Ci sono personaggi che segnano la storia, seppur con la esse minuscola, indirizzando il corso degli eventi. David Stern appartiene senza dubbio a questa categoria, invero alquanto esclusiva, perché la traiettoria della sua vita ha incrociato il basket e ne ha cambiato per sempre fattezze e destini. E se affermare che l’avvocato newyorkese venuto a mancare ieri pomeriggio - per le conseguenze dell'emorragia cerebrale che lo aveva colpito il 12 Dicembre scorso, mentre cenava in un ristorante - è l’uomo che ha inventato l’NBA è forse un’iperbole, di certo non lo è sostenere che l’impulso e le idee di Stern hanno modellato la lega più famosa al mondo per come la conosciamo oggi.
Breve cronistoria di un successo non annunciato
Quando Stern comincia a lavorare per la NBA la lega ha già 30 anni abbondanti di gare alle spalle, ma è una realtà tutt’altro che di successo. Nel 1978 conta 22 squadre, quattro delle quali annesse dalla concorrente ABA solo due anni prima; in campo ci sono stelle di prima grandezza come Kareem Abdul-Jabbar, Julius Erving e Pete Maravich, ma le arene restano mezze vuote e gli ascolti delle partite, quasi sempre trasmesse in differita a orari indecenti, sono risibili.
A dire la verità le strade del rampante avvocato formatosi alla Columbia University e del suo futuro datore di lavoro si erano già incrociate qualche anno prima quando Stern, in veste di rappresentante dello studio associato Proskauer, Rose, Goetz & Mendelssohn, aveva assistito la lega nella causa legale scatenata dalla denuncia del leggendario Oscar Robertson. La risoluzione della controversia, arrivata giusto qualche mese prima dell’assunzione di Stern da parte dell’allora commissioner Larry O’Brien (sì, quel Larry O’Brien) aprirà le porte a quella che oggi chiamiamo free agency e, in un certo senso, rappresenta la pietra fondante su cui sorgerà l’era del player empowerment trent’anni più tardi.
La massima carica Stern la ottiene l’1 febbraio 1984 succedendo proprio a O’Brien, grazie a due cavalli di battaglia cavalcati durante il quadriennio precedente e che fungeranno da viatico verso i trionfi futuri. Per sua stessa ammissione, Stern eredita una lega che rispetto al momento della sua assunzione può contare su due stelle dal potenziale comunicativo straordinario come Larry Bird e Magic Johnson a cui, di lì a poco, andrà ad aggiungersi una nidiata di talenti eccezionali capeggiati da Michael Jordan.
La top-10 della prima stagione NBA con Stern come commissioner: poteva andare peggio.
Quello che arride al neo-commissioner è un vero colpo di fortuna, ma Stern non si limita ad accogliere la Dea bendata a braccia aperte: le corre incontro. La lega, per poter sfruttare tutto questo materiale umano di inestimabile valore, deve prima risolvere due enormi problemi: credibilità e parità competitiva. La credibilità della NBA è fortemente compromessa dai tanti rumors che circolano a proposito delle abitudini tutt’altro che salutari di molti suoi protagonisti, particolare che spesso viene citato all’interno dello stesso ragionamento in cui si ritiene che la predominanza di giocatori afro-americani sia un limite per la crescita della lega. Stern muove le sue mosse già quando è vice di O’Brien introducendo l’obbligo dei test clinici anti-droga per tutti gli atleti tesserati; poi, una volta salito al comando, segna in via definitiva il territorio con le squalifiche a vita comminate a John Drew e soprattutto a una stella di prima grandezza come Michael Ray Richardson, soprannominato “Sugar” per la sua affinità alla polvere bianca.
L’altra grande questione è quella che riguarda l’alternanza sul podio della NBA, che nei vent’anni precedenti ha visto un dominio quasi assoluto da parte di Celtics e Lakers, dinastie interrotte solo da brevi intermezzi a favore di altre grandi piazze come New York e Philadelphia. Molte squadre faticano, soprattutto quelle travasate dalla morente ABA e posizionate in contesti cittadini di dimensioni più contenute: occorre trovare un modo affinché, almeno in linea teorica, tutti godano delle stesse opportunità di costruire un team vincente attraverso la buona gestione manageriale.
