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13 lug 2018
Come sono andati i match di Adesanya, Di Chirico, Ngannou e, ovviamente, quello tra Cormier e Miocic.
(articolo)
18 min
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Daniel Cormier è entrato di diritto nella storia delle MMA

di Gianluca Faelutti

L’incontro fra Stipe Miocic e Daniel Cormier non solo significava molto per entrambi i lottatori, ma può essere considerato uno dei match più attesi e importanti della storia delle MMA. Miocic e Cormier sono dei dominatori assoluti delle proprie rispettive categorie - il primo dei pesi Massimi, il secondo dei Massimi Leggeri - e sapevamo già che l’incontro avrebbe decretato un momento storico per l’uno o per l’altro e per la UFC in generale.

Se Miocic avesse vinto, avrebbe fatto letteralmente il vuoto attorno a sé: con tre difese titolate era già diventato il peso massimo ad averne conquistate il maggior numero nella storia UFC, il più dominante, con quattro forse avrebbe creato un divario incolmabile per tutti, almeno nell’immediato futuro. Da una parte c’è la penuria di contendenti credibili all’orizzonte (e il match fra Lewis e N’Gannou, quella stessa sera, è stato il manifesto di questa penuria: con così pochi colpi che per alcuni è stato un incontro dei peggiori in assoluto della storia di UFC); dall’altra bisogna tenere conto degli endemici problemi fisici del più credibile dei contendenti, Cain Velasquez, che creerebbe i presupposti affinché Miocic abbia un lungo e incontrastato dominio.

Anche per Cormier - che nel suo passato da peso Massimo era rimasto imbattuto, e che recentemente ha fatto sempre più fatica a entrare nel taglio dei Massimi Leggeri - l’incontro aveva dei significati storici: vincendo si sarebbe laureato campione in due categorie contemporaneamente, il primo a riuscirci dopo Conor McGregor.

Foto di Sam Wasser / Getty Images.

Il miglior pregio di Stipe Miocic, quello rende uno di quei combattenti di cui i paesi anglossassoni si dice che abbiano un Fight I.Q. eccezionale, sta nello sfruttare le lacune, anche le più marginali, dei propri avversari. Cormier, però, è stato bravo a ribaltare questa logica a suo favore.

DC e il suo team avevano notato un elemento di vulnerabilità nello stile di Miocic, che poi si è rivelato decisivo: la tendenza da parte di Stipe ad uscire dal clinch con le mani un po’ troppo basse. Cormier è a riuscito a trasformare una microscopica defezione, una leggera pigrizia, un movimento meccanizzato senza la necessaria precisione, in una vera e propria voragine.

Cormier ha insistito sin dai primi scambi nella ricerca del clinch, ma Miocic almeno inizialmente sembrava aver buon gioco in virtù del suo maggiore allungo. Stipe è partito aggressivo, ha controllato bene a parete ed è riuscito ad essere efficace anche con le ginocchiate al corpo.

Uno dei momenti più emblematici del match, e della straordinaria mentalità di Cormier, arriva al primo acuto di Miocic, quando il campione dei massimi colpisce con una gomitata mancina e poi con il destro su due combinazioni successive (qui sopra). La reazione con la combinazione sinistro-destro di Cormier è però immediata e veemente. C’è tanto del suo valore in questa reazione, non solo a livello tecnico ma anche carismatico.

Nelle MMA, di solito, mentre cresce la fiducia di un lottatore, scende quella dell’altro. Cormier invece sembra esente da questa legge universale: non sembra esserci niente che possa scalfire la sua fiducia. La sua mentalità è ciò che più di ogni altra cose costituisce la sua grandezza, almeno al pari della sua intelligenza.

Pochi istanti dopo è lui a dominare con il pugilato, prima del colpo decisivo, proprio da quel collar tie che aveva cercato con insistenza dall’inizio. Un colpo quindi studiato, pensato, programmato con astuzia e applicato con grande lucidità e scaltrezza. La perfetta espressione del connubio fra intelligenza e istinto, freddezza e abnegazione.

