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L'incredibile vita di Dana White
15 mar 2022
La storia controversa dell'uomo dietro l'UFC.
(articolo)
24 min
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Boston, 1995. Ora di pranzo di una limpida giornata di sole, un’anonima Chevrolet Lumina rallenta l’andatura per accostarsi al marciapiede in corrispondenza dell’ingresso di una palestra. Dall’auto scendono due uomini dai tratti irlandesi, di corporatura media, vestiti con jeans e giacca di pelle, uno moro, l’altro con i capelli più chiari. Il primo legge l’insegna della palestra e abbassa lo sguardo su un foglietto sgualcito. Annuisce e fa un cenno al suo compare, che risponde: «Dopo di te, “Two Weeks”».

Anne Whintor si sta sistemando i capelli negli spogliatoi della palestra, dopo essersi fatta una lunga doccia calda. Ha appena finito la prima lezione di quel famoso programma di workout che le hanno consigliato le sue amiche e che sta spopolando in città. Mentre si aggiusta le ultime ciocche pensa che sì, provarlo è davvero valsa la pena. Peter e Dana, i due istruttori, sono preparati e hanno creato un allenamento diverso dal solito, faticoso ma divertente. Non si sarebbe mai immaginata davanti allo specchio a tirare colpi di boxe, e invece è proprio quella la particolarità del workout più famoso di Boston. Mentre si lega i capelli per poi prendere il borsone con il cambio, le sembra di essere tornata bambina, quando pattinava sulle piste di ghiaccio di Portland. Lo decide in quel momento: si sarebbe allenata almeno due volte a settimana, erano anni che non lo faceva e si era ormai dimenticata di quanto fosse soddisfacente. Ma ora si è fatto tardi, Anne prende la borsa ed esce dallo spogliatoio.

Nella reception della palestra Anne e i due uomini dell’auto si incrociano. Lei li guarda distrattamente, sta ancora pensando ai tempi di Portland, alla cioccolata calda che beveva con sua nonna dopo aver pattinato per ore. Loro la squadrano, soprattutto quando è di spalle perché ha un paio di pantaloni sportivi attillati, e fanno qualche commento a mezza voce. Ma ecco che si fa avanti un ragazzo dal fisico tonico, asciutto, con un viso tondo dalla carnagione chiara, sorridente anche se stupito dalla presenza di quelle persone, che sembrano diverse dai clienti medi interessati al suo programma di workout, per di più capitati nel bel mezzo della lezione del mezzogiorno: «Salve, volete qualche informazione sui corsi?».

L’uomo con i capelli scuri lo guarda intensamente, e si prende qualche secondo per rispondere. Poi dice: «Stiamo cercando Dana White. Sei tu?». È una domanda retorica, sapeva dal principio che lo era. L’istruttore capisce che c’è qualcosa di strano, anche se non sa ancora definire cosa. «Chi mi cerca?» risponde intimorito. «Ci manda Whitey Bulge», replica l’uomo senza smettere di fissarlo. Il giovane trasale. «Gli affari ti stanno girando bene. Vogliamo 2.500 dollari per la settimana prossima». A Dana White si secca la bocca, non riesce a replicare e infatti non dice nulla.

Two Weeks” capisce che è bastato pronunciare quel nome per fargli recepire il messaggio. Si dirige verso l’uscita guardandosi intorno con l’atteggiamento di chi sa che, se ne avesse voglia, il giorno dopo si potrebbe prendere quella palestra senza versare un centesimo per comprarla. Dana White resta lì, immobile nella reception della palestra. Finalmente riesce a deglutire, si massaggia la fronte con una mano.

Ancora stordito e con una sensazione di vuoto addosso osserva il sole di Boston attraverso la porta d’ingresso. Era una così bella giornata. Poi il suo sguardo viene catturato da un cartellone pubblicitario di un’agenzia turistica affisso sull’edificio di fronte. Legge distrattamente lo slogan, finché due parole gli fanno brillare gli occhi: “Las Vegas”. E allora tutto diventa più chiaro.

