Miguel Pérez Cuesta, meglio conosciuto come Michu, ogni giorno percorre i 20 km che separano da Oviedo da Langreo, comune asturiano la cui squadra milita in quarta divisione spagnola, ed è allenata da suo fratello Hernán. Con un passato in seconda divisione, il Langreo intende recuperare il prestigio perduto e per farlo sarà senz’altro d’aiuto un calciatore che meno di due anni fa giocava i preliminari di Champions League, su terreni diversi da quelli scivolosi di uno stadio di paese, con il fango a farla da padrone.
In ritardo come sempre, per quello che riferisce Víctor Fernández, presidente della società, l’ex calciatore di Napoli, Swansea e Rayo Vallecano viene accolto al suo arrivo allo stadio dai pulcini del Langreo che lo invitano a calciare il pallone tra due coni posti a 20 metri, tra le risate di alcuni e la timidezza di altri. Ma non c’è tempo, tra 20 minuti inizia l’allenamento e prima abbiamo l'intervista da fare.
Un proverbio spagnolo recita: “Come a casa, da nessuna parte”. Mi sembra perfetto per uno come te che sta riprendendo a giocare dopo quasi un anno di stop per infortunio.
Sì è così. Soprattutto se vuoi recuperare la condizione fisica e psicologica dopo un lungo periodo di inattività. Ero arrivato a un punto di non ritorno e credo per ricominciare non avrei potuto avere un’opportunità migliore di questa. Qui ho l’affetto della gente del paese e anche dei miei concittadini a Oviedo.
Tuttavia ti cercavano altri club, Aston Villa su tutti...
Sì ma avevo le idee molto chiare sul mio futuro a breve termine. Non avrei ripreso a giocare ad alti livelli senza un recupero graduale e concreto. Ed eccomi qui, in quarta divisione.
In una recente intervista hai detto che vai a dormire sempre con la speranza che la caviglia non ti faccia male il giorno dopo. Come stai affrontando questo recupero?
In primo luogo con tanto allenamento. Mi alleno due volte al giorno qui e faccio una sessione di fisioterapia cinque giorni su sette. A livello psicologico, invece, è molto importante avere il sostegno di chi mi è sempre stato vicino e stare a casa è sicuramente un vantaggio. Con mio fratello c’è fiducia e la gente del posto mi ha accolto benissimo fin dal primo momento.
Come hai vissuto il passaggio dalla Champions League alla quarta divisione?
Un cambio radicale, senza dubbio, che fa capire quanto fosse importante per me riprendere a giocare. Nonostante fossi arrivato all’apice a ventisei anni ho dovuto fare dei passi indietro per riacquisire non solo la forma ma soprattutto la totale mobilità della caviglia, che mi ha torturato per oltre un anno. Ho dovuto imparare a convivere con il dolore.
Influisce sul tuo gioco, nell’elevazione magari?
Per niente, te lo assicuro. Io gioco sempre al massimo e anche quando salto per un colpo di testa conto sull’appoggio di tutto il mio corpo, caviglia malandata inclusa. Non sarei me stesso se non mi impegnassi al massimo su ogni pallone giocabile.
La stagione più prolifica di Michu (2012-13)
Come hai maturato la decisione di scendere di tre categorie?
Ero libero dal contratto con lo Swansea e pensai che non avrei potuto stare meglio che agli ordini di mio fratello, in un palcoscenico tranquillo come questo di Langreo. Il calcio di paese è meno rutilante di quello della prima divisione, ma questo è un ambiente propizio, una sorta di buen retiro in quella che sempre è stata la mia casa.
So che la squadra non si muove in autobus, ma in varie auto di diversi calciatori. Tu guidi o ti fai accompagnare?
Vado con mio fratello Hernán e il suo secondo, sono loro che guidano una delle macchina della nostra carovana quando siamo in trasferta. I tempi sono meno serrati ed è piacevole viaggiare nella mia regione riscoprendone anche le bellezze paesaggistiche. E poi se non guido è meglio.
