
Nell’ultimo mese e mezzo la stagione dei Dallas Mavericks è diventata come una partita a Monopoli andata a rotoli. Una lunga agonia in cui si soffre ad ogni lancio di dadi, perdendo partite (nove delle ultime undici), posizioni in classifica (decimi a ovest) e giocatori (tra mercato e infermeria); in cui la prigione (Draft Lottery) sembra l’unico possibile riparo, anche se pochi mesi fa ci si godeva un lussuoso hotel a Parco della Vittoria (le NBA Finals); in cui gli avversari sembrano provarci un certo gusto a infierire, tra chi effettivamente ne ha buoni motivi (Luka Doncic) e chi meno (Quentin Grimes, i Los Angeles Lakers). Non si prendono nemmeno i 20 dollari passando dal via (American Airlines Center), ma solo bordate di fischi, contestazioni e “Fire Nico!” (Harrison, il general manager).
Praticamente le piaghe d’Egitto, ma a Dallas. Se lo scambio tra Luka Doncic e Anthony Davis può essere considerato assurdo, inspiegabile e sbagliato, la franchigia di Patrick Dumont, Nico Harrison e Jason Kidd (scegliete voi il grado di colpevolezza negli eventi) rimaneva indubbiamente una delle più solide della Lega, con un roster profondo e coriaceo che l’anno scorso è arrivato alle Finals non solo per merito di Luka.
L’idea dei Mavericks abbandonando lo sloveno era proprio di andare in direzione di una squadra più fisica, che puntasse sulla difesa, che fosse pronta a vincere subito senza affidarsi ai capricci di un singolo giocatore, con un basket magari meno fluido ma più corale e affidabile. Ecco, è successo l’esatto opposto. Certo, puntare su Davis voleva dire puntare su un giocatore dall’integrità fisica sospetta (uno dei suoi soprannomi, il più infelice, è Street Clothes, che si riferisce ai giocatori indisponibili che vanno in panchina in abiti "civili"), ma dopotutto la scorsa aveva giocato 76 partite e anche in questa sembrava andare come un treno. In maglia Mavs è durato, invece, appena 31 - dominanti è vero, ma pur sempre 31 - minuti. E poi, a cascata, sono arrivati tutti gli altri infortuni: Kyrie Irving, PJ Washington, Daniel Gafford, Dereck Lively, Jaden Hardy, Dante Exum, Caleb Martin, Brandon Williams, Kai Jones, Olivier Maxence Prosper.
Quando un injury report sembra un bollettino di guerra.
«Non ho mai visto niente del genere», ha detto coach Jason Kidd, commentando la piaga di problemi fisici che si è abbattuta sul roster dei Mavs nelle ultime settimane. «Non ho mai giocato o allenato una partita in cui non si può far riposare nessuno perché non ci sono altri giocatori da mettere in campo», ha detto dopo la sfida contro gli Spurs, giocata con otto effettivi (il minimo da regolamento NBA). «Quando sembra che stiamo per recuperare un giocatore» - ha aggiunto in una seconda occasione - «poi, ogni volta, qualcun altro si fa male. È frustrante».
Parallelamente, a Los Angeles è tornato a splendere il sole, con l’arrivo di Luka Doncic che sembra aver riportato i Lakers nella terra promessa: a contendere per il titolo. Dal debutto dello sloveno, i gialloviola hanno vinto 9 partite su 11, inclusa la sfida contro gli stessi Mavs dello scorso 26 febbraio, in cui Doncic ha fatto registrare una tripla-doppia da 19 punti, 15 rimbalzi e 12 assist; con tanto di trash talking verso la panchina di Dallas - o forse verso Nico Harrison nelle file dietro - e con qualche flessione nel riscaldamento, sotto gli occhi del suo ex general manager (che lo ha scaricato, a quanto pare, proprio per ragioni di condizionamento fisico).
Come se non bastasse, ci si è messo pure Quentin Grimes, ceduto da Dallas a Philadelphia in cambio di Caleb Martin. Il primo a marzo ha già scollinato quattro volte i 25 punti, con tanto di miglior prestazione della carriera (44 punti) in diretta tv nazionale e con una media di 18.6 a sera; il secondo è appena rientrato da un infortunio all’anca e - senza girare il dito nella piaga più del necessario - non è parso in forma smagliante nelle prime uscite.