Più punk che delinquente

Dana Frederick White Junior nasce il 28 luglio 1969 a Manchester, cittadina di 60mila abitanti in Connecticut, nel New England degli Stati Uniti, in una famiglia di americani irlandesi. Suo padre è alcolizzato mentre la madre June (che nel 2011 scriverà il libro Dana White, King of MMA – An unauthorized biography, fortemente critico su di lui) si barcamena tra diversi lavori per portare a casa il necessario. «Papà non c’era mai, e quando c’era era meglio non averlo intorno. Io e mia sorella Kelly siamo cresciuti da soli, ho imparato tante cose da me. Non cambierei nulla della mia infanzia, altrimenti non sarei quello che sono diventato oggi» rivela White sul suo passato, come riporta il Daily Mail. La famiglia si trasferisce diverse volte, viaggiando dal Massachusetts, dove vive nella cittadina di Ware, fino a stabilirsi a Las Vegas, uno degli Stati che in quel periodo ben retribuisce il nuovo lavoro di June, l’infermiera, quando Dana frequenta la terza o quarta elementare. Alle scuole medie il ragazzo di Manchester conosce una ragazza, Anne, il cui nome di nascita in realtà è Stella, che sposerà nel 1996, e da cui avrà tre figli, due maschi (Dana Junior, il maggiore, e Aidan) e una femmina (Savannah, la più piccola).

Al liceo White si iscrive alla scuola cattolica Bishop Gorman, dove stringe amicizia con il compagno di classe italoamericano Lorenzo Fertitta, ma viene espulso per cattiva condotta: tormenta una suora chiudendo a calci la porta dell’aula in cui la poveretta insegna scappando poi via, fino al giorno in cui viene scoperto (il giornalista Billy Baker spiega: “White non riusciva a incanalare la sua vivacità nella giusta direzione, ma da giovane è stato più un punk che un delinquente”). Nel 1987 si diploma allora alla Hermon High School di Hermon, in Maine, dove vivono alcuni parenti. Per festeggiare il traguardo scolastico fa visita a sua madre, che intanto era emigrata a Boston, dove decide di restare anche lui (e lo farà per dieci anni) trovando lavoro prima come operaio in una ditta che si occupa di pavimentazione stradale (lo definirà come il lavoro più duro mai fatto; ecco forse il motivo per cui, tra un’asfaltatura e l’altra, organizza incontri di wrestling tra i colleghi) e poi come buttafuori. Nel frattempo si iscrive due volte al college, abbandonando in entrambi i casi dopo il primo semestre; in futuro ripeterà spesso: «Ho frequentato l’università di Boston Sud, è lì che ho imparato tutto quello che so sul combattimento».

Boston infatti è la città in cui White, a 17 anni, comincia a praticare boxe da pugile dilettante, la sua prima passione, lo sport in cui inizialmente vorrebbe crearsi una professione. A 19 anni viene assunto come bellman (una sorta di receptionist) in un hotel prestigioso della città, ma lo ritiene «il lavoro più degradante che abbia mai fatto» ed è lì che realizza di voler lasciare tutto per tentare di costruirsi un futuro nel fighting, come racconta al motivatore e life coach Anthony Robbins, ma non come atleta: «Le persone mi davano del pazzo, perché mentre crescevo gli unici a guadagnare tanto come promoter erano mostri sacri come Don King e Bob Arum nel pugilato, e nessuno credeva che il business potesse cambiare. In molti si sarebbero accontentati di quel lavoro in hotel, anche perché con le mance guadagnavo bene, ma non era ciò che faceva per me. Un giorno mi sono chiesto: “Che cosa diavolo ci faccio qui?! Questo non sono io, non è quello che voglio”. Così mi sono licenziato, volevo entrare nel fight business. Qual è la cosa peggiore che può capitarti se provi a realizzare i tuoi sogni? Sarei potuto tornare in quell’hotel il giorno successivo e avrei riavuto un lavoro, oppure potevo cercarne un altro altrove».

