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Dani Parejo, l'anima del Valencia
18 feb 2020
Come il centrocampista è diventato il leader tecnico ed emotivo della sua squadra.
(articolo)
15 min
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Rodrigo Díaz, meglio conosciuto come El Cid, fu un cavaliere castigliano del XI secolo, diventato una figura leggendaria per le sue campagne militari (tanto da essere chiamato anche Cid el Campeador). La più famosa è quella con cui ha strappato alla dinastia berbera degli Almoravidi, che regnava nel sud della Spagna, la città di Valencia, restituendola per qualche anno al mondo cristiano e diventandone il Signore fino alla morte. Una morte a sua volta parte fondamentale del mito: secondo la leggenda i suoi compagni d’armi ne occultarono la notizia e misero il corpo armato a dorso del fedele cavallo Babieca e con in pugno la sua spada Tizona così da guidare comunque l’esercito a mettere in fuga il nemico durante un assedio di Valencia. El Cid è diventato uno dei simboli dell’epopea della Reconquista spagnola, il comandante che con il suo carisma leggendario è in grado di vincere una battaglia anche da morto.

L’anima del Valencia

Se la città di Valencia non ha mai più avuto un altro Cid (e la speranza è che non debba mai più averne bisogno), la squadra del Valencia ha invece trovato un altro castigliano in grado con il suo carisma di guidarla anche nei momenti più difficili. Dani Parejo è il capitano della squadra, l’anima del Valencia da quasi un decennio. Con lui la squadra spagnola è tornata a vincere un trofeo dopo oltre 10 anni, battendo il Barcellona nella finale di Coppa del Re, una partita che ha cementificato la sua leggenda. Parejo ha infatti dovuto lasciare il campo zoppicando al 65’, tra gli applausi dei suoi tifosi, dopo aver guidato la squadra praticamente da fermo per cinque minuti buoni. L’immagine di lui che allarga il campo con i suoi lanci, detta il ritmo con i suoi passaggi corti, muove i suoi compagni con le sue urla, in una partita che rappresenta tutto per una squadra nell’anno del suo centenario e che sembrava ormai maledetta, per l’incapacità di vincere in contrasto con un passato recente tanto illustre (tra Liga vinta due volte e anche due finali di Champions League consecutive raggiunte), è diventata un’icona per i tifosi del Valencia.

Foto di Quality Sport Images/Getty Images.

In questa stagione il Valencia è riuscito ad accedere agli ottavi di Champions League eliminando l’Ajax, grazie a una vittoria ad Amsterdam nell’ultima giornata del girone. Un successo arrivato dopo un’altra prestazione di pura sofferenza, per una squadra che sembra dare il meglio di se stessa proprio quando assediata. Quando la testa conta tanto quanto le gambe, un giocatore come Parejo riesce sempre ad alzare il livello del suo gioco, una qualità incredibile se si pensa che il giocatore spagnolo nasce come rifinitore eccentrico, dotato di grande tecnica.

A vederlo giocare oggi ci appare invece come un vigile urbano al centro di un enorme ingorgo, che con gesti autoritari prova a mettere ordine, accompagnando il flusso di gioco e intervenendo contro chi prova a fare di testa sua. Un giocatore che dice cose come: «Mi piace essere padrone della palla, però per come penso io il gioco, sento che devo essere in grado di giocare con la palla e senza» e che, per dire, con 1,9 contrasti a partita è il secondo che ne fa di più nel Valencia, dopo il terzino sinistro José Gayà. Ne fa addirittura più del mediano Francis Coquelin, che è in campo principalmente per quello. Parejo ammonisce chi pensa che un giocatore elegante e tecnico non possa anche essere bravo a recuperare palla: «I tifosi pensano che recupera la palla il più forte fisicamente e invece lo fa chi meglio legge la partita, quello che sa dove più o meno può finire la palla in determinate situazioni, o a chi può finire tra i piedi, dove si trovano i rivali e quello che possono fare. È più importante il livello di concentrazione che essere rapido o forte fisicamente». Ma non è sempre stato così. La storia di Parejo è quella di un giocatore che non è nato leader carismatico a tutto campo, ma che lo è diventato.

Gli inizi

Nato a Coslada, zona periferica a est di Madrid che confina col grande aeroporto di Barajas, Parejo gioca per la squadra del suo quartiere fino a quando non viene notato dagli osservatori del Real Madrid a 14 anni. Cresce ammirando Guti, anche lui cresciuto nelle giovanili dei Blancos: «mi piaceva tanto, per la qualità che aveva, era un giocatore straordinario». Non è un predestinato come a suo tempo lo fu il suo idolo, ma ha un talento evidente e nelle giovanili si mette in mostra, tanto che anche la leggenda Alfredo Di Stefano lo loda: «È il miglior talento della Fabrica (le giovanili del Madrid, nda), un giocatore incredibile, un fenomeno». Vince anche da protagonista l’Europeo Under-19 del 2007, con gol in finale. Si dice anche che lo stesso Di Stefano si informasse sulla presenza o meno di Dani Parejo nelle partite del Castilla (la seconda squadra del Real Madrid) e decidesse di conseguenza se andare o rimanere in casa. Non ci sono prove di questa cosa, ma sono quelle voci che danno l’idea di quanto fosse considerato come talento a Madrid.

