Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Dannazione e redenzione di Roger Schmidt
11 apr 2023
La tortuosa storia dell'allenatore tedesco del Benfica.
(articolo)
20 min
(copertina)
IMAGO / GlobalImagens
(copertina) IMAGO / GlobalImagens
Dark mode
(ON)

«Cristo venne umile, egli (l'anticristo) verrà per i superbi. Cristo venne per esaltare gli umili, per giustificare i peccatori, egli al contrario scaccerà gli umili, magnificherà i peccatori, esalterà gli empi, e insegnerà sempre i vizi, che sono contrari alle virtù»

La scena è surreale. Roger Schmidt scende da un’auto nera all’aeroporto di Beijing e appena mette un piede a terra è sommerso da una marea umana. È stato da poco esonerato dalla squadra, il Beijing Gouan, con cui ha vinto una sola coppa nazionale: troppo poco per le ambizioni del club. I tifosi, però, lo amano e vogliono dimostrarglielo. Lo toccano, lo abbracciano, gli sorridono, lo ringraziano. Si sentono grida disperate, alternate a commenti pieni di riconoscenza: «Grazie per il tuo duro lavoro». Passati un paio di minuti, Schmidt dice che deve andarsene, deve partire. Quelli non lo mollano, gli mettono un paio di sciarpe al collo, lo riempiono di orsetti, gli mettono dei fiori in mano. Poi altre sciarpe, ogni metro ce n’è una nuova. A quel punto Schmidt è emotivamente a pezzi, piange, mentre i tifosi cantano il coro: “Schmidt Niubi”, “Schmidt sei fantastico”. Sembra una strana processione religiosa, con Schmidt trasformato nel pupazzo del santo. Arrivato alla fine è quasi sovrastato dalle sciarpe che si sono acciambellate attorno al collo.

«Non è importante cosa pensano le persone quando arrivi, è molto più importante cosa pensano quando te ne vai» disse Jurgen Klopp nel 2015, appena arrivato al Liverpool. Cosa diceva un addio tanto accorato su Roger Schmidt? Forse che il modo spettacolare in cui giocava la sua squadra era più importante, per i tifosi, dell’assenza dei trofei che la dirigenza gli rimproverava. Forse che il suo calcio era riuscito a entrare in contatto con le persone, a trasmettergli qualcosa che andava oltre la vittoria e la sconfitta. Una gioia profonda, un senso puro, nobile.

Oggi Roger Schmidt allena una delle squadre più divertenti d’Europa, il Benfica, e non è difficile riconoscere una coerenza tra quell’allenatore amato dai tifosi e quello di oggi. Il tecnico della macchina spettacolare che gioca al Da Luz, col suo calcio associativo, iper-fluido, capace di segnare 16 gol in un girone di Champions League.

All’epoca era molto più difficile, perché Roger Schmidt era una figura molto diversa da quella che conosciamo oggi. Più duro, più ruvido, più controverso di quest’uomo di mezza età dall’aria serena e intellettuale. Tedesco ma cosmopolita, serio ma intenso, che davanti ai microfoni parla di gioia, di che cos’è la felicità su un campo da calcio: «Voglio vincere nel modo che preferisco. Voglio vedere una partita e dire “Mi piace questo stile di gioco”. Oltre i titoli, è questa la più grande gioia nel calcio. Il motivo per cui lavoro».

C’è stato un tempo in cui Roger Schmidt sembrava sceso sul calcio come il Leviatano sul mondo.