Senza Doncic e Irving, un Quentin Grimes così avrebbe fatto comodo a Jason Kidd (sicuramente più di un 3&D come Caleb Martin).
Insomma, “piove, è morto il gatto, mi ha lasciato la fidanzata, e io tengo ai Mavs”, avrebbe detto Federico Buffa. E dopo il grave infortunio di Kyrie Irving - protagonista fin qui di una grande stagione (24.7 punti, 4.6 assist e più del 40% da tre su 7 tentativi a partita), ma sottoposto a un carico non sostenibile dopo la partenza di Doncic (39.3 minuti a partita, il minutaggio più alto di tutta l’NBA) - a Dallas è diventato davvero difficile guardare al futuro con un minimo di ottimismo. O almeno, con un po’ di speranze.
Le lacrime che bagnavano il viso di Irving mentre segnava i due punti più tristi della sua carriera - tirando i liberi “guadagnati” dal contatto con Valanciunas, che ha causato la rottura del legamento crociato - sono la fotografia dello stato d’animo di un’intera fan base. Che ha perso il proprio idolo, ma ha provato - non proprio tutti tutti tutti, a dire il vero - a farsi coraggio e credere nel progetto tecnico; poi ha visto materializzarsi il grande spettro arrivato in spogliatoio insieme ad Anthony Davis, cioè la sua fragilità; e quindi ha dovuto rassegnarsi, una volta per tutte, di fronte al dolore di uno stoico Irving, che non si rivedrà prima del 2026. E su cui, con tutto il rispetto per un giocatore che ancora oggi è tra i migliori della Lega, è lecito chiedersi come lo rivedremo, al ritorno dalla rottura di un crociato a 32 anni.
Il vero emblema della stagione dei Mavs, però, non sono queste tragiche circostanze, da cui si potrebbe evincere che il piano di Nico Harrison sia stato sabotato soltanto da una serie di sfortunati eventi. Piuttosto, si potrebbe scegliere il doppio infortunio di Kessler Edwards e Dwight Powell occorso nella sconfitta di domenica contro i Suns, quando i due hanno avuto bisogno di medicazioni e punti di sutura sul volto (Powell è rimasto fuori per il resto della gara) dopo uno scontro fortuito. Sì, tra compagni di squadra, e per giunta nel recupero di una palla ormai fuori dalla portata degli avversari.
Un’altra vicenda sfortunata, certo. Ma da cui emerge un fondamento innegabile: i Dallas Mavericks si sono fatti male da soli. Si sono condannati da soli a questo destino. Del resto, non li ha costretti nessuno - di certo non Doncic - a buttare via uno dei migliori giocatori dell’NBA, in uno dei peggiori (e più incomprensibili) scambi nella storia della lega. Senza neanche fare ciò che si dà per scontato in casi del genere: chiamare tutti i front office della lega, far girare la voce, creare un’asta e alzare il prezzo. E se poi la malasorte si è accanita contro l’organizzazione, radendo al suolo un pezzo alla volta l’intero roster di Jason Kidd, come si fa a non cedere alle teorie dell’instant karma?
In ogni caso, provando a guardare oltre, ci sono altre 16 partite di regular season da giocare. I Mavs (33-33) al momento occupano la decima posizione nella Western Conference, con un paio di partite di vantaggio sui Suns (30-35), undicesimi. Sulla carta, partono da una posizione favorevole, con uno dei calendari più facili della lega (al contrario dei Suns, che invece hanno il più tosto in assoluto) e tie-breaker a vantaggio; nel mondo reale, però, tutto questo conta fino a un certo punto, considerando la disastrosa situazione in cui versano Klay Thompson e compagni - giusto per citare l’unico rimasto in piedi dei “big three” (che certamente si immaginava qualcosa di diverso l’estate scorsa).
In programma, tra l’altro, c’è anche il secondo testa a testa con i nuovi Lakers di Doncic, il 9 aprile. Stavolta in Texas, nel primo ritorno a casa di Luka Magic. E se i gialloviola ci arriveranno con la testa ai Playoffs, puntando al secondo posto a ovest (sono in volata con Nuggets, Grizzlies e Rockets), per i Mavs - e soprattutto per Nico Harrison - sarà un’altra tortura. Con buone probabilità, almeno, sarà il terzultimo supplizio prima dell’offseason. O meglio, prima di una Draft Lottery cui i Mavs, giunti a questo punto (disperato), dovrebbero pensare di presentarsi con le migliori percentuali possibili. Replicando quanto visto nell’ultimo mese - perdendo partite insomma - anche nelle prossime settimane.