Dall'esterno l'aspetto più difficile della tua decisione sembra quello delle motivazioni.
E invece no! Per me non fa differenza sentire l’urlo di trentamila tifosi dello Swansea o dei quattromila del Nuevo Ganzábal [lo stadio del Langreo, ndr], io gioco ogni partita al massimo e vedo il gol come l’obiettivo più importante nell’enfasi del gioco. Ti assicuro che anche se il terreno del Langreo è uno dei peggiori della categoria la tifoseria è talmente calda e vicina alla squadra che quando scendo in campo dimentico tutto e gioco come se stessi in Premier.
In effetti, tra pioggia e cielo grigio, le Asturie assomigliano un po’ all’Inghilterra...
Non hai tutti i torti. In quanto a clima la differenza è poca. Ovviamente l’impatto mediatico della Premier, i suoi stadi e l’intensità del suo gioco non hanno eguali. Eppure, ti ripeto, per me ciò che è più importante è giocare a calcio. Il resto non conta.
Anche giocare gratis?
Assolutamente. Nella vita sono stato fortunato a poter far soldi con la mia passione, e adesso non ho bisogno di pensare al solo guadagno. Se mi togliessero i soldi potrei vivere lo stesso, se mi togliessero il calcio la vita sarebbe durissima.
Sei un calciatore atipico, un po’ mezzapunta, un po’ punta centrale. A parte il Napoli non hai mai giocato in una squadra di alto livello, ami l’Oviedo, sei arrivato alla ribalta con il Rayo Vallecano. Ti senti un antieroe?
Più che un antieroe diciamo che mi sento un calciatore al quale non importa il palcoscenico in sé quanto lo spirito del club. Sono stato nel Rayo, nello Swansea e nel Napoli e in tutte queste realtà mi sono sentito anzitutto accettato come persona e poi come giocatore. Sono così, un po’ strano, in effetti, non ho mai puntato a uno stipendio faraonico quanto alla soddisfazione personale. Dal momento in cui riempio il borsone per l’allenamento mi sento contento e propositivo, ed è una sensazione che mi riempie la giornata.
Il gesto con cui festeggia, alla Luca Toni, che significa?
È più che altro un gesto di rabbia. Ricordo di averlo fatto la prima volta dopo un gol con il Celta, quando giocavo ancora in seconda divisione e scalpitavo per farmi largo nel calcio che conta. Quel giorno sfogai il mio rancore in quel modo e da quel momento divenne un rituale festeggiare così, proprio come Luca Toni.
Del quale però non hai ereditato del tutto il ruolo...
In effetti no. Se proprio mi dovessero chiedere qual è il mio ruolo preferito risponderei che è mezzapunta, perché amo partire da dietro, avendo magari qualche punto di riferimento davanti a me, per inserirmi dalla seconda linea e sorprendere la difesa avversaria.
In quel ruolo hai realizzato il tuo record di gol nella stagione 2011-12 nel Rayo Vallecano,15 gol in una squadra che lottava per la salvezza…
Quell’anno l’allenatore dimostrò di avere tantissima fiducia in me ed è riuscito ad esaltare le mie caratteristiche come nessuno nella mia carriera. Davanti avevo Diego Costa o Tamudo che mi davano lo spazio giusto per arrivare da dietro e sfruttare le mie doti realizzative, soprattutto di testa. Ricordo una grande rimonta in casa contro il Racing Santander: perdevamo 0-2 e alla fine vincemmo 4-2 e siglai una doppietta.
Vita pirata
Come hai vissuto la salvezza all'ultima giornata, quella stagione?
Quella serata fu magica, ma prima ancora fu palpitante, drammatica, intensa. Vedevo le facce della gente senza più speranza, la retrocessione era praticamente cosa fatta, perché la palla non voleva entrare. Intorno a noi imperava la disperazione, poi il corner per noi, con Cobeño [il portiere, ndr] in area avversaria, mi arriva il pallone addosso dopo un tiro ribattuto a Piti, lo calcio, sbatte sulla traversa ma ci pensa Tamudo a metterla dentro, all’ultimo minuto, dopo un recupero che agonico è dir poco. Si trattò del momento più emozionante della mia carriera.