Calcio e anfetamine

Tutto ciò che si racconta è difficile da credere, se non fosse per le foto da calciatore che si trovano in giro. I capelli lunghi, i rossi sulle gote, un brillocco all’orecchio sinistro, l’aria fredda e penetrante. Indossa la maglia numero 10 del Verl, gioca su campi disastrati del Vestfalia; campi di quarta divisione, dove si guadagna poco. Con quel poco Schmidt si è pagato gli studi in ingegneria meccanica. In fondo c’è un allenamento al giorno e dopo resta tanto tempo libero: se uno vuole studiare, studia. A 30 anni diventa progettista alla Benteler, grossa azienda siderurgica tedesca. Ormai è un ingegnere che nel tempo libero gioca anche a calcio, con sempre meno passione. Si fa convincere dall’SC Delbruck, quinta divisione tedesca, a fare un’ultima stagione da giocatore-allenatore. Il curriculum da ingegnere è quello dei grandi allenatori senza un passato da grandi calciatori. Resta però un passatempo, anche quando si ritira dal calcio giocato, e diventa allenatore per un paio d’anni. Decide di lasciare il calcio definitivamente: aveva una famiglia da mantenere e un lavoro da ingegnere da tenersi. In quel momento però lo contatta il Preußen Münster, un club storico del calcio tedesco, tra le squadre che hanno fondato la Bundesliga. In quel momento milita nella massima divisione dilettantistica del calcio tedesco. «Ero convinto di lasciare il calcio, ma il Prussia Munster è stato testardo a volerlo. Alla fine ho lasciato il mio lavoro di ingegnere meccanico». Schmidt accetta di allenare a una condizione: che se lo avessero licenziato gli avrebbero trovato un lavoro da ingegnere in città. Quando lo licenziano davvero, tre anni dopo, è il 2010 e Schmidt non ci pensa più a tornare al suo vecchio lavoro. Segue il corso da allenatore e da lì inizia davvero l’ascesa, prima al Paderborn, e poi la chiamata del RB Salisburgo. A sceglierlo è stato Ralf Rangnick, appena nominato direttore tecnico del club, stufo di vincere per l’inerzia della propria ricchezza. C’è un progetto di ampio respiro, al confine tra il geniale e il distopico. Parlano esplicitamente di creare un nuovo sport. Una filosofia di gioco che rifletta quello di una bevanda energetica. Quindi un gioco adrenalinico, rapido, giocato a intensità vertiginose. Una partita di calcio vissuta con la tachicardia, con l’ansia della produzione capitalistica. Un concerto di Lorenzo Senni fatto sotto anfetamine.

Il giorno della sua presentazione Schmidt indossa una scollacciata maglia rosa e un ghigno spaventoso. Lui e Rangnick avrebbero gettato i semi di una rivoluzione tenebrosa.

Bucare il pallone

Il primo anno il RB Salisburgo non vince nemmeno il campionato, arriva secondo, a cinque punti dall’Austria Vienna. Durante le ultime partite i tifosi appendono striscioni con su scritto “Schmidt rimani!”. Nel calcio tedesco le cose si stanno muovendo. Jurgen Klopp, prima al Mainz e poi al Dortmund, sta portando avanti un calcio intenso che porta alle estreme conseguenze la lezione sacchiana sul pressing. Il recupero palla in alto, che in quegli anni il Barcellona di Guardiola aveva raffinato come strumento di dominio e controllo, diventa uno strumento offensivo. Le squadre di Klopp recuperano palla per cercare una transizione nel modo più diretto possibile. A Salisburgo Schmidt e Rangnick prendono il calcio di Klopp e lo mettono in lavatrice con spirito accelerazionista. Più ritmo, più intensità, più verticalità. Il club non compra giocatori sopra ai 24 anni: nel calcio del futuro non bisogna pensare troppo ma correre. A Salisburgo arriva quindi solo carne fresca, e arriva da tutto il mondo; i giocatori vengono forgiati come splendidi esemplari di Uruk-hai, nelle fornaci del gegenpressing e dell’intensità. L’ispirazione di Rangnick del resto non è solo Sacchi ma anche Zeman, uno dei grandi mistici dell’intensità e del pressing già in epoca preistorica. Rangnick aveva passato le estati degli anni ’90 a guardare le amichevoli del Foggia, e aveva ammirato quel modo furioso, urgente, di attaccare. Un’interpretazione vertiginosa della fase di possesso, con la palla spedita il più velocemente possibile agli attaccanti - come fosse una partita di hockey. Come citato da Emiliano Battazzi in Calcio Liquido, Collina dice che le squadre di Zeman erano le più difficili da arbitrare: «I tre attaccanti partivano come missili ed era complicato seguire lo sviluppo dell’azione». Questo mélange tra Sacchi, Zeman e l’efficientismo tedesco diventa una materia oscura, che Rangnick e Schmidt installano in questa tranquilla cittadina austriaca tra le montagne, patria di Mozart e Von Karajan.

