Ogni inizio è scelto arbitrariamente, anche se è l’inizio della fine. In ogni caso, il ventunesimo secolo della AS Roma inizia davvero solo nel 2002, l’anno successivo la vittoria dello Scudetto, che possiamo considerare un regalo del secolo precedente. Ogni romanista ha il suo inizio preferito, della fine che la Roma sta vivendo ancora oggi che sono passati quasi vent’anni. Scegliendo nel campionario piuttosto ampio di momenti, in quella continua celebrazione di se stessi che non fa differenza tra vittorie e sconfitte, e che dà il senso di cosa significhi tifare Roma negli ultimi vent’anni. Si può partire dal tiro a incrociare di Marco Del Vecchio in Lecce-Roma (marzo 2002, dieci partite dalla fine della stagione) che forse sfiora il portiere, Chimenti, e che finisce prima sul palo e poi, stranissimo, sulla parte bassa della traversa. La Roma sarebbe andata sul 2-0 e invece, a 10’ dalla fine, il Lecce l’ha raggiunta sull’1-1. Per qualcuno invece la lenta apocalisse della Roma comincia a Venezia, con il Venezia già retrocesso che va in vantaggio di due gol, a due giornate dalla fine del campionato.
Per capire la storia di Daniele De Rossi, però, è meglio cominciare dalla doppia finale di Coppa Italia della stagione ancora dopo, quella 2002-2003, quella del suo esordio. Negli highlights della partita di andata con il Milan De Rossi compare dopo due colpi di testa finiti fuori, a poca distanza di tempo l’uno dall’altro. Non è stato lui a colpire la palla nel primo caso, ma la regia lo inquadra lo stesso mentre rientra a metà campo di buon passo, respirando a bocca aperta con gli occhi chiusi. Nel secondo caso invece è saltato più alto di tutti e ha schiacciato di poco al lato del palo, quando rientra stavolta si lascia andare a un’imprecazione, poi dice qualcosa rivolto ai compagni, battendo le mani. La Roma stava perdendo 1-3 quando lui è entrato in campo e dopo poco avrebbe preso il gol del 1-4.
A guardarla oggi, la frustrazione di Daniele De Rossi quel 20 maggio 2003 è identica alla frustrazione che identifica Daniele De Rossi. Che era al tempo stesso fatalismo e voglia di combattere il fatalismo. La qualità di De Rossi è la stessa, inconfondibile, immutata dal tempo che invece ha bruciato il biondo infantile dei suoi capelli, ispessito la sua silhouette, imbottito i suoi lineamenti, gonfiato e scurito le borse che porta sotto gli occhi, il cui contenuto resta un mistero. De Rossi doveva ancora compiere vent’anni e probabilmente non gli cresceva neanche la barba senza cui oggi è impossibile immaginarlo, ma non aveva già più (forse non l’ha mai avuta) la spensieratezza di un giovane di talento.
Ma è la Roma di oggi, intesa come squadra di calcio e anche come città, che è la stessa di quegli anni. Per questo la storia di De Rossi è anche la storia di tutti i romanisti diventati maturi nel ventunesimo secolo. Romanisti che si sono illusi che la vittoria facesse ormai parte dell’orizzonte delle proprie esperienze, che la loro squadra potesse migliorare di anno in anno, competendo con le squadre del nord, prima, poi chissà. Romani che pensavano il futuro potesse portare miglioramento, progresso, accrescimento. Che hanno vissuto il benessere del Giubileo, l’euforia veltroniana da festival perenne, che quasi da un giorno all’altro hanno visto atterrare le tre astronavi dell’Auditorium di Renzo Piano.
Che hanno familiarizzato con i nomi di Zaha Hadid e Calatrava, la cui “Città dello Sport” è costata quattro volte il previsto ma non è stata terminata in tempo per i Mondiali di nuoto del 2009, e allora è rimasta come monumento all’incompiutezza di Roma stessa. Una pinna di squalo di travi bianche visibile dal Grande Raccordo Anulare, a segnalare un’assenza (del futuro), un vuoto che non può più essere dimenticato. È Roma intesa come città, ma anche come squadra di calcio, che ha finito per confondere la realtà con un destino cattivo, con un dio beffardo che ce l’ha con lei (il dio Mai ‘Na Gioia), alimentando quel pendolo a moto perpetuo che oscilla tra mitomania e depressione.