Ricordate il tanking di due anni fa, la multa di 750.000 dollari dell’NBA e l’arrivo di Dereck Lively nella notte del Draft? Lo scenario non è troppo diverso, e perdendo un po’ di terreno in classifica si potrebbe ambire a un 5-10% (circa) di finire tra le prime quattro chiamate. Certo, sarebbe meglio per tutti sperare di invertire la rotta, ma come?
Oltre al vuoto nel backcourt di cui si è parlato, creato dagli addii sul mercato e dagli infortuni, anche il reparto lunghi è ridotto ai minimi termini. Anthony Davis, secondo Shams Charania (ESPN), potrebbe restare fuori per il resto della stagione, e come lui anche Lively e Gafford. D’altronde, che senso avrebbe forzare i tempi, in un contesto del genere?
A febbraio è stata messa una pezza con il contratto di dieci giorni di Moses Brown, ma ora i Mavs non hanno spazio neanche per una spesa del genere (sono 51.000 dollari circa sotto il first apron); e nemmeno i two-way players possono offrire una soluzione, in quanto la deadline è scaduta a inizio marzo (oltre al fatto che questi giocatori non potrebbero scendere in campo nei Playoffs, che comunque pare l’ultimo dei problemi). E purtroppo il regolamento non consente nemmeno di far scendere in campo gli ex giocatori NBA che compongono lo staff (Jason Kidd, Jared Dudley, God Shammgod), altrimenti potrebbe quasi essere un’ipotesi.
Messa in archivio l’annata 2024/25 (Draft incluso), sarà tempo di guardare avanti e dare seguito alle ambiziose promesse post-trade deadline. Cercando anche di convincere i tifosi a non abbandonare la squadra, nonostante il generale sconforto (secondo un sondaggio di questi giorni, l'80% dei fan dei Mavs si sentirebbe 'tradito' dalla scelta di cedere lo sloveno e starebbe riconsiderando il proprio tifo) e la decisione del front office di alzare i prezzi (+8.6%) degli abbonamenti stagionali per la regular season 2025/26. E purtroppo per i tifosi ci dovrà pensare l’uomo più odiato in città, Nico Harrison. In un’estate molto delicata per la franchigia.
Il nodo più importante da sciogliere è la situazione contrattuale di Irving, che ha un’opzione da 44 milioni di dollari circa per la prossima stagione. Si potrebbe pensare che il recente infortunio renda scontato l’opt-in, ma non è così; il giocatore infatti sa bene che i Mavericks sono in una situazione salariale con pochissima flessibilità e ancora meno margine di manovra (hard-capped al primo apron), dunque in estate si troveranno davanti a una scelta praticamente obbligata. Tra perdere Irving “gratis” e non sostituirlo oppure strapagarlo a lungo termine, nonostante l’età e l’infortunio (non il primo della sua carriera), il secondo scenario sembra il meno peggio, si fa per dire. Anche perché lasciar andare Irving vorrebbe dire praticamente anche scambiare Davis, che difficilmente accetterà di rimanere in un roster non competitivo. Sarebbe un colpo terribile non solo perché a quel punto bisognerebbe ricostruire da zero, cosa che succede a quasi tutte le franchigie prima o poi, ma perché dovrebbero farlo dopo aver ceduto Doncic (ottenendo in cambio una sola prima, tra l'altro). Insomma, siate pronti a sentir parlare (male) della ri-firma di Irving in arrivo: i desideri al massimo salariale di Kyrie, probabilmente, verranno esauditi. Poi, prima di ogni altra cosa, toccherà pregare per la sua integrità fisica, per quella di Davis e in generale in un pizzico di fortuna.
«Per me il futuro è tra tre/quattro anni», diceva Nico Harrison all’indomani della trade deadline, rispondendo alle critiche in arrivo da ogni angolo del mondo. Intanto, uno di quegli anni è già andato, e il secondo rischia di essere compromesso dalle condizioni di Kyrie, che rientrerà strada facendo e realisticamente non sarà il giocatore visto quest’anno prima di un anno e mezzo (ammesso e non concesso che riuscirà a tornare su questi livelli). A quel punto, però, il tempo sarà quasi finito per i Dallas Mavericks.