La differenza di stazza alla fine non ha pesato sugli esiti dell’incontro.

Nonostante i 13 centimetri di differenza di altezza, Cormier è riuscito nell’impresa che soltanto quattro combattenti prima di lui avevano raggiunto, ossia quella di conquistare due cinture in due differenti categorie di peso. L’impresa di Cormier va però oltre il numero delle cinture. Rappresenta, cioè, l’impresa di un fighter che grazie alla sua intelligenza e alla sua determinazione, è riuscito ad ottenere ben più di quanto gli offrisse il suo pur grande talento e le doti atletiche.

Dopo aver dominato la categoria dei Massimi Leggeri e l’aver sconfitto il miglior peso Massimo in circolazione, sarà d’ora in poi impossibile omettere il suo nome quando si parlerà dei migliori combattenti di sempre. Adesso è meno pesante l’ombra di Jon Jones, oltre che per ragioni etiche, anche sportive: nella storia c’è spazio per più fighter e a modo suo Cormier ha trovato il modo di entrarci.

Se la vittoria, quindi, consacra Daniel Cormier come il più grande fighter in attività, soprattutto considerato il valore dei contendenti sconfitti, a quasi quarant'anni e con due cinture alla vita, Cormier potrebbe finalmente ritenersi appagato. E invece sembra non volersi fermare...

Subito dopo la vittoria l’UFC si è trasformata nella WWE e Brock Lesnar ha annunciato a suo modo il prossimo incontro di Cormier. Che come attore non è il massimo (mentre è molto bravo come commentatore).

La seconda vittoria consecutiva di Alessio Di Chirico

di Giovanni Bongiorno

Alessio Di Chirico si giocava una buona parte della propria consacrazione in UFC nell’incontro con Julian Marquez. Aveva davanti un match stilisticamente ruvido, spigoloso, che ha finito comunque per mettere in mostra più le sue qualità mentali che quelle fisiche o tecniche.

Nella notte precedente Julian Marquez aveva fatto registrare 190 libbre sulla bilancia e il match non era più al limite della categoria dei pesi Medi, diventando un catchweight a 190 libbre nel quale Marquez, un technical brawler con forte predisposizione all’offensiva in perpetuo movimento verticale, ha un vantaggio di circa due chilogrammi e mezzo. Per un fighter che basa tutto sulla pressione e sulla potenza dei propri colpi, oltre che su buona qualità nel controllo in grappling, un vantaggio simile non va sottovalutato.

Di Chirico ha iniziato mobile sulle punte, ma anche paziente. Sapeva che quando Marquez avrebbe affondato sarebbe diventato pericoloso, e non voleva dargli il vantaggio di imporre il suo contesto ideale. Di Chirico affonda il primo colpo, un gancio mancino largo utile più a stabilire le gerarchie che a impensierire seriamente l’avversario, e il secondo gancio sinistro arriva qualche secondo dopo, stavolta più forte. Marquez lo inizia a pressare a parete ma Di Chirico risponde con un automatismo perfetto: gancio sinistro secco alla testa.

Di Chirico è un fighter dalla guardia ortodossa, ma ha iniziato l’incontro con un’impostazione diversa dal solito: southpaw a braccia più larghe, come a voler invitare Marquez ad entrare, per poi colpirlo col counterstriking. Di Chirico usa spesso il parry, cioè lascia muovere la mano di Marquez e la scaccia colpendola con la propria mano avanzata; destabilizza il timing di Marquez e lo costringe a ricominciare. Quando il ritmo sembra calare, Di Chirico piazza un middle kick alla zona del ventre del suo avversario. Il rumore è fragoroso, Marquez però non batte ciglio.

Di Chirico, poi, piazza ancora un gancio destro alla tempia di Marquez. La Crisi Missilistica Cubana (il complesso soprannome di Marquez) riceve il primo vero missile, le gambe traballano per un attimo.