Il critico culturale inglese Mark Fisher, nella raccolta postuma Spettri della mia vita, scrive che: «Ancorché disconosciuta, è ubiqua la sensazione di essere arrivati tardi, di vivere dopo l’età dell’oro». Roma non ha l’esclusiva sulla fine della civiltà occidentale, ma viene da pensare che in nessun posto questa sensazione sia viva tanto quanto a Roma. Come ha scritto Valerio Mattioli, l’idea è che il degrado romano di questi anni non sia «tanto l’esito di malagestione e politiche inefficaci quanto la rappresentazione plastica di un umore condiviso e votato a una cupezza che sa di fine dei tempi, di apocalisse, di catastrofe». E vai a capire se è la città che si riflette sulla squadra che ne porta il nome (se la squadra, cioè, è un’altra manifestazione plastica di questo umore) o se la mia lettura fa parte dell’autonarrazione romanista che infastidisce chi non lo è - a cominciare dai laziali che quella città la abitano e la vivono quanto i romanisti, chissà con quali sentimenti, finendo con chi del calcio non si interessa, perché esiste anche questa categoria di romani. Se quanto detto sopra è vero, però, allora è vero anche che nessuno come De Rossi rappresenta questo eterno presente, questo futuro che non esiste, questa fine infinita, l’impressione che ti stai muovendo ma in realtà non stai andando da nessuna parte, stai solo invecchiando.
Ottobre 2003.
Daniele De Rossi ha sempre avuto un rapporto strampalato con il tempo. Ha esordito giovanissimo, a 18 anni, ma è arrivato in ritardo, mancando di poco il terzo storico Scudetto della Roma (Fabio Capello lo ha convocato nella stagione 2000/01 ma non lo ha mai fatto scendere in campo). Al tempo stesso, era comunque troppo presto: quando la sua storia sembrava pronta per poter cominciare - stagione 2003/04, quella in cui sei segna il suo primo gol in Serie A, contro il Torino - si è dovuto fermare per la pubalgia saltando metà campionato, tornando poi in una Roma del tutto diversa. La prima Roma davvero di De Rossi è quella della stagione 2004/05 (l’unica in cui ha indossato il numero 4), abbandonata da papà Capello, con il vuoto di Emerson a centrocampo da riempire. La Roma dei quattro allenatori, dell’ottavo posto in campionato, della monetina in faccia all’arbitro Frisk in Champions League, di un’altra finale di Coppa Italia persa, stavolta con l’Inter. Quella Roma stava già aspettando - e aspetta ancora - di tornare a vincere lo Scudetto. È stata questa attesa ad essersi mangiata il tempo di De Rossi.
La paradossalità del tempo è stata tirata in ballo fin da subito parlando di De Rossi. Nei primissimi articoli su di lui, quando ancora scendeva in campo con la maglia numero 27, si parlava della sua «maturità impensabile per un ventenne», della «freddezza da veterano». Dopo un anonimo 0-0 con l’Ancona, De Rossi viene descritto come lo avremmo potuto descrivere ieri: «entrando con gli occhi pieni di rabbia e determinazione, lottando su ogni pallone».
De Rossi stesso, prima ancora di firmare il suo primo contratto da professionista, si lamentava già delle «illazioni sulla mia vita privata». A ventidue anni ha iniziato a dire cose che poi, nel corso della sua carriera, si sarebbe trovato a ripetere, con parole diverse ma sempre con la stessa franchezza: «Abbiamo problemi dappertutto: difesa, centrocampo, attacco e anche in porta. È il momento più brutto da quando gioco» (novembre 2005). E nel 2019 non possiamo fare a meno di pensare che di momenti “più brutti” ne avrebbe passati molti altri, che la sua carriera non avrebbe avuto normali alti e bassi, cadute e riscatti, come si tende a raccontare tutte le carriere sportive, piuttosto dei leitmotiv, e che i brutti momenti sarebbero stati uno dei suoi temi più ricorrenti. Così come le illazioni sulla sua vita privata.
Poi a un certo punto hanno iniziato a chiamarlo Capitan Futuro, emblema di quell’attesa indefinita che quando è terminata era già tardi: una volta diventato capitano a tutti gli effetti si parlava già da tempo del suo addio. De Rossi è invecchiato improvvisamente, ma è vero anche che è stato dato per finito più volte, e più volte è riuscito a migliorarsi. Persino l’addio alla Roma è stato percepito come prematuro, anche se aveva quasi 36 anni. Al termine di un’ultima brutta stagione della Roma - un ultimo brutto momento - in cui, infortuni a parte, era stato uno dei migliori, restituendo ai tifosi un senso di anticipazione, come se qualcosa di bello potesse ancora succedere alla Roma con De Rossi in campo. Così De Rossi è rimasto Capitan Futuro fino alla sua ultima partita in giallorosso, il suo momento non è mai arrivato, oppure è durato troppo poco, non ce lo siamo goduto (anche perché pochi altri calciatori hanno giocato 18 anni nella stessa squadra).
Come degna conclusione, l’ultima partita De Rossi l’ha giocata con un design la Nike ha pensato evidentemente per il pubblico più giovane, con dei fulmini fumettistici sul collo che sarebbero stati perfetti per il De Rossi ventenne ma che contrastavano senza nessuna ironia con la sua aria consumata. Era la maglia della stagione 2019/20, la prima senza De Rossi. Perché oggi nell’ultima partita di una stagione le squadre indossano in anteprima la maglia disegnata per la stagione successiva (per la smania di annunciare continuamente novità, per rassicurarci che il mondo va avanti), e l’effetto paradossale di questa trovata di marketing è che, quando un calciatore gioca la sua ultima partita con addosso la maglia dell’anno “prossimo”, ne dichiara l’immediata sostituibilità, negandoci a priori ogni senso di perdita.
Stagione 2006/07, primo gol di Roma-Fiorentina (3-1).
In rete si trova facilmente l’accostamento delle foto ufficiali di ogni inizio stagione di De Rossi, una scansione temporale che su di noi ha un effetto straniante, rafforzando per paradosso l’impressione che i vari De Rossi siano vissuti tutti simultaneamente. Come se tutte le versioni di De Rossi (il biondino con gli occhi strizzati controsole, il coattello rasato, l’icona russa) fossero in realtà i travestimenti di un latitante in una serie di foto segnaletiche. L’impressione di simultaneità è la stessa che si otterrebbe invecchiando la prima foto di De Rossi con il filtro di un’app, anzi, dal nostro punto di vista, ringiovanendo l’ultima (come se De Rossi fosse sempre stato trentenne, anche quando aveva vent’anni). Quegli anni sono passati in un attimo, il mondo di inizio 2000 e quello di oggi sono troppo uguali per provare a raccontare la storia di De Rossi in modo lineare, per darne un giudizio uniforme, per decidere quale dei vari De Rossi è quello dobbiamo ricordare.
Il che non significa che non sia successo niente nel frattempo. C’è una vita in mezzo tra la prima e l’ultima foto, ci sono due donne, tre figli, più di 700 partite di calcio. Semmai a rendere impossibile non solo un ritratto nostalgico di De Rossi, ma persino tirare le somme come si fa abitualmente con gli atleti più longevi, definirne un posto più o meno preciso all’interno del suo tempo, è che le sue soddisfazioni sono indissolubilmente legate, mescolate, confuse, alle delusioni.
De Rossi si è sempre detto contento della sua carriera («Da piccolo, fino a 14-15 anni, non sembrava che avessi grandissime doti. Avrei firmato per fare la carriera simile a quella di mio padre che si è fatto 15 anni di C, è il mio idolo, sono orgogliosissimo di lui») ma è impossibile non guardarsi indietro senza avere l’impressione che, a un certo punto, la sua storia si sia piegata su se stessa, dimenticando le sue premesse, dimenticando che c’era una storia da raccontare. Quello di De Rossi è un racconto di formazione che si interrompe prima di dirci cosa diventa il protagonista, in cui non arriva alla maturità, in cui non c’è l’integrazione finale.
Ha vinto un Europeo Under 21 segnando in finale, e immediatamente dopo la medaglia di bronzo all’Olimpiade di Atene, perdendo in semifinale contro l’Argentina di Tevez, Saviola e Mascherano, allenata da Marcelo Bielsa. Per quel che vale, quell’anno (2004) gli è stata data l’onorificenza di Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica, e subito dopo è stato chiamato in Nazionale maggiore, segnando il suo primo gol azzurro nella partita di esordio. Ha vinto un Mondiale a 23 anni, calciando un rigore pesantissimo in finale, quello immediatamente successivo all’unico errore francese di Trezeguet. Ha vinto due Coppe Italia e una Supercoppa, prima di compiere 25 anni, poi niente più.
Ma la storia di De Rossi si rompe anche all’interno dei singoli episodi di cui è composta. Persino la gioia del Mondiale è impossibile da ricordare senza menzionare la sua espulsione alla seconda giornata, per la famosa gomitata all’americano McBride. Oggi De Rossi è il quarto giocatore della storia della Nazionale italiana con più presenze, e verrebbe da dire che la sua storia in maglia azzurra è stata più raccontabile, più all’altezza del suo valore. Eppure, anche con l’Italia, al netto di un Mondiale e tre ottimi Europei, ha avuto la sfortuna di vivere diversi brutti momenti. Due tremendi Mondiali (in Sudafrica e in Brasile) e la mancata qualificazione negli spareggi contro la Svezia, ovvero il momento “più brutto” degli ultimi sessant’anni di storia del calcio italiano.