Più della vittoria della Coppa di Lega con lo Swansea?
Senza dubbio. È vero,vincemmo un trofeo importante per una squadra gallese, invadendo Londra e Wembley, ma di fronte avevamo una compagine molto inferiore ed era una vittoria già scritta. La sera di Vallecas, invece, fu storica: la gente aveva invaso il campo prima del fischio finale dell’arbitro e la festa durò ore e ore. Alcuni tra i Bukaneros [ultras del Rayo, ndr] mi avevano preso in braccio e portato in trionfo. Per me fu l’equivalente di una festa Scudetto.
Restando a Vallecas, la creazione dell’hashtag #Michuselección fu una vera spinta popolare alla tua convocazione da parte di Del Bosque.
Vestire la maglia della Spagna è stata un’emozione unica. Inizialmente insperata, poi si trattò di un premio alla mia grande stagione. E non c’è dubbio che l’appoggio dei tifosi del Rayo sia stato fondamentale.
Il Napoli invece è stato il momento meno felice della tua carriera?
Il Napoli per me è un rimpianto enorme. Ero arrivato con tanta voglia di far bene e di dare il mio contributo a una grandissima squadra, ero nel punto più alto della mia carriera. Poi la caviglia, che già mi tormentava dai tempi dello Swansea, cominciò a farmi male in continuazione e non riuscii a trovare pace da un dolore costante. Nemmeno il recupero qui in Spagna mi aiutò e l’impotenza di non riuscire a giocare mi distrusse psicologicamente.
C’è un momento in cui avresti potuto raccogliere tutto l’amore del San Paolo, nella partita di andata dei preliminari di Champions League, 19 agosto 2014. Ti arriva la palla di fronte al portiere avversario e invece di tirare col destro, la appoggi all’accorrente Callejón, che non arriva in tempo per calciare. Credi che se avessi segnato, la tua stagione si sarebbe potuta sviluppare diversamente per un fatto psicologico?
Sai, è una questione di decimi di secondo. Adesso so, dopo aver visto il replay, che in quel caso avrei dovuto calciare in porta. Eravamo sul 1-1 e un mio gol ci avrebbe dato un vantaggio meritatissimo, e avrebbe messo sul binario giusto una qualificazione che poi non arrivò. Magari un esordio positivo con gol avrebbe facilitato uno sviluppo migliore della mia stagione in azzurro, in tutti i sensi. Ma i tifosi non mi hanno mai fatto pesare né l’errore né le assenze per infortunio, i napoletani con me sono sempre stati gentilissimi e disponibili. Quella azzurra è una delle migliori tifoserie del mondo, senz’alcun dubbio. E comunque quella notte di Champions non la dimenticherò mai perché il grido ‘The Champions’ dei tifosi alla fine dell’inno prepartita mi lasciò con la pelle d’oca. E pensare che Dries [Mertens, ndr] mi aveva avvisato…
“Avrei dovuto calciare in porta"
A 30 anni appena compiuti speri di tornare a vestire la maglia dell'Oviedo?
Seguo l’Oviedo in ogni modo e quando posso vado al Carlos Tartiere [lo stadio della squadra, ndr] per tifare da vicino come facevo da ragazzo. È evidente che sarebbe un sogno quello di poter difendere la maglia della mia città nel massimo palcoscenico nazionale, dopo averlo già fatto. Ora, però, devo riprendere l’abitudine a giocare spesso e la caviglia mi deve aiutare. Quindi iniziamo col finire questa stagione con il Langreo, portarlo in terza divisione per regalare una gioia alla gente del paese e poi si vedrà.
Fine
L’intervista finisce qui, mentre lui fila negli spogliatoi, per vestirsi per le foto di rito. Poi lo vedo uscire con dei calzettoni che mi sembra di riconoscere... “Sono del Napoli?”, chiedo. “Certo, li uso sempre per allenarmi, ma li porto al contrario per scaramanzia”.