White prosegue: «C’era un ragazzo a Boston che si chiamava Peter Welch, ed è ancora una leggenda dei combattimenti di strada in città, tutti lo conoscono. Un giorno andai da lui e gli dissi: “So che mi prenderai per pazzo, non mi conosci neanche, ma voglio lavorare con te. Non devi pagarmi, voglio imparare tutto quello che puoi insegnarmi sul fight game”. Ho lavorato con lui per tre anni, occupandomi dei suoi allenamenti di pugilato, accompagnandolo all’angolo agli incontri, ho anche fatto l’arbitro per un periodo. Poi ho iniziato a gestire altri ragazzi, li aiutavo nelle loro carriere e non chiedevo mai niente in cambio. Così ho imparato molto». Welch ha spiegato così il motivo per cui ha scelto di aiutare White: «L’ho messo alla prova, e dal primo pugno che ha preso sul mento ha dimostrato di avere la stoffa giusta per il fighting». Inoltre Welch ricorda dei sacrifici fatti dal ragazzo di Manchester in quel periodo: White non poteva permettersi un’auto e si muoveva con una mountain bike, con cui percorreva grandi distanze anche sotto la neve.

Quando ha 21 anni White viene picchiato selvaggiamente da un gruppo di ragazzi fuori da un bar. «Mi hanno pestato per venti minuti buoni, prima che arrivasse la polizia», ricorda. «Mi colpivano ovunque con calci e pugni, uno di loro mi avrà tirato un migliaio di cazzotti su un orecchio. Erano di Charlestown, periferia di Boston, per cui mi è andata bene, perché di solito quella gente usa il coltello». White riporta danni permanenti all’udito e al sistema nervoso, che causano la sindrome di Meniere (si scatena con l’aumento della pressione dei fluidi che scorrono all’interno dell’orecchio), responsabile di improvvisi attacchi di vertigini, sordità e nausea. Anni dopo White verrà curato con le cellule staminali, ma ancora oggi ne soffre: proprio per questo motivo nel 2012 è stato costretto a seguire da casa un evento della sua promotion per la prima volta in 11 anni.

Ma non è certo un’aggressione a fermare la forza di volontà del futuro imprenditore multimilionario. Insieme a Welch, White prima si dedica a recuperare i ragazzi difficili dalla strada in una sua piccola e sgangherata palestra, poi crea un programma di workout unendo la boxe all’aerobica: i suoi clienti medi sono uomini d’affari e casalinghe, e la formula ottiene un grandissimo successo. Ma nella Boston dei primi anni Novanta imperversa il boss mafioso James “Whitey” Bulger (di cui Jhonny Depp veste i panni nel film Black Mass –L’ultimo gangster del 2015), che viene a conoscenza del successo imprenditoriale di White. Un giorno due uomini di Bulger (tra cui il suo braccio destro, Kevin “Two Weeks” Weeks) gli fanno visita intimandogli di consegnare loro 2.500 dollari entro il fine settimana (insomma, gli chiedono il pizzo), una cifra proibitiva per lui. White ha raccontato a Fox Sports: «Dicevano che gli dovevo dei soldi. Sono andati avanti per un po', finché un giorno ero a casa mia e ho ricevuto una chiamata: “Devi darceli domani entro l'una, altrimenti ti ammazziamo". Ho letteralmente riattaccato il telefono, comprato un biglietto per Las Vegas e sono partito». Anni dopo Welch, come scrive Gianluca Losito, verrà consultato dal regista Martin Scorsese in cerca di informazioni su Boston per ambientarci il film The Departed – Il bene e il male, poi vincitore di quattro Premi Oscar, in cui Jack Nicholson interpreta un personaggio basato proprio su Bulger.