Olimpiadi di Atene 2004, Italia-Giappone.
Oppure prendiamo quest’altro leitmotiv della sua carriera: De Rossi ha segnato alcuni dei suoi gol più belli in grandi sconfitte. Il tocco delicato di controbalzo con cui ha portato in vantaggio la Roma a Madrid, partita finita 4-2, stagione 2004/05. Il missile rabbioso con cui ha pareggiato momentaneamente la partita dell’Olimpico con la Juventus, finita poi 1-3, stagione 2009/10. L’altra sassata con cui ha bucato Toldo a San Siro (nella Supercoppa del 2008, finita 2-2 nei tempi regolamentari e persa ai rigori contro l’Inter).
E poi c’è quello che De Rossi dice essere “purtroppo” il suo gol più bello, il gol del 1-6 segnato a Manchester contro lo United (partita finita, come saprete tutti, 7-1, stagione 2006/07). Una specie di interno no-look, spalle alla porta, su un cross teso sul primo palo, di Totti, difficile persino da stoppare (a cui ho già dedicato un mio intervento, qui, in cui definivo De Rossi «la contraddizione che ha tenuto alta la testa dei tifosi della Roma negli ultimi 18 anni»).
D’altra parte è anche impossibile definire De Rossi semplicemente per i suoi errori, anche i peggiori. È strano persino il modo in cui McBride ha commentato quella gomitata che forse è la macchia più grande sulla carriera (se non altro perché in effetti, per via del sangue, è stata anche visivamente una macchia): «Non ho sentito niente, in faccia ho sette placche di titanio. Tutto passato, De Rossi ha mostrato classe venendosi a scusare».
Gli errori di De Rossi sono costati molto alla Roma in termini di punti (il derby del pugno a Mauri è finito 3-2 per la Lazio; lo schiaffo a Lapadula portò al rigore dell’1-1 del Genoa; la sua espulsione con il Porto chiuse la porta della Champions League nel 2016), e soprattutto De Rossi ha manifestato e confermato negli anni l’idea che facesse parte della natura della Roma, di Roma, perdere il controllo da un momento all’altro. Eppure ci sono molte di testimonianze della dolcezza di De Rossi, o se preferite del suo senso morale, del fatto cioè che non è solo un coatto che fa sempre gli stessi errori, a venti come a quarant’anni.
In questi anni De Rossi si è distinto quasi senza volerlo, sicuramente senza farsi pubblicità, come un gatto randagio si distinguerebbe in un negozio di peluches (quale altra immagine potrei usare per un giocatore che sale sul pullman della squadra che gli ha impedito di giocare il suo ultimo Mondiale per scusarsi dei fischi del pubblico durante l’inno nazionale?). Non voglio farla sembrare una storia romantica, per cui citerò solo un altro episodio, che mi sembra significativo, che lo vede andare a Firenze per il funerale di Pietro Lombardi, un vecchio magazziniere della Nazionale, detto “Spazzolino”, per infilare nel feretro la sua medaglia d’oro, quella del Mondiale 2006.
Per uno che in carriera ha vinto molto poco, per uno che verrà ricordato anche per aver vinto molto poco, la nobiltà di un gesto così intimo mette in questione il valore della nostra memoria affidata a Wikipedia. Il rifiuto di vedere la vita come una cronologia di vittorie e sconfitte.
Pirlo, De Rossi e Spazzolino. Certe foto valgono più di mille parole (almeno delle mie).
Ma anche questo aneddoto, come quasi tutto di quello che pensiamo di sapere della sua vita privata, non è stato confermato da De Rossi. E questa è un'altra sua contraddizione: ci sembra di conoscerlo come fosse un nostro amico ma di chi è davvero fuori dal campo sappiamo pochissimo, generando così anche molte leggende negative, così parte della sua narrazione che si è persino tatuato alcune di quelle messe in giro dalle radio romane: De Rossi avrebbe potuto smentirle una a una, invece si è raffigurato sulla sua stessa pelle nel modo fuorviante in cui è stato raccontato. Se la sua storia non può essere raccontata, se a un certo punto è caduta la penna di mano a chi lo stava facendo, i testi che la formano dovranno essere quelli trovati durante il percorso.
Il tempo di De Rossi non sembra passato nella nostra memoria, invischiato in quella specie di colata lavica che è diventato il presente, ma è passato nella realtà, ed è passato in campo. Nell’immediata santificazione che ha seguito il suo addio, con cui probabilmente abbiamo provato a compensare una separazione per cui non eravamo pronti, abbiamo finito col dimenticare quanto De Rossi abbia diviso in questi anni, quanto anche una parte dei romanisti lo abbia criticato violentemente.