Il campionato austriaco non era certo pronto per questa rivoluzione e, dopo un anno di adattamento, viene conquistato con la rapidità dell’invasione della Polonia. Il Red Bull Salisburgo di Schmidt è una squadra debordante, che segna più di 90 gol al suo secondo anno e più di 100 al terzo. Nei primi anni di YouTube circolano video di partite esoteriche, inquietanti. Sui campi di Vienna, di Graz, di Linz masse di giocatori si scontrano fra loro per perdere e riconquistare il pallone di continuo, come sponde inermi di un enorme flipper immaginario. Di certe squadre particolarmente brillanti si dice che praticano “un caos organizzato”, ma il calcio di Schmidt abbraccia completamente il caos, senza ormai nessuna forma, nessuna razionalità. Se Klopp sosteneva che il gegenpressing fosse “il miglior playmaker” con Schmidt diventa l’unico playmaker. È un calcio mai visto, fatto di sole transizioni. Il possesso palla, o meglio l’attacco posizionale, è abolito.

Come un Frankestein su cui il creatore ha ormai perso il controllo, il RB Salisburgo percorre ormai le strade dell’estremismo, della follia devastatrice. Sui campi di allenamento suona una sirena quando la squadra non riesce a riconquistare la palla entro i cinque secondi. Schmidt ammette che la cosa gli aveva preso la mano: «Alla fine del periodo al RB Salisburgo giocava un calcio molto più estremo di quanto Rangnick facesse all’Hoffenheim». Guardiola guarda i video di quelle partite e rimane affascinato, aveva creato lui il gegenpressing, ma non immaginava che potesse assumere quella centralità; che potesse arrivare a quelle conseguenze. È davvero quello il futuro del calcio? È ammirato, dice che non ha mai visto nessuna squadra giocare con quell’intensità. Quando arriva al Bayern Monaco chiede subito a Schmidt di fare un amichevole estiva. Il Red Bull Salisburgo vince 3-0, tritura i bavaresi. Sadio Mané e Kevin Kampl passano sul campo come i cavalieri dell’apocalisse.

Un nuovo calcio è arrivato, e Schmidt è pronto a portarlo in Germania.

Fury Road

I giocatori del Bayer Leverkusen hanno un soprannome farmaceutico e indossano maglie rosse e nere come l’inferno. Roger Schmidt li guida dalla panchina con aria torva. È all’apogeo del suo radicalismo. I capelli corvini e unti gli cadono sulle spalle; indossa giacche nere, maglie nere, pantaloni neri. Ha qualcosa dell’artista espressionista, della persona entrata troppo a contatto col lato oscuro dell’essere umano, con le sue turbe, con la sua naturale inclinazione al maligno. Le sue squadre riflettono questa oscurità.

Al Bayer Leverkusen i difensori lanciano lungo verso la punta Stefan Kiessling, usato come un panzer contro le linee nemiche. L’idea è di generare più seconde palle possibili, e riconquistarne il più possibile. È durante la riconquista del pallone, in quel brevissimo lasso di tempo in cui la squadra è disorganizzata - massimo pochi secondi - che bisogna colpire. È dentro la confusione che l’avversario è più esposto, più debole. Creare caos, entropia, perché dentro quell’entropia nasce qualcosa. «Amo quel calcio che è intenso per tutti i novata minuti e succedono tante cose» dice Schmidt. Al Leverkusen si porta dietro il suo Obergruppenführer, Kevin Kampl, secco come un chiodo, iperdinamico, la cresta sparata in verso il cielo come un motociclista di Mad Max: Fury Road. Davanti a lui c’è Hakan Calhanoglu, arrivato come un estroso numero 10 turco e presto trasformato in una macchina di pressing, lanci lunghi e tiri.