Stern, che forgerà la mistica che lo circonda sulla capacità di scrutare il futuro, questa volta guarda al passato. Il concetto di salary cap non è infatti del tutto nuovo: la NBA l’ha adottato durante la sua prima stagione ufficiale, quella 1946-47, per poi abbandonarlo subito dopo. Il nuovo commissioner lo ripristina, stabilendo il tetto massimo del monte stipendi erogabile da ciascuna franchigia a 3,6 milioni di dollari. Potrebbe bastare quest’ultima cifra, confrontata con quello che è invece il tetto massimo fissato per la stagione attualmente in corso (109 milioni di dollari), per far capire quanto sia lunga la strada percorsa dalla NBA negli ultimi trent’anni.
Eppure l’aspetto più curioso relativo all’introduzione del salary cap è che di fatto, al di là delle mitizzazioni postume e strumentali, non ha prodotto esattamente l’effetto desiderato, generandone però altri del tutto imprevedibili nel lontano 1984. Durante il mandato trentennale di Stern sono otto le squadre ad aver vinto il titolo, un numero davvero esiguo se parametrato a quanto successo nel medesimo periodo nelle altre leghe professionistiche americane dove quindici squadre, nel caso di NFL e NHL, e addirittura diciotto in quello della MLB si sono alternate sulla vetta più alta. (Sono già tre quelle sotto Adam Silver, per quello che vale).
Diretta conseguenza dell’introduzione del salary cap sono invece le discussioni sulla sua entità e, indirettamente, sulla percentuale degli introiti che ogni squadra è tenuta ad accordare ai giocatori. Queste discussioni, con al centro il periodico rinnovo del contratto collettivo tra la lega e l’associazione giocatori, hanno a loro dato luogo ad aspre polemiche convogliate nei due lockout del 1999 e del 2011, forse gli unici veri fallimenti diplomatici della gestione Stern. Non solo: la particolare struttura assunta dal Collective Bargaining Agreement si è trasformata nella premessa necessaria allo sbocciare dell’attuale era del player empowerment di cui, come già sottolineato, la sentenza sul caso Robertson rappresenta la pietra fondante. Ogni singola negoziazione ha infatti visto spostare la leva finanziaria sempre più nelle mani dei giocatori, e si tratta di un risultato quantomeno bizzarro se si considera che ad aver messo in moto questo lungo e inesorabile meccanismo di riequilibrio dei pesi di potere a favore dei giocatori è stato proprio Stern, la cui carriera era iniziata con il tentativo di mettere a tacere il primo tentativo di recriminazione da parte di una stella in canotta e pantaloncini.
La costruzione dell’impero
Un po’ meno foriera di contraddizioni, almeno in apparenza, è la sequela di mosse successive con cui Stern si fa largo nella complessa scacchiera dello sports business. Le idee da mettere in pratica sono molte, ma anche qui le intuizioni chiave sono principalmente due. Il nuovo commissioner capisce prima e più velocemente dei colleghi a capo degli altri sport professionistici che la via verso la crescita passa innanzitutto dal rapporto con i media e dalla capacità di allargare il proprio bacino d’utenza al di fuori degli Stati Uniti.
Nel giro di 15 anni la NBA passa dal dover pagare le emittenti via cavo americane affinché mandino in onda la diretta delle partite all’avere un canale televisivo tutto suo. Stern è il primo a intuire l’importanza di dotarsi di un broadcaster dedicato e gioca d’anticipo nel 1999 con l’avvio di NBA TV, con le altre leghe che seguiranno l’esempio durante i dieci anni successivi. La produzione di contenuti con il proprio marchio apre quindi la strada alla transizione verso il digitale e l’era dei social network dove, anche in questo caso, la NBA arriva con largo anticipo rispetto ai concorrenti guadagnandosi così un’ulteriore fetta di mercato e facilitando il ricambio generazionale della propria fanbase.
Allo stesso tempo Stern comprende che per quanto ampio sia il margine di recupero della redditività sul mercato interno, non è nulla in confronto al potenziale che si trova fuori dai confini statunitensi. Mentre attraverso il Draft arrivano Olajuwon, Schrempf, Petrovic e Sabonis, la lega apre uffici in tutta Europa, a Johannesburg e ad Honk Kong. Il McDonald’s Open, primo tentativo di confronto tra squadre delle due sponde nell’oceano, nasce nel 1987 e pianta il seme di ciò che diventeranno i Global Games, vere e proprie gare di regular season giocate nel vecchio continente, oltre che in Messico e Giappone.
La svolta è ovviamente simboleggiata dalle Olimpiadi di Barcellona 1992 e il Dream Team rappresenta anche la quintessenza del pragmatismo che contraddistingue la gestione Stern. L’idea di far partecipare le stelle della NBA ai giochi olimpici non è del commissioner, che senza troppe remore si appropria dell’intuizione del segretario generale della FIBA Borislav Stankovic e la mette in pratica. Quello del Dream Team è un balzo evolutivo senza precedenti nella storia del basket mondiale, un evento che posiziona la NBA al centro del mondo della palla a spicchi, un posto che la lega capitanata da David Stern non abbandonerà più.
L’annuncio che cambierà la vita di Stern e il futuro della NBA (il protagonista è assente giustificato).
Da lì in poi si registra una crescita portentosa e costante, con Jordan (e Nike) come ambasciatori globali e la continuità successiva garantita da campioni come O’Neal, Duncan e Bryant, Nowitzki e Yao Ming. L’NBA degli anni ‘90 e 2000 assomiglia all’Impero Britannico dopo la rivoluzione industriale: si espande ovunque e ovunque accresce il proprio ruolo di modello a cui aspirare fagocitando tutto ciò che trova sulla sua strada. La riprova, in tutti i sensi, dell’enorme peso acquisito dalla NBA a livello internazionale si è avuta recentemente dopo il caos scatenato dal tweet di Daryl Morey e dalla conseguente crisi diplomatica con la Cina.
In questa fase di “espansione coloniale” la NBA passa da 23 a 30 squadre e il suo giro d’affari passa dai 165 milioni di dollari del 1984 ai 5,5 miliardi del 2014, l’ultimo con Stern al timone.
Non tutto fila liscio, però, o almeno non tutti si sentono coinvolti e felici della trasformazione messa in atto. Parafrasando il claim di The Social Network, film a firma David Fincher su un altro personaggio che ha segnato la nostra epoca come Mark Zuckerberg, «non arrivi a 500 milioni di amici senza farti un po’ di nemici». Si potrebbe asserire allo stesso modo che non arrivi a guidare per trent’anni una macchina che produce miliardi di dollari senza avere qualche scheletro nell’armadio.
Ipotesi di complotto
La contro-narrazione dell’avventura di David Stern alla guida della NBA, quella che lo tratteggia come geniale burattinaio e leader supremo disegnandone un profilo che sembra uscito dalla penna di John Le Carrè, è persino più densa e variopinta di quella ufficiale.
La lista dei complotti che avrebbe ideato e delle scorrettezze che Stern avrebbe commesso è lunga e va dalla truffa operata al Draft del 1985 con lo scopo di indirizzare la prima scelta Patrick Ewing ai New York Knicks, mercato di prima importanza per la lega, fino al veto imposto alla trade che avrebbe portato Chris Paul ai Los Angeles Lakers nell’autunno 2011. In mezzo ci sono colpi da autentico caudillo come l’imposizione di un dress code stingente avvenuta nel 2005 con l’intento di arginare la contaminazione tra i giocatori, simboleggiati da Allen Iverson, e la cultura hip-hop. È una decisione controversa e suscita reazioni stizzite da parte della comunità afro-americana a cui Stern risponde sciorinando l’impegno teso all’inclusività, che va dalle politiche occupazionali alla creazione di progetti come Basketball Without Borders. Oppure ancora ci sono i comportamenti poco ortodossi tenuti durante le negoziazioni dei due lockout già citati e quello luciferino avuto nelle ricollocazