di Shaq, Kobe e Phil Jackson in una indimenticabile quanto tremenda Gara-7. Ultimi fuochi (sinceramente trascurabili) di una stella che sta tramontando e che declina gradualmente e senza scossoni ai Blazers. Nel suo ultimo anno di carriera torna a Chicago grazie ad un tregua armata con Jerry Reinsdorf, un ultimo capitolo funestato da una serie di infortuni che gli impediscono di giocare un buon numero di partite.

Vulnerabile, terribilmente emotivo, ma competitivo fino al midollo. E per questo più vicino ai comuni mortali. Un giocatore meraviglioso e avanti anni luce la sua generazione, nonché un entusiasta innovatore del modo di giocare sui due lati del campo. Nella sua pallacanestro potete riconoscere alcune qualità di Kawhi Leonard e LeBron James, e per certi versi la versatilità di Draymond Green: i giocatori più influenti e iconici della generazione attuale affondano a piene mani nel suo enorme lascito alla lega.

Alla faccia di Robin.

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