A metà del primo round, però, Marquez infila la prima vera combinazione decente: headkick, parato da Alessio, poi gancio sinistro e gancio destro, ripetuti per due volte. Di Chirico ne è uscito lateralmente e non si è fatto schiacciare a parete. Marquez lo carica, Di Chirico elude e rientra. Il ritmo non è ancora altissimo.

Poi, quando tutto sembra filare tranquillo, Marquez improvvisamente accelera e piazza un gancio sinistro molto potente che scuote Di Chirico, che aveva preparato un altro colpo. L’inerzia a quel punto cambia leggermente, ma manca poco più di un minuto e mezzo alla fine del round ed è la prima sfuriata concreta da parte dell’americano. Alessio mette a segno un atterramento, i due si rialzano subito. L’ultimo colpo del round è un diretto da parte di Marquez.

Ciò che non è riuscito ad esprimere nel corso del primo round, Marquez lo tira fuori già in apertura del secondo. Una carica energica che costringe Di Chirico spalle a parete prima di colpirlo con uno spinning heel kick. Di Chirico è svelto, però, lo cintura e riprende il suo spazio. Nell’azione successiva manda ancora a vuoto Marquez, cintura all’altezza dell’addome e sposta il match sul piano del grappling, una scelta giusta vista la difficoltà incombente.

Marquez tenta la guillotine choke, ma la compostezza di Di Chirico gli consente di uscire quasi subito e di mettere a segno anche un gancio in uscita dal clinch. Dopo qualche scambio leggero, arriva un altro atterramento da parte di Di Chirico. Una mossa che testimonia l’intelligenza del fighter e la ricchezza del suo repertorio. È a quel punto che il match è cominciato ad andare dalla sua parte.

Quando i due tornano in piedi c’è un altro cambio di inerzia: Marquez va a segno con un montante destro secco, poi finta il gancio sinistro e affonda col destro. Di Chirico sembra aver assorbito bene il colpo, e fa presto a togliersi da una situazione difficile, quasi spalle a parete. L’incontro è dinamico e torna al suolo grazie a un altro takedown di Di Chirico (tre riusciti su quattro tentati). Marquez si rimette in piedi un attimo prima del suono della sirena.

A quel punto il mio personale cartellino dice due round a zero per Di Chirico: se Marquez ha messo dei colpi molto puliti, forse i più forti, ma ne ha messi meno e non ha cementato il dominio; Alessio ha messo a segno le combinazioni migliori ed è riuscito ad atterrare Marquez in tre occasioni, controllandolo temporaneamente.

La scelta della guardia mancina si è rivelata azzeccata per Di Chirico: quando Marquez lo attacca col gancio avanzato, il sinistro, trova sempre la mano destra avanzata di Di Chirico a proteggere il volto. Una mossa studiata a tavolino, come i calci alla zona dell’addome e del fegato che sono stati fondamentali per spezzare fiato e condizione di Marquez a metà del terzo round (10 su 12 i colpi al corpo andati a segno): un lavoro che ha fiaccato il coraggio e l’intraprendenza di Marquez.

Il terzo round, nonostante una partenza ottima da parte di Di Chirico, ha visto però protagonista Marquez: il senso d’urgenza gli impone di pressare ancor più di quanto fa di solito. Prima costringe Di Chirico a girare lontano dalle braccia ancora pericolose del suo avversario, poi lo centra con un headkick al collo, a due minuti dalla fine.

A quel punto Alessio opta per un altro takedown e lo ottiene. Ma è difficile tenere Marquez giù: si rialza spalle a parete, tiene la posizione della kimura, proietta e cerca la leva su Alessio, che gira dal lato giusto e torna in piedi. Due ginocchiate al corpo da parte di Marquez, abbastanza dure, danno l’impressione che Di Chirico non perderà questo match. Adesso è lui, in clinch, ad avanzare. Il finale è concitato: takedown da parte di Alessio, poi un gancio sinistro e un diretto da parte di Marquez. Di Chirico si allontana, ma si arresta e colpisce con una gomitata orizzontale. Marquez prova ad avanzare, ma Alessio gli fa trovare il gomito pronto ad ogni azione. Appena i due si separano, sul volto di Manzo si disegna uno strano e disteso sorriso.