Dana resterà per sempre legato a Boston (è tifoso dei Red Sox di baseball) e quando nel 2010 organizzerà il primo evento UFC in città, dichiarerà: «Boston ha un grande pregio, è un posto dove si respira un’aria del tipo: “Siamo i migliori e prenderemo tutti a calci in culo”. Ha un’atmosfera combattiva, l’adoro. Tutti mi dicono sempre: “Scommetto che non vedi l’ora di portare UFC al Madison Square Garden” (poi avvenuto nel 2016, nda). “No”, rispondo io, “in realtà voglio il Boston Garden”». Il giornalista Jeff Wagenheim scrive su ESPN: «Considerate questo: se la mafia irlandese non avesse chiesto il pizzo a White, lui probabilmente sarebbe rimasto a Boston, tagliato fuori dal mondo delle MMA. Quindi si potrebbe dire che UFC debba il suo successo a dei gentiluomini di Boston Sud». D’altronde, secondo il filosofo Arthur Schopenhauer: “Il destino mescola le carte e noi giochiamo”. E nel 1995 White è pronto a pescare la mano vincente.

White in giro per la periferia di Boston, così importante nel suo percorso, in uno scatto del 2018 (Foto di Stephan Savoia/ AP Photo)

Vecchie conoscenze, nuovi business

A 25 anni Dana si trasferisce quindi nella città del Nevada, ed è lì che, a un matrimonio, rincontra il vecchio compagno di classe Lorenzo Fertitta, diventato imprenditore di successo nel ramo dei casinò insieme al fratello maggiore Frank dopo aver ereditato l’impero del padre (con tanto di società quotata in borsa e un brand dal nome Station Casinos). Lorenzo aveva condiviso con Fertitta senior la passione per la boxe ed era membro della Commissione Atletica del Nevada, ruolo che gli permetterà di assistere dal vivo a UFC 11 nel 1999, esperienza che lo colpirà profondamente, accendendo in lui il fuoco della passione.

Pochi mesi dopo quel matrimonio i fratelli Fertitta e White, uniti dalla passione per gli sport da combattimento, cominciano a frequentare la palestra dell’ex fighter John Lewis per imparare il Brazilian Jiu-Jitsu, di cui si innamorano. Ma soprattutto è lì che White conosce gli atleti Chuck Liddell e Tito Ortiz (futuri campioni UFC), di cui diventa manager. In passato si era anche presentato nella palestra di un giovane Floyd Mayweather proponendosi come aspirante manager e coach, per poi lanciare un marchio d’abbigliamento da boxe chiamato Bullenbeiser, che Mayweather indosserà in occasione del suo primo match da professionista. Dana rincontrerà Mayweather per motivi d’affari nel 2017, in occasione del match di boxe contro Conor McGregor, e il pugile americano lo definirà in tono sprezzante un suo vecchio “portaborse” proprio per i loro trascorsi, per poi scusarsi. Soprattutto assistendo Liddell, White scopre che l’Ultimate Fighting Championship, promotion nata da pochi anni, nel 1993, che è ancora nella sua primissima fase in cui mette in scena incontri interstile (cioè contrapponendo il pugile contro il wrestler, il lottatore di sumo contro il kickboxer, eccetera) con poche regole, naviga in pessime acque: «Un giorno Bob Meyrowitz, uno dei creatori di UFC (e presidente del SEG, il Semaphore Entertainment Group ai tempi proprietario della promotion, nda), al telefono scoppiò e disse che non c’erano più soldi, che tutto era finito, non c’era denaro per organizzare nemmeno un ultimo show. Stavano perdendo milioni di dollari. Ho pensato che poteva essere interessante, e ho chiamato Lorenzo Fertitta e suo fratello Frank per sapere se volevano diventare miei partner e acquistare l’organizzazione. Gli dissi che avremmo dovuto comprarla. I soldi li hanno messi loro». In quel momento la promotion era in crisi soprattutto a causa dell’ampio fronte politico contrario a quella nuova tipologia di combattimenti proposti, giudicati brutali e dalla violenza gratuita, per cui UFC era stata messa al bando in 36 Stati americani, uscendo dai circuiti televisivi più redditizi (il primo evento aveva venduto 86.000 pay-per-view).

Bob Meyrowitz racconta, come descrive Clyde Gentry III nel suo No Holds Barred – The Complete History Of Mixed Martial Arts In America: «Non ho mai messo UFC in vendita. Piuttosto ricordo di essere stato avvicinato da Dana White, che mi chiese se ero interessato a vendere». Secondo Lorenzo Fertitta, a questo punto (siamo nel novembre del 2000) iniziano le trattative, e l’intermediario tra i Fertitta e Meyrowitz è proprio White. Meyrowitz, in accordo con il fratello, inizialmente dice di cercare un investitore, ma Fertitta è categorico: o si tratta per il 100% della promotion o l’affare salta. Il 9 gennaio 2001 i Fertitta, sotto il nome della società Zuffa Entertainment (la prima parola, italiana, non è casuale), comprano la promotion per due milioni di dollari. White viene nominato Presidente e comproprietario della promotion per il 9%. Interpellato anni dopo sul perché secondo lui i Fertitta lo avessero scelto per quel ruolo, White risponde: «Ci conoscevamo da anni, sapevano che ero uno che ha sempre lavorato duro e che viveva nel fight business da quando era un ragazzino. Avevo molte idee in cui credevano anche loro. Avevo intuito il grande potenziale delle Mixed Martial Arts: era questione di confezionare uno show televisivo e assicurare un’esperienza dal vivo memorabile. Ma ancora prima, dovevamo creare un regolamento e costruire uno sport, le MMA».

Da questo punto in poi la storia di Dana si intreccia inevitabilmente con quella della sua creatura. All’inizio la strada per UFC è in salita: «Nel tempo abbiamo dovuto modificare più volte il regolamento, farlo recepire ai vari Stati, che avevano leggi differenti, spiegarlo al pubblico» racconta White. «Io stesso all’inizio concedevo molte interviste, incontravo tutti i reporter interessati, i media locali, divulgavo questo sport e il modo in cui lavoravamo, partendo dal basso. Ero sempre in viaggio. Mi rendevo conto che nel nostro caso era cruciale educare il pubblico: presentare gli atleti in modo che si capisse che persone fossero, e convincere gli spettatori a venire agli eventi dal vivo. Sapevo che se avessi convinto le persone a venire agli eventi, li avrei avuti in pugno. È una caratteristica di questo sport». Nonostante con il nuovo regolamento la promotion fosse riuscita a tornare sulla TV via cavo (nei suoi speech White dice spesso: «Il porno era in PPV, ma noi no»), dopo quasi tre anni UFC è in perdita di 44 milioni di dollari. White ricorda: «Un giorno Lorenzo Fertitta mi chiamò e mi disse: “Non può continuare così, non possiamo bruciare tutti questi soldi. Voglio uscirne, voglio vendere”. Feci delle chiamate e gli dissi che se avessimo venduto ci avrebbero dato sei o sette milioni di dollari. Ma ne stavamo perdendo quaranta. Ci abbiamo investito così tanto tempo ed energie, e non funziona”. Il giorno dopo Lorenzo mi disse: “Fanculo, andiamo avanti”».

Dana White con Lorenzo (a sinistra) e Frank Fertitta nel 2010 (Foto di JamieMcCarthy/WireImage)

L’ultimo fighter in TV, la prima promotion al mondo

La svolta che salva UFC arriva quando la proprietà intuisce l’importanza di realizzare un proprio show televisivo in un ultimo, disperato tentativo di allargare la sua fanbase. Con la messa in onda del reality The Ultimate Fighter nel 2005, interamente prodotto dai Fertitta (che ci investono 10 milioni) e trasmesso sulla neonata Spike TV, che si definisce il “canale da uomini” per definizione, l’organizzazione cambia il suo futuro. Il programma spopola (la prima puntata totalizza 1.3 milioni di telespettatori), permettendo alla promotion di intercettare un pubblico più ampio, conquistando nuovi fan. Da quel momento in poi la popolarità di UFC cresce esponenzialmente, in parallelo al suo giro di affari. La promotion attraversa diverse fasi: nel 2006 comincia ad acquisire i suoi competitor («Il più grande errore che commette chi cerca di competere con noi, è che cerca di competere con noi. Non provate ad essere UFC, siate originali» dice White, che nel tempo comprerà e assorbirà le promotion WEC, WFA, Pride e Strikeforce), nel 2008 accoglie la superstar del wrestling Brock Lesnar mentre emergono Georges St-Pierre, Anderson Silva e altri fighter che conquistano il cuore dei fan. Nel 2011 UFC sbarca su Fox con un accordo settennale, registrando quasi sei milioni di telespettatori con la prima card mandata in onda (UFC on Fox: Velasquez vs. Dos Santos), e un anno più tardi White annuncia l’ingresso in UFC delle MMA femminili con la firma di Ronda Rousey, che esploderà come star contribuendo al successo dell’organizzazione. Due mesi dopo l’esordio di Rousey nella promotion, calpesta per la prima volta l’ottagono più famoso del globo anche un giovane e semisconosciuto irlandese, Conor McGregor, che farà la fortuna dell’organizzazione negli anni a venire, diventando il volto delle MMA mondiali.