Arrivato in prima squadra, trova nel suo ruolo Sneijder, Guti e Rafael van der Vaart. Visto il poco spazio che avrebbe avuto, decide di accettare l’offerta del QPR di Briatore e di volare a Londra per sei mesi, con l’idea probabilmente di tornare al Real con più esperienza alle spalle e magari imparare l’inglese. Al suo ritorno trova però un Real rivoluzionato con lo scopo di competere con il Barcellona di Guardiola: in un’estate arrivano Cristiano Ronaldo, Benzema, Kaká e Xabi Alonso, ma non solo. A Madrid decidono che per completare la rosa è più pronto il centrocampista Esteban Granero, di due anni più vecchio e che veniva da due anni da titolare nel Getafe in Liga. Nell’affare, la contropartita per il Getafe è proprio Parejo. Nel contratto c’è anche una clausola di riacquisto che il Real Madrid non eserciterà mai, lasciandolo andare due anni dopo al Valencia senza opporsi.

La trasformazione a Valencia

Nel Valencia Parejo trova due allenatori che lavorano sull’aspetto tattico del suo gioco, cambiandone il ruolo. Il primo è Unai Emery, ma è Valverde che lo arretra di qualche metro insegnandogli che «il posizionamento e l’attenzione sono tutto» per poter giocare a centrocampo invece che sulla trequarti. Nella sua nuova posizione, la visione di gioco deve essere sfruttata non soltanto con la palla tra i piedi, ma anche quando ce l’hanno gli avversari, per leggere lo sviluppo della manovra avversaria così da poter essere incisivo in fase difensiva, coordinando la seconda linea di pressione.

Per maturare come leader, e quindi dare piena rotondità al suo talento, a Parejo serve tanto tempo. Neanche la fascia di capitano ricevuta da Nuno nella stagione 2014/15 a 25 anni gli fornisce la piena consapevolezza del suo ruolo di guida in campo e all’interno dello spogliatoio: in quegli anni non riesce a esprimere la necessaria continuità di rendimento e fuori dal campo è spesso attirato dalle sirene della movida valeciana, con conseguente rapporto difficile con una tifoseria da sempre molto esigente.

Non che il Valencia avesse un contesto stabile in cui farlo maturare con tranquillità, anzi. Parejo ha attraversato uno dei decenni più difficili della storia centenaria della sua squadra, in cui tra crisi economica e instabilità societaria è stato impossibile trovare una continuità nei risultati. Come ha detto lui stesso la scorsa stagione al Guardian: «È stato difficile qui: tanti cambi di allenatore, molta instabilità, grandi notizie ogni tre giorni…». Ogni anno il Valencia può raggiungere uno dei posti validi per Champions League raccogliendo vittorie esaltanti, come scivolare nella mediocrità totale con cambi continui di allenatori.

Mentre tutto cambiava attorno a lui, Parejo si è trovato a essere il punto di riferimento in campo per società, allenatori e tifosi, e questo lo ha portato ad assumersi la piena responsabilità del suo ruolo. L’incontro con Marcelino, nell’estate del 2017, lo ha aiutato in tal senso: Parejo è rimasto favorevolmente colpito dalle richieste, in termini di allenamenti e regime alimentare, dell’allenatore forse più esigente della Liga, finendo per cambiare il suo modo di approcciarsi al lavoro. Come ha raccontato lui stesso più avanti, fin dal primo allenamento ha pensato che dei metodi di Marcelino ci si poteva fidare, sposandoli in pieno tanto da perdere in pochi mesi più di 5 chili, per venire incontro alla richiesta del suo allenatore di essere più agile nei movimenti e più resistente durante i 90 minuti. Da allora ha saltato 3 partite in totale per infortunio (muscolare) delle 130 in cui era a disposizione, giocando solo per 16 volte meno di 90 minuti.

https://twitter.com/OptaJose/status/1132677816988905475

Rapidamente è diventato il megafono in campo delle idee di Marcelino e poi la figura più influente nello spogliatoio. Ora è il volto più riconoscibile di una società che cambia allenatori e dirigenti più di una volta a stagione (anche Marcelino è stato esonerato all’inizio di questa stagione) e il cui proprietario vive a Singapore e raramente si presenta allo stadio. «A Valencia ho passato brutti momenti, però ho sempre avuto fiducia in me stesso, nella mia forma di pensare e di giocare. Ho sempre avuto la personalità per dimostrare e sviluppare il calcio come lo sento. Penso che il lavoro alla fine porta alla ricompensa» ha detto di recente in un’intervista a Superdeporte.