Alla fine due giudici hanno premiato Alessio con un punteggio di 29-28, che poi è lo stesso che avrei dato io dopo aver riguardato il match, un 30-27 abbastanza discusso in favore di Marquez arriva dal terzo giudice.

Questa vittoria permette ad Alessio Di Chirico di stare più tranquillo, anche per come è arrivata. Dal match il fighter italiano ha avuto ottime risposte sulla propria gestione dei momenti dell’incontro, sulla capacità di resistere alle difficoltà, ma anche sulla propria completezza tecnica. Una split decision non dovrebbe permettergli di accedere ai piani alti del ranking ma Di Chirico ora viene da due vittorie consecutive in UFC: un risultato che non si vedeva fra gli italiani dal 2009 con Alessio Sakara, che si fermò a 3 vittorie consecutive nel 2010.

Un risultato che fa sperare in un futuro ancora più luminoso.

La consacrazione di Israel Adesanya

di Gianluca Faelutti

Israel Adesanya ha dominato il numero 8 dei mesi medi Brad Tavares, e si è quindi confermato come la vera sorpresa di questo 2018. Ha mandato a vuoto, grazie ai suoi splendidi movimenti di corpo e alla perfetta gestione delle distanze, il 78% dei colpi tentati dal suo avversario, mettendo in mostra un’elusività quasi unica nel roster della promotion.

La tranquillità e l'apparente facilità con la quale Adesanya gestisce i match, accompagnata dalla fluidità delle sue movenze da ballerino, esaltano le sue qualità tecniche. Adesanya è apparso sempre in pieno controllo dell’incontro, ha rischiato pochissimo sulle offensive avversarie, scoraggiandole sempre con il suo conterstiking. La qualità che si è manifestata in questo match con maggiore grandezza risiede nell’uso eccezionale che ha fatto del suo jab, veloce, incalzante e chirurgico, con il quale ha sistematicamente punito l’avversario.

La pulizia tecnica di Adesanya ha fatto sembrare lo stile coriaceo di Tavares troppo grezzo per certi livelli. Se le qualità da striker erano già note in rapporto al suo background di altissimo livello nella kickboxing, a sorprendere è stata la sua naturale predisposizione al grappling; Tavares ha fatto il possibile per imporre il proprio ground game, come prima di lui Wilkinson e poi Marvin Vettori. L’UFC gli ha contrapposto wrestler di caratura sempre maggiore, ma nessuno è riuscito a impensierirlo con il suo grappling. Nessuno dei primi due è riuscito a mettere un colpo dal ground game, e Tavares si è fermato a 8.

Il grappling difensivo è dunque forse l’aspetto più importante dello stile di Adesanya. Un aspetto che non va dato per scontato. Quando uno specialista dello striking approda alle MMA è naturale chiedersi come saprà reagire nelle fasi di lotta. Adesanya, sorretto anche da un’esplosività e da una forza fisica eccezionale, ha dato una risposta impressionante a riguardo, e la sua scalata ai vertici della categoria è stata vertiginosa. Dopo appena tre incontri è riuscito ad entrare nei primi dieci pesi medi UFC e questo match ha coinciso con la sua definitiva consacrazione.

L’esplosione di Costa

di Gianluca Faelutti

Il match di chiusura della card preliminare (come di consueto molto interessante) di UFC 226 ha visto opposti Paulo Costa e Uriah Hall. Costa è un altro prospetto di cui si parla molto nei Medi e quello con Hall è un accoppiamento esplosivo fra due striker con stili molto diversi fra loro.

Hall ha sempre manifestato sprazzi di grandissimo talento, sconfiggendo fighter della caratura di Gegard Mousasi o Krzysztof Jotko, ma al contempo sembrava frenato da una tenuta mentale non sempre all’altezza. Paulo Costa si è abbattuto sulla UFC come un tuono: tre vittorie per TKO prima di questo match e la manifestazione di una forza fisica e mentale spaventosa.