Ma la storia della promotion non è fatta solo di successi. Nel 2014 alcuni ex atleti UFC hanno intentato una causa antitrust all’organizzazione sostenendo che la promotion limiti l’autonomia lavorativa dei fighter e quindi le loro potenzialità di guadagno. L’organizzazione ha dovuto perciò rendere pubblici alcuni documenti fino a quel momento riservati grazie a cui sono emersi diversi aspetti inediti del business di UFC (di cui abbiamo parlato in un altro articolo). La questione è ancora in divenire, tanto da aver probabilmente interferito (insieme ad altri fattori) con la quotazione in borsa di Endeavor, prevista nel 2019 ma rimandata (e avvenuta con successo) nel 2021.

Per chi si stesse chiedendo cosa sia Endeavor, bisogna tornare al 2015, anno in cui il fatturato lordo di UFC si attesta a 600 milioni di dollari. Nel 2016 la promotion viene ceduta al colosso WME-IMG, conosciuto anche come Endeavor, una holding che rappresenta artisti su tutte le piattaforme multimediali (dal cinema alla musica, passando per la televisione e la pubblicità), per 4 miliardi di dollari, segnando a quel tempo la più costosa acquisizione di sempre nella storia del settore sportivo americano. White viene confermato come Presidente, e intasca 360 milioni di dollari. Un passaggio epocale che però all’inizio lo manda in crisi, anche perché segna la fine dell’era dei Fertitta, i suoi amici di sempre: «La finalizzazione dell’accordo mi ha un po’ spaventato. Mi sono rinchiuso in una stanza d’albergo per un paio di giorni, non riuscivo né a mangiare, né a dormire, ero preoccupato». Nel 2019 firma un prolungamento di 7 anni del suo accordo con UFC, mentre nel 2018 aveva venduto a ESPN i diritti TV della promotion.

«Covid-19, vieni a prendermi!»