In Bundesliga il Bayern Monaco di Guardiola sembra aver portato la sua rivoluzione illuminista. Il suo calcio è ambizioso ma esaltante come tutti i sogni dell’uomo di dominare il creato. Controllare tutte le variabili, eliminare l’imprevisto, il livello aleatorio che il caos si porta dietro. Schmidt era la cosa più vicina all’anticristo mandato in terra per sabotare il calcio. O quanto meno per provare a interrompere l’inarrestabile linea di progresso del calcio verso l’ordine razionalista di matrice catalano-olandese. Quando gli viene chiesto di descrivere lo stile di gioco della sua squadra, Schmidt ride, di una risata che non contiene tracce di felicità: «Le mie squadre giocano bene quando gli avversari non sono a proprio agio». Ha ammesso che da giovane non avrebbe voluto fare l’allenatore, è per questo che vuole creare questo calcio del disagio?

Durante i suoi anni al Bayer Leverkusen mette più volte in difficoltà il Bayern di Guardiola. Il suo calcio, rispetto a quello del tecnico catalano, è un feroce richiamo al dominio del caos nella vita umana. Mentre le squadre di Guardiola cercano di costruire con razionalità, mettendo in piedi complesse architetture di armonia collettiva, Schmidt si diverte a disfare tutto. Il suo calcio è il regno della discordia, della disarmonia, dell’entropia. Dell’impossibilità dell’uomo di costruire qualcosa di forte e duraturo. Se Guardiola aveva definito il calcio di Sarri “un brindisi al sole”, quello di Schmidt allora è un brindisi alla luna. Il suo calcio è un rovesciamento, un arresto semantico, la negazione stessa delle cose.

A volte alle squadre di Schmidt sembra proprio non piacere il calcio, se consideriamo il calcio anche come un tentativo di gestione più sapiente e preciso possibile di un oggetto capriccioso come la palla. Le sue squadra rinunciano alla base al suo controllo. Arriva a teorizzare passaggi sbagliati apposta per creare densità attorno alla seconda palla. Il Leverkusen prolifera nell’errore. Schmidt come un adepto del Discordianesimo. Un credo religioso che può essere interpretato come l’accettazione del fatto che la disarmonia e il caos sono la vera natura della realtà - e questo al contrario della maggioranza delle religioni, che ci ricordano i principi di armonia e ordine dell’universo. Ci sono dei punti di contatto col Satanismo. Perché se l’universo ordinato e razionale non può che essere emanazione della mente perfetta di Dio, allora l’universo caotico e disordinato è per forza emanazione del diavolo. Le sue squadre hanno statistiche incredibili. Il Leverkusen è di gran lunga la squadra che tira di più in Bundesliga, e quella che effettua più tiri entro i primi sette secondi dalla riconquista. Il Borussia Dortmund di Klopp non riesce nemmeno ad avvicinarsi a questi dati. Propone allenamenti moderni, sempre strutturati attorno al pallone, ispirati dal calcio spagnolo, ma così duri fisicamente che alcuni giocatori non ne possono più. «Devi avere convinzione per giocare nel nostro modo, devi dare tutto, sempre, sono concessi pochi momenti di relax».

Christoph Kramer, tornato al Leverkusen dopo due anni al Borussia Monchengladbach, è andato in crisi: «Sto giocando il mio calcio peggiore. Al Gladbach giocavamo un calcio di possesso, qui è brutale, molto molto più veloce». Come al RB Salisburgo, c’è una selezione fisica alla base: «Nel nostro stile di gioco facciamo tanto pressing, che comporta tanti scatti. I giocatori hanno bisogno di essere in forma, di poter fare tanti scatti. Se vuoi pressare, se vuoi riconquistare la palla, devi farlo ad alta velocità. È più facile riconquistare il pallone se sei veloce». Schmidt ne fa una questione di intrattenimento: «Ci sono tante situazioni in cui una squadra riconquista palla e corre in attacco, ed è quello che uno spettatore vuole vedere». In quegli anni forgia il suo attaccante ideale: Heung-Min Son, un feroce alano del pressing. Un giocatore dalle capacità fisiche e mentali prodigiose, fenomenale nel mantenere alta la precisione tecniche pure dentro ritmi di gioco proibitivi.

Fuori dal campo, il personaggio di Schmidt è cupo e tormentato come le sue squadre. Tende a perdere il controllo contro allenatori giovani e talentuosi. Contro l’Hoffenheim impazzisce contro Julian Nagelsmann. Tira fuori tutta la bile dal suo corpo e gli grida: «Pensi di aver inventato il calcio?!». In una partita contro il Borussia Dortmund di Tuchel viene espulso, e si rifiuta di uscire dal campo. L’arbitro allora è costretto a sospendere la partita per nove minuti, utili per convincere Schmidt a sedersi in tribuna.

Accetta mal volentieri la sconfitta, soprattutto contro squadre reattive. Ai giornalisti dice stizzito che quello non è il suo calcio. Col Bayer Leverkusen arriva quarto alla prima stagione, terzo nella seconda. Nella terza però diventa una squadra sclerotica, discontinua, che perde molto facilmente l’equilibrio. Roger Schmidt appare come il profeta di un calcio radicale, di un avanguardia troppo estrema per avere successo. Viene esonerato con la squadra stagnante in acque cattive, dopo una terrificante sconfitta contro il Borussia Dortmund (6-2), che era seguita a un’altra in Champions per 4-2 contro l’Atletico Madrid. Il “Cholo” lo aveva mandato fuori di testa. Durante il doppio confronto litiga con lui e col “Mono” Burgos: «Il loro assistente è una follia. Lo mandano sempre avanti per fare casino». La sua ossessione per il pressing, per una riconquista rapida e furiosa del pallone, sembra aver logorato la squadra. Schmidt vuole riconquistare in alto la palla, ma è più difficile farlo quando il pallone si perde sempre molto velocemente. Rispetto alla nuova scuola di allenatori tedeschi - Nagelsmann, Tuchel, Rose - che ha introdotto in modo più maturo gli strumenti del gioco di posizione, Schmidt appare troppo intransigente, ma anche troppo monolitico. Inadatto al calcio d’alto livello, che è complesso, fatto di situazioni. «È molto sicuro della sua visione del calcio, e quando viene contraddetto va su tutte le furie» dice il direttore sportivo del Bayer Leverkusen, Rudi Voller.

A marzo del 2017 viene esonerato dal Leverkusen, a giugno dello stesso anno firma per il Beijing Gouan. Un’implicita ammissione che la sua carriera d’alto livello è finita.

Redenzione

Come ricordato in Complotto!, di John Higgs, anche i discordiani possiedono i loro dogmi. Solo che, per coerenza con la propria filosofia, non possono essere fissi e immutabili. Sono delle regole di vita buone in un certo momento. Allora si può dire che da autentico discordiano Roger Schmidt abbia abbandonato le proprie idee precedenti per sceglierne una più adatta alla situazione in cui si trova. Dopo l’esilio cinese Schmidt pare cambiato. Ha un aspetto meno tetro, meno aggressivo. È più sorridente, più rilassato. Insomma, sembra essersi imborghesito, e anche il suo calcio si è diluito in una forma meno estrema.

Al PSV si vede già un Roger Schmidt diverso, più pacato, più in controllo. Prende la squadra a marzo, a stagione in corso, portandola al secondo posto. L’anno dopo arriva ancora secondo, ma ad appena due punti dall’Ajax, che però batte nelle finali di Supercoppa e Coppa d’Olanda.