Costa è un fighter estremamente aggressivo, che colpisce l’avversario incurante delle conseguenze. È bravo ad alternare i colpi tra volto e figura, e ad esprimere sempre una certa violenza. Nel match contro Hall il suo approccio non ha fatto eccezioni.

Hall però stavolta è sembrato più concentrato del solito. È andato a segno in continuazione con il jab, punendo i continui tentativi di accorciare la distanza di Costa. Quest’ultimo però non si è lasciato intimidire e nella seconda parte del primo round è riuscito finalmente ad accorciare le distanze. A quel punto le sue sequenze pugilistiche si sono fatte sentire, fiaccando progressivamente le energie e la fiducia di Prime Time.

Hall era riuscito a tornare forte grazie a un gancio destro che aveva piegato le gambe dell’avversario. Ma la forza psicofisica di Costa è stata però entusiasmante, e con un altro gancio destro ha steso Hall.

È stata una prova notevole di Costa, avvalorata da un Hall che stavolta ha venduto cara la pelle. Dopo la straordinaria performance di Adesanya, è arrivata quindi la risposta dell’altra grande stella nascente dei pesi medi, una categoria che sta diventando sempre più interessante.

Cosa succede a Ngannou?

di Giovanni Bongiorno

Francis Ngannou si era reso protagonista di una delle scalate più spaventose della storia dei pesi massimi UFC, eppure sono bastati due match per vedere un suo crollo verticale. La sua fiamma non è mai sembrata così fioca, il co-main event di UFC 226 ha riservato agli osservatori uno dei match più strani e blandi che si siano mai visti in termini assoluti.

«Non sono orgoglioso della mia ultima performance. Ho portato con me le paure dell’ultimo match. Comprendo la frustrazione e la rabbia che ho causato ai miei fan, ai miei coach, ai miei compagni di team, alla mia famiglia ed ai miei amici e ne sono davvero dispiaciuto. Non vi deluderò tutti ancora. Ciò che devo fare adesso è mettermi di nuovo alla prova e rendervi orgogliosi ancora».

Fa impressione sentire queste parole da NGannou, un fighter spaventoso, che aveva demolito sei avversari di fila, finalizzandoli tutti, da Luis Henrique, a Curtis Blaydes, passando per Andrei Arlovski e concludendo con Alistair Overeem. Poi, una prestazione che definire opaca sarebbe riduttivo, contro l’ex campione Stipe Miocic. Nell’incontro che avrebbe dovuto consacrarne lo status, NGannou si è scoperto più umano del previsto.

Se però l’incontro con Miocic era in qualche modo legittimato dallo spessore dell’avversario, Ngannou è non solo più forte, ma anche più veloce, più intelligente in gabbia e anche più fresco di Lewis. Il suo crollo è stato quasi inspiegabile.

Nelle statistiche definitive per ufc.com, i colpi sono stati 31 in totale. Combinati fra i due sfidanti. 20 colpi per Lewis e 11 per Ngannou. Due dei più forti e feroci puncher di categoria, impauriti dalla potenza dell’avversario, tanto da farsi richiamare più volte da Herb Dean per riprendere l’azione. Un match che lascia pochissimo all’analisi tecnica, ma che riporta il tutto al concetto della abusata “immigrant mentality”, un concetto portato avanti dal comico Joey Diaz, spesso compagno di podcast del commentatore Joe Rogan.

Un concetto che esprime la pericolosità dei non americani quando raggiungono la vetta per via del loro passato difficile, dalla loro provenienza dai posti dove il minimo non è concesso a tutti. Ngannou era l’esempio perfetto per valorizzare la tesi della “immigrant mentality”. Ma il secondo match opaco ha evidenziato quanto il franco-camerunense abbia accusato la sconfitta contro Miocic soprattutto dal punto di vista mentale. Non un problema di cardio e condizione fisica, stavolta: Ngannou si è presentato con 10 libbre in meno rispetto al match titolato e aveva promesso che sarebbe stato più attendista. Ma da fighter attendista a guardia svizzera ce ne passa.