Dietro a tutti questi sviluppi, ai successi e alle battute d’arresto di UFC, c’è sempre stato lui, Dana White, che è rimasto saldamente al timone dello show, a volte navigando con il vento in poppa, in altre occasioni attraversando mari in burrasca, ma riuscendo sempre a mantenere la rotta prestabilita. La determinazione e la spregiudicatezza di White, quelle qualità che lo hanno sia reso un imprenditore di successo sia un bersaglio per le critiche dei suoi detrattori, sono emerse con particolare nitidezza durante l’esplosione della pandemia da Covid-19. Come ricostruito da Ted M. Butryn e Matthew A. Masucci della San Josè University nel loro saggio The Show Must Go On: The Strategy and Spectacle of Dana White’s Efforts to Promote UFC 249 During the Coronavirus Pandemic, il Presidente di UFC ha lottato con le unghie e con i denti per continuare ad organizzare eventi quando il resto del mondo si era fermato, probabilmente intravedendo l’enorme opportunità di business, di brand awareness e di visibilità nel colmare un vuoto lasciato dagli appuntamenti sportivi in un momento in cui le persone erano costrette a stare in casa, desiderose di distrarsi dalle terribili notizie in arrivo. Prima l’insistenza nel voler proseguire con la programmazione delle card nonostante le avvisaglie di ciò che stava accadendo: l’ultimo evento prima dello stop imposto dalla pandemia si svolge il 14 marzo 2020 in Brasile, a porte chiuse; «Non me ne frega un cazzo del coronavirus» tuona in quel momento White, per poi dire, a fine marzo: «Sarebbe come nascondersi dal cancro, non puoi sfuggire a questo tipo di cose. Il Covid-19 sarà come l’influenza, resterà con noi, bisogna affrontarlo. Avanti coronavirus, vieni a prendermi, sono pronto». Poi, a emergenza scoppiata, l’idea di trasferire la macchina organizzativa di UFC nella riserva indiana di Lemoore, in California, dove le leggi americane promulgate per contenere la diffusione del virus non hanno giurisdizione. Un progetto abbandonato solo per le pressioni politiche, di Endeavor e di Disney, proprietaria di ESPN, il canale televisivo che trasmette UFC. Qui White inizia ad essere avvelenato con la maggior parte della stampa (con cui ha sempre avuto un rapporto conflittuale, spesso accanendosi con le testate e i reporter che scrivevano male di UFC escludendole dai press day della promotion), fortemente critica verso le sue intenzioni. Accusa pubblicamente alcuni giornalisti di cospirare contro di lui e dice che le altre leghe sportive hanno sospeso l’attività cedendo alla campagna mediatica dei giornali favorevole alle chiusure: «Volete dirmi che il campionato di golf non può andare avanti senza pubblico? Andiamo, è ridicolo. Il mondo dello sport ha ceduto ai media» afferma.

Poi la scelta di dirottare il piano sulla Florida, che considera gli eventi sportivi come attività di prima necessità, e precisamente a Jacksonville, dove UFC riparte a porte chiuse il 9 maggio 2020 con UFC 249: Ferguson vs. Gaethje vendendo 700.000 PPV (per dire, l’NBA riprenderà a luglio, la Serie A a giugno). Ma le sorprese non sono finite: proprio a luglio White inaugura la cosiddetta “Fight Island”, che in realtà è Yas Island, un’isola di Abu Dhabi che ospita svariati eventi della promotion. Una suggestiva operazione di marketing che fa impazzire i fan, conquistati dall’idea di un arcipelago esotico in cui i loro beniamini si ritrovano per affrontarsi. White ha spesso rivendicato la sua ferrea volontà nel proseguire con lo show anche nei momenti più duri della pandemia, spiegando che in questo modo nessun dipendente di UFC è stato licenziato e i fighter hanno continuato a guadagnare dalla loro attività; le altre promotion di MMA non hanno potuto permettersi di organizzare così tanti eventi senza pubblico, preferendo sospendere la loro programmazione e talvolta facendo drastici tagli al personale. Qualcuno invece fa notare come il Presidente di UFC non si sia fatto scrupoli a mettere a rischio la salute dei propri dipendenti e quella degli atleti insistendo per realizzare gli appuntamenti firmati UFC anche quando il virus era nel picco della sua diffusione (nonostante i rigidi protocolli sanitari studiati dalla promotion per intercettare e isolare eventuali positivi tra staff e fighter).

Un ruolo molto importante in questo scenario lo ha avuto l’allora Presidente americano Donald Trump, amico e sostenitore (ricambiato con tanto di discorsi pubblici alle convention dei repubblicani e di endorsements elettorali) di White da anni, che ha aiutato parecchio anche UFC agli inizi: una relazione che abbiamo approfondito in un altro articolo. L’imprevedibilità della situazione pandemica quindi ha rivelato il temperamento e la personalità di Dana White, un personaggio complesso, a tratti contraddittorio, come dimostrano ad esempio le sue dichiarazioni sui danni cerebrali che possono derivare dalla pratica delle MMA. Nonostante UFC finanzi le ricerche in questo campo con donazioni annuali da un milione di dollari e partnership con alcuni istituti di ricerca, hanno fatto scalpore le parole di White a riguardo: «Questo è uno sport da contatto, […] i danni cerebrali dei fighter fanno parte del gioco».