Allo stesso modo rischiamo di dimenticarci quanto De Rossi sia cambiato calcisticamente. È stato anzitutto un dinamico box-to-box, con un innato senso per l’intervento difensivo ma anche inserimenti in area e tiri da fuori. E una sensibilità tecnica, forse poco celebrata, che gli permetteva di giocare sempre in quinta senza perdere il controllo, anche a uno o due tocchi, anche nello stretto. C’è stato un momento, in cui De Rossi era uno dei centrocampisti più completi al mondo (un momento in cui se fosse finito al Manchester City di Mancini, a giocare vicino a un fenomeno assoluto come Yaya Touré, nello stesso campionato di Gerrard e Lampard, non ci sarebbe stato niente di strano).
Poi è diventato un playmaker di qualità e un difensore aggiunto (all’occasione, è stato anche un difensore vero e proprio). De Rossi si è evoluto, raggiungendo picchi di forma in momenti diversi della sua carriera in corrispondenza dei suoi cambiamenti stilistici, rispondendo alle richieste tattiche degli allenatori e adattandosi alla perdita dell’esuberanza giovanile dei primi anni con l’intelligenza.
Ma la Roma, in tutti questi anni, non si è mossa di un centimetro. O meglio, si è avvicinata anche alla cima della montagna, facendo due volte il proprio record storico di punti (prima con Rudi Garcia, poi con Luciano Spalletti bis), ma solo per poi rotolare di nuovo fino a valle. Lo ha ricordato lui stesso al momento dell’addio: «Tante volte ho avuto la sensazione che la squadra stesse diventando molto forte, avvicinandosi a quelle che vincevano. Per poi fare un passo indietro». Il senso di De Rossi sta in questa lotta tra la sua voglia di cambiare - e stavo per scrivere direttamente voglia di vivere - e il tempo immobile in cui si è trovato a muoversi.
In questo senso, per quanto inelegante, non si può non passare per un confronto con l’altra leggenda della Roma di questi anni. Se per Totti la Roma è stata un onore e un sacrificio, perché altrimenti chissà quanti Palloni d’Oro e Champions League avrebbe vinto, per De Rossi invece la Roma è stata solo un lusso, quella maglia ha aumentato di valore la sua storia di calciatore (per quanto anche De Rossi abbia rinunciato a delle offerte e nonostante sia stato in campo in tutti e tre i 7-1 entrati violentemente nella storia della Roma, compreso l'ultimo con la Fiorentina in cui è entrato sul momentaneo 4-1). Questa non è una mia interpretazione, ma quella dello stesso De Rossi quando dice: «Vivere senza Roma sarebbe stata una cosa che mi avrebbe fatto più male del non aver vissuto un Real Madrid-Barcellona, o di non aver calcato gli stadi inglesi più belli, di non aver vinto determinate cose».
All’interno della stagione 2004/05, quella che per il mio racconto ho scelto come vero inizio, come cerniera, sempre arbitrariamente ho scelto un momento come particolarmente significativo. Daniele De Rossi segna il gol del 3-3 in casa contro l’Inter, a un quarto d’ora dalla fine. Poi si mette a correre verso la Sud, di fronte a cui quasi 15 anni dopo si sarebbe inginocchiato, portandosi alla bocca lo stemma cucito sulla sua maglia, che 15 anni dopo non è più lo stesso stemma, inseguito da un compagno, Dellas, che gli tira la maglia. E la tensione tra il suo bacio e il tentativo del compagno di trattenerlo gli strappa la maglia
Quella Roma, con Del Neri al suo esordio in panchina, era nel mezzo del passaggio fondamentale della sua storia recente: era ancora sicura che avrebbe vinto a breve il quarto Scudetto, ma contemporaneamente era già la Roma di adesso. Quella che nelle ultime 18 stagioni è arrivata 9 volte seconda, e sono le 18 stagioni di De Rossi nella Roma. A Roma si dice che alla fine di ogni stagione decidesse di restare pensando che quello dopo sarebbe stato quello in cui la Roma sarebbe tornata a vincere. Ma De Rossi ha rappresentato tutti i romanisti, in tutti questi anni, perché quel 3 ottobre 2004, mentre correva per esultare sotto la Sud con il cuore che gli stava per scoppiare in petto, per esultare in un moto unico di amore, rabbia, vitalità e disperazione, sembrava sapere già tutto del suo futuro. Del nostro futuro.