Non è un caso se ormai è l’unico giocatore della Liga che può competere con Messi nei calci piazzati, un fondamentale che con gli anni ha perfezionato fino a trovare una sua versione sia quando si tratta di crossare che soprattutto di tirare in porta. Tutti e 6 i gol segnati nella Liga in questa stagione arrivano da calcio da fermo (con 4 rigori segnati finora è diventato il giocatore che ne ha segnati di più in Liga negli ultimi 10 anni, ben 25). Quando tira le punizioni in porta, colpisce il pallone con il collo interno, tenendo il piede rigido fino alla fine, così da dargli un effetto particolare che permette il cambio di direzione dopo aver superato la barriera, mantenendo però la potenza per non scendere a foglia morta. Lo stesso tipo di calcio che utilizza anche per i suoi cambi di gioco tesi e precisi.

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Parejo resiste al contrasto avversario e poi con una finta di corpo salta anche la pressione dell’attaccante. Appena il tempo di alzare la testa che vede il compagno, Rodrigo Moreno, largo e solo sulla fascia opposta. Non lascia neanche il tempo agli avversari di accorgersene che lo trova subito con un lancio teso.

In un calcio che punta sull’istinto per aumentare la velocità di esecuzione, Parejo insiste sempre sull’aspetto mentale del gioco, sull’importanza della concentrazione e del prendere la scelta giusta al momento giusto. Evidentemente è consapevole che così può fare la differenza, perché ha una capacità innata di ordinare la sua squadra con passaggi precisi, indicazioni rigorose e orientando il corpo a seconda di dove si trova il pallone come un girasole.

I suoi compagni sanno che ogni volta che sono in difficoltà possono rivolgersi a lui. Parejo è sempre pronto a ricevere, anche in mezzo agli avversari, avendo già bene in testa la giocata successiva. Da fuori sembra quasi poter giocare il pallone anche se fosse bendato: la posizione del corpo è sempre quella corretta, il successivo controllo orientato anche, il passaggio preciso. Il più delle volte la pressione avversaria gira a vuoto perché anticipare un’azione del genere è complicatissimo, anche sapendo cosa sta per accadere.

Se riceve con spazio, allora esce fuori la sua anima da rifinitore e, come richiesto dall’allenatore Albert Celades, prova direttamente ad arrivare dietro la linea di pressione con una verticalizzazione rasoterra, l’opzione che sembra preferire anche lui dal punto di vista tattico, come detto a El País: «I passaggi belli e complicati e con una dose di rischio sono quelli che rompono le linee. Superi anche cinque giocatori così. Sono complicati, però è il tipo di passaggio che determina l’azione. Poi serve comunque superare l’ultima linea, però il passaggio ha rotto un po’ la squadra avversaria».

Contro il Granada si posiziona per ricevere libero e dopo aver studiato la situazione fa partire un filtrante spezza-linee direttamente per i piede di Rodrigo sul suo taglio senza palla. Con il suo passaggio ha superato 5 avversari e trovato il compagno libero in corsa verso la porta.

Parejo è lento nella corsa, cosa su cui ha scherzato anche, lamentandosi pubblicamente dei suoi numeri su FIFA. Ovviamente non è l’aspetto atletico a renderlo un giocatore unico, ma il modo in cui tratta la palla con rispetto e riverenza, mai trascinandola, sempre sfiorandola soltanto con il destro. Senza scomporsi in finte di corpo o movimenti troppo elaborati, sposta la palla prima dell’intervento avversario con la suola o con l’interno, una giocata minimale che potrebbe eseguire reggendo allo stesso tempo un caffè in mano.

Un giocatore che starebbe benissimo anche nel calcio dagli anni ’80, magari con capelli ricci più lunghi, come a inizio carriera. Uno di quei rari casi in cui l’estetica di un calciatore non è facile da inquadrare nell’epoca in cui ha giocato, anche perché il suo gioco è più universale, sobrio nei movimenti ma ricco di sfumature tutte concentrate attorno alla tecnica di base. Diceva un saggio che giocare un calcio semplice è la cosa più difficile del mondo, ma a vedere Parejo è tutto semplice e ed essenziale. Ogni gesto, anche il più difficile è eseguito come sta scritto nei manuali.

Lui stesso parla spesso dell’importanza della tecnica per un giocatore dall’atletismo normale, in un calcio così veloce come quello attuale: «Il primo controllo deve essere il primo dribbling: controllare bene la palla significa togliersi un rivale di dosso o guadagnare spazio per poter giocare e far sì che i tuoi compagni possano sfruttarlo. Chiaro, il controllo è la grande discriminante tra giocare al massimo livello o giocare in categorie inferiori. Il massimo livello esige che il controllo della palla sia perfetto, però è anche vero che se non ci sono i movimenti giusti davanti, controllare bene non serve a niente, perché se nessuno si muove bene non sai a chi passare poi il pallone».

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Il calcio di Dani Parejo in un’azione contro il Betis, in cui è lui che legge la traiettoria del passaggio meglio dell’avversario e in scivolata recupera palla per la sua squadra passandola direttamente al compagno e subito dopo si mette in visione per ricevere. Il controllo orientato verso destra accompagnando il pallone col piede gli permette di girarsi al momento della ricezione e reagire all’intervento avversario superandolo con un tunnel dato da un tocco leggero di punta. Il gesto gli apre il campo e può quindi provare un filtrante direttamente per la punta.

Il primo controllo è fondamentale per il suo gioco perché Parejo è uno dei migliori interpreti in Europa del gesto tecnico della pausa, che utilizza sia per mandare fuori tempo l’avversario diretto, se troppo irruento, che per governare una squadra di giocatori che amano attaccare in verticale e che lui gestisce attivandoli a piacimento scegliendo però il momento giusto per dar loro il pallone. Come un direttore d’orchestra, sa bene che la pausa è importante tanto quanto la nota. E del direttore ha effettivamente il portamento, nel modo in cui è sempre attivo nell’indicare al compagno in possesso dove passare il pallone e se farlo subito o attendere. Il Valencia è una squadra che sa essere velocissima nell’attaccare, grazie a velocisti come Ferran Torres e Rodrigo Moreno, ma si muove al ritmo dettato dal giocatore più lento in campo.

Per il Valencia Parejo rappresenta non soltanto il primo passaggio in uscita del pallone dalla difesa o dopo il recupero, ma anche la figura di riferimento una volta che la squadra è avanzata nella metà campo rivale, questo perché ha il duplice compito di gestire la direzione con cui il pallone viene mosso (è lui a scegliere quale esterno o quale punta attivare) e di proteggere il pallone dalla pressione avversaria, permettendo ai compagni di muoversi sul campo ed essere serviti. Parejo è riuscito col tempo ad adattarsi a due tipi di calcio differenti: quello reattivo del Valencia e quello proattivo della Spagna, trovando il modo di essere protagonista in entrambi.

Non si fa problemi a dire che la strategia della squadra deve dipendere dai giocatori a disposizione e che nonostante lui sia un giocatore che preferirebbe toccare sempre palla, gli sta bene anche giocare per una squadra che vuole arrivare in porta con il minimo di passaggi possibili: «Per le squadre che non hanno quei giocatori che controllano la partita, con la capacità di avere l’iniziativa sempre e comunque, è più facile arrivare nell’area avversaria con quattro passaggi piuttosto che con 20». Un concetto ripetuto in forma simile qualche tempo dopo, solo che diminuendo ancora il numero di passaggi: «Penso sia chiaro che nel calcio bisogna essere intelligenti e se puoi arrivare in area con due passaggi è meglio che con quindici».

In questo momento è l’unica figura pienamente rispettata da tutta Valencia, che ne riconosce la metamorfosi anche fuori dal campo. È il primo a metterci la faccia quando la squadra perde e quello più applaudito quando la squadra vince. «La maturità significa saper leggere la partita, quello che chiede ogni situazione di gioco, sapersi godere ogni momento e dare importanza a ogni dettaglio della partita. La maturità mi permette anche di adattarmi a due stili di gioco distinti come quello del Valencia e della Spagna, mi sento a mio agio in entrambi i sistemi» dice. Fuori dal campo è diventato padre e racconta di come alle uscite serali ora preferisce rimanere a casa a vedere le partite: «Mi piace analizzare il calcio, vedo molte partite durante la settimana» o anche «finisco per discutere con mia moglie perché lei vuole uscire, fare una passeggiata e io preferisco stare a casa davanti alla televisione, a vedere le partite».

Nella sua lunga esperienza a Valencia è diventato un giocatore completo, passando dal sembrare un trequartista dal talento egocentrico a cui il calcio interessava il giusto, a uno ossessionato dallo studio della tecnica e della tattica, con un futuro da allenatore già pronto. Un calciatore che riesce a mettere non soltanto la tecnica al servizio della squadra, ma anche a essere una fonte d’ispirazione per i suoi compagni e a rassicurare i tifosi con il suo atteggiamento in campo e fuori. Oggi Parejo non è solo un fantastico giocatore di pallone, ma è anche l’anima di una squadra che respira e vive attraverso di lui.

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