Dana White durante un intervento in Colorado a supporto della campagna elettorale di Trump per essere rieletto Presidente nel 2020 (Foto AFP)

Tra ricatti sessuali e cascate artificiali

Della vita privata di White non si sa molto, se non che è grande fan dei Beastie Boys, dei Red Hot Chili Peppers e dei Rage Against the Machine. Chi lo ha conosciuto di persona dice ha l’animo del fighter, sia per la sua fisicità sempre più imponente che per la parlantina in cui spesso fanno la loro comparsa parolacce e volgarità. È un appassionato di spade Katana e del gioco d’azzardo («È l’unica cosa che mi rilassa» ha confidato) dove sembra che abbia una fortuna notevole, tanto da essere stato bandito da alcuni casinò per le sue vittorie multimilionarie a blackjack, ma è anche un filantropo e ha partecipato a diverse attività di beneficienza, organizzandone svariate altre. Nel 2012 sua madre ha pubblicato un nuovo libro, Through A mother's Eyes, The Dana White Story, in cui lo accusa di essere un figlio irriconoscente e un marito infedele. La quarta di copertina si chiude con queste parole: “June evidenzia agli occhi del lettore la trasformazione del carattere di Dana, chiedendosi fino a che punto il denaro e il potere possano diventare più importanti della famiglia e degli amici”. Nel 2014 una stripper avrebbe registrato un rapporto sessuale tra lei e White avvenuto in Brasile. La ragazza sostiene di essere stata pagata 10mila dollari per ballare e fare sesso con il Presidente di UFC. Il suo compagno ricatta White, chiedendo 200mila dollari per far sparire il filmato, e Dana lo denuncia. Il giovane si dichiara colpevole in tribunale e viene condannato, salvo poi sostenere di averlo fatto spinto dallo stesso White, che gli aveva promesso denaro in cambio. La causa per quest’ultima vicenda è stata archiviata nell’ottobre del 2020.

Per accontentare i suoi figli, White ha fatto costruire un’enorme piscina con cascate artificiali e scivoli d’acqua nella sua lussuosa abitazione di Las Vegas, senza però chiedere i permessi necessari per poterla realizzare. Lui non ha fatto un passo indietro, anzi, pare abbia pagato una multa di 2.500 dollari al mese per cinque anni pur di far sì che i suoi figli si godessero la struttura, commentando: «Avrebbero dovuto usare un missile per farla sparire». Ma non è finita: White ha poi speso 7 milioni di dollari per comprare le ville dei vicini, con l’intenzione di demolirle per godersi una nuova quiete. Nel 2013 ha fatto importare una grossa quantità di neve da spargere sul vialetto di casa sua così che i figli potessero godersi il giorno di Natale.

Secondo diverse stime, oggi il patrimonio netto di White si attesterebbe intorno ai 500 milioni di dollari. «Abbiamo costruito UFC da zero, generando cifre enormi di entrate, di tasse pagate, abbiamo dato un’occupazione a chi lavora con noi, creato flussi economici nelle città in cui organizziamo eventi. Abbiamo messo in piedi un impero. Nessuno può realizzare nulla senza provarci. E non è mai il momento giusto per buttarsi in qualcosa in cui si crede, fatelo e basta. Sono la prova vivente che può funzionare» ha dichiarato White.

Nei suoi discorsi ama ripetere: «Potrei tirare fuori numeri e statistiche generate da UFC, ma preferisco dirvi una cosa in cui credo profondamente, ed è la convinzione su cui ho costruito l’azienda. Prima di uomo che tira la palla a canestro, prima di un altro che la colpisce con una mazza da baseball, ci sono stati due uomini che hanno fatto a pugni, e le persone intorno a loro sono accorse per vedere chi avrebbe avuto la meglio. Il fighting è stato il primo sport di sempre. Il combattimento è nato insieme all’uomo, è nel nostro DNA, sarà sempre qui con noi, morirà con noi».

Ma la dichiarazione che rende di più la sua mentalità vincente probabilmente è la seguente: «Ci sono tante persone al mondo che non sanno cosa sia UFC, perciò abbiamo ancora parecchio lavoro da fare». Dana White è tutto questo.

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