The Predator è diventato in un attimo The Prey. La maggiore compostezza, l’allungo, la sicurezza negli scambi che lo contraddistingue e la capacità di terminare il match con un solo colpo (condivisa col suo avversario), sono franate davanti ai primi high kick e al middle sforbiciati che insolitamente Lewis gli ha riservato. Distanze perfette, mai un colpo sprecato, guardingo, con un ritmo estremamente basso ma anche con colpi scelti, più precisi e netti. Per il resto, con un match del genere perdono un po’ tutti: fan, coach, compagni di team, osservatori.

La dichiarazione di Ngannou non è casuale, sa di essere stato irriconoscibile nell’ottagono, e promette una rinascita già nel prossimo match. In uno sport che brucia le tappe come le MMA, il prossimo match potrebbe non essere abbastanza vicino. Anche se poi, è fatto noto, proprio per la sua lentezza, una vittoria impressionante può cambiare la prospettiva di molti. Schiantarsi al suolo dopo il tentativo di volo fino al sole è rischioso, ma c’è chi sopravvive.

Gokhan Saki è tornato coi piedi per terra

di Govanni Bongiorno

Cosa succede quando un kickboxer prova a combattere nelle MMA?

Dipende dalla predisposizione che si ha a colmare le proprie lacune, e anche dal tempo storico in cui si tenta la transizione. Alistair Overeem, ad esempio, ha avuto una carriera lunga, ha raggiunto risultati altissimi e collezionato titoli. Ramon Dekkers ha capito subito che il suo primo match sarebbe stato anche l’ultimo.

Gokhan Saki, uno dei kickboxer più forti e rinomati in circolazione ai giorni nostri, magari pensava che tutto sarebbe stato più facile.

Dopo l’esordio fallimentare del luglio del 2004, Saki è tornato a settembre 2017 mettendo a segno un grande KO contro Henrique Da Silva nel suo esordio in UFC. Un match che mise in mostra le già nette difficoltà del trentaquattrenne turco in uno sport che non era il suo. E non ha nemmeno incontrato dei wrestler.

Al primo scalino, contro Khalil Rountree jr., Gokhan Saki è caduto. È caduto vittima di un diretto molto potente, mentre tentava di mettere a segno un leg kick che pareva voler far parte di una strategia mirata a mozzare il footwork di Rountree.

I guantini da 4 once non sono certo quelli da 10. La guardia dev’essere necessariamente modificata per intercettare un pugno veloce con dei guantini che essenzialmente ricoprono un volume molto ridotto oltre a quello della mano. non ci sono avambracci che tengano. Il parry dev’essere chirurgicamente preciso. Il timing è diverso e soprattutto reggere un urto con un guanto più piccolo non è come reggerlo con un guanto più pesante.

Insomma, Gokhan Saki non è pronto. Non per combattere a questi livelli, almeno. Rountree non è il più pericoloso sfidante che avrebbero potuto offrire a “The Rebel”, ma è stato la sua kryptonite. È bastato a farlo tornare sulla terra.

Il match lascia poco al commento tecnico, visto che è terminato in un minuto e mezzo. È bastato prendere le misure e muoversi verticalmente a Rountree per sferrare il colpo decisivo. Letta l’intenzionalità di colpire ripetutamente alle gambe, Khalil ha affondato il diretto centrando Saki in piena fronte. I due colpi in ground and pound non erano nemmeno necessari, Saki guardava la gamba del suo avversario per appurare l’impatto del suo leg kick quando le luci gli si sono spente.

Non è chiaro se UFC voglia ancora puntare sul turco che è un fenomeno nel K-1, ma che ha mostrato difficoltà parse incolmabili nelle prime due uscite in UFC, vittoria compresa. Ciò che sembra chiaro è che non c’è atleta di altro sport che passi alle MMA e riesca ad imporre il proprio dominio senza trovare difficoltà. Le MMA sono uno sport diverso da qualunque altra arte marziale. Che i fighter con base di lotta siano avvantaggiati alla transizione è vero, che ogni fenomeno in altre discipline può far valere la propria abilità primaria nelle MMA, assolutamente no.

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