Il suo calcio a contatto col razionalismo olandese, sembra raddrizzarsi. Forte anche di una superiorità tecnica nel contesto nazionale, il suo PSV è una squadra più calma rispetto a quelle del suo passato. La sua identità ruota ancora attorno alla riconquista del pallone e ai ritmi alti, ma c’è un’insolita attenzione al controllo della palla. In attacco ci sono esterni velocissimi (Madueke, Gakpo, Bruma) che Schmidt ha istruito negli smarcamenti e nell’attacco diretto della profondità. Al centro però non gioca più un centravanti boa come Kiessling, né uno che attacca solo la profondità come il “Chicharito” Hernandez. Si alternano invece due centrocampisti offensivi come Mario Gotze ed Eran Zahavi. Giocatori tecnici, associativi, che devono preoccuparsi di creare densità in zona palla e infittire la rete di passaggi sulla trequarti. Cosa succede a Schmidt? Cos’è questo improvviso amore per il pallone?

Il suo PSV resta comunque una squadra discontinua e sbilanciata. Nella partita d’andata degli ottavi di finale di Conference League riesce a dar vita a un paradossale 4-4 contro il Copenaghen. In quel periodo non trova l’intesa per il rinnovo di contratto con il PSV e annuncia il suo addio. È stata un’esperienza positiva, che lo rilancia nel calcio europeo, ma è difficile immaginare per lui una destinazione meno plausibile del Benfica. Cosa c’entra il profeta più oscuro del calcio tedesco nel sensuale e compassato calcio portoghese? Soprattutto, cosa c’entra nel Benfica, una squadra che vuole vincere titoli, questo allenatore che pare troppo intransigente per poter vincere qualcosa di rilevante nella sua carriera?

La dirigenza del Benfica però è una delle più competenti al mondo, e ha visto nel PSV di Schmidt dei segnali promettenti. L’attenzione ossessiva al gioco senza palla, formulato nella chiave più moderna possibile, è qualcosa che manca al DNA del Benfica degli ultimi anni, ma che richiama una delle sue migliori versioni recenti, quella di Jorge Jesus e della “Vertigem Vertical”, la vertigine verticale.

La cura del pressing è ciò che Schmidt porta subito al Benfica, ma quello che stupisce è il modo in cui la sua squadra gioca col pallone. Un calcio luminoso, fatto di associazioni fiorite basate sulla tecnica individuale. Un calcio certamente più controllato rispetto ai suoi sfrenati anni tedeschi. Il suo Benfica è una squadra che domina con la palla, che modifica la forma del campo a piacimento a seconda di come i giocatori si avvicinano o si allontanano dal pallone.

La squadra si schiera col 4-2-3-1, lo stesso modulo usato col Leverkusen, ma la sua interpretazione non potrebbe essere più diversa. Il doppio mediano davanti alla difesa si preoccupa di mantenere sempre la superiorità in zona palla, che viene fatta progredire soprattutto dalle complesse combinazioni sviluppati sui lati. Quando il Benfica ha il pallone il campo può restringersi all’inverosimile attorno alla palla, per poi aprirsi all’improvviso con un cambio di gioco in diagonale. È questa densità palla a permettere al Benfica di essere efficace nella riconquista della palla. Per la prima volta in carriera, una squadra di Schmidt gioca a velocità diverse, non corre soltanto il più velocemente possibile verso la porta ma progredisce anche con calma, non trattando il pallone come un potenziale nemico. Per la prima volta Schmidt ha trovato un equilibrio difensivo. Le sue squadre hanno sempre avuto numeri zemaniani; anche lo scorso anno il PSV è riuscito ad arrivare secondo pur subendo 42 gol in campionato, 23 più dell’Ajax primo, 8 più del Feyenoord terzo. Quest’anno il Benfica ha invece la miglior difesa del campionato. Certo, non stiamo parlando di un’organizzazione difensiva così scrupolosa. Quando la squadra sta troppo tempo senza toccare il pallone, e si fa schiacciare nella propria metà campo, può diventare fragilissima. Basta vedere l’ultima partita persa col Porto (dopo dieci vittorie consecutive). La facilità con cui Galeno prende spazio tra centrale e terzino è imbarazzante.

Il fatto nuovo, però, è che una squadra di Schmidt usa il pallone anche per difendersi. Una vera rivoluzione per lui. Il sole di questa sofisticata organizzazione con la palla era Enzo Fernandez. Roger Schmidt aveva definito “una mancanza di rispetto” il tentativo del Chelsea di comprarlo. Senza di lui la squadra ha perso complessità e qualità nella gestione della palla. Fernandez non è stato davvero sostituito e al suo posto si stanno alternando un ex trequartista come Ciquinho e un mediano molto scolastico come Florentino Luis. Bisognerà vedere quanto la struttura del Benfica riuscirà ad assorbire la mancanza di quello che in Premier si sta già rivelando come un centrocampista generazionale.

Il Benfica resta comunque una squadra con una qualità media molto alta, con giocatori dalla tecnica squisita - Grimaldo, Rafa Silva, Joao Mario, David Neres - che hanno in qualche modo costretto a Schmidt a giocare un calcio più riflessivo. Ci sono anche giocatori ideali per la sua richiesta atletica, in particolare il mediano-mezzala-trequartista apocalittico Fredrik Aursnes, che potrebbe giocare senza problemi anche su un campo grande il doppio. E poi Joao Mario, protagonista di una stagione da 20 gol grazie all’intuizione di spostarlo più avanti nel campo. Infine Rafa Silva, un giocatore dalla tecnica formidabile, ma con uno stile di gioco estremamente diretto, ideale per guidare le transizioni corte e lunghe di Schmidt.

Il suo caratteraccio tende a venir fuori più sporadicamente, come sbuffi necessari di una pentola a pressione. Contro il Vizela è stato espulso dopo aver rilanciato una bottiglia d’acqua contro il pubblico. Uscendo gli ha fatto, sardonico, il segno del 2-0.

La parabola di Schmidt è contraria a quella della maggior parte degli allenatori prodigio del calcio tedesco, venuti fuori spesso giovanissimi. All’età che ha oggi Julian Nagelsmann, già esonerato dal Bayern Monaco, Schmidt non aveva ancora iniziato ad allenare. La sua è una storia di gavetta, ma soprattutto di evoluzione. Un cambiamento impronosticabile, con pochi precedenti nel calcio contemporaneo, che rivela lo spessore di Schmidt come allenatore, e l’importanza della contaminazione di idee nel calcio contemporaneo.

Schmidt sembrava solo l’esponente più estremista della new wave tattica tedesca. Un allenatore studiato dai colleghi, amato dai tifosi, capace di costruire squadre di culto; ma un allenatore limitato, incapace della necessaria elasticità per ottenere risultati d’alto livello. Una specie di Zeman tedesco, senza nemmeno la retorica degli ultimi. Oggi che è primo in campionato e ai quarti di Champions la sua immagine è completamente diversa, il suo calcio ha aggiunto nuove sfumature di colore. Dopo l’ibridazione col razionalismo olandese, il calcio di Schmidt si è contaminato anche con la fluidità posizionale del calcio latino, producendo una delle squadre più entusiasmanti di questa stagione. Un caos organizzato in modo raffinatissimo, che per la libertà e la fluidità con cui gioca, per la densità estrema in zona palla, ricorda gli esperimenti di ten Hag all’Ajax.

La storia del calcio contemporaneo si può anche leggere come il tentativo degli allenatori di trovare il miglior equilibrio possibile tra ordine e caos, tra controllo tecnico e intensità senza palla. Roger Schmidt ha trascorso la prima parte della sua carriera estremizzando il lato oscuro e caotico del calcio, per poi scoprire che i due termini non sono mai antitetici ma convivono: c’è sempre caos dell’ordine e ordine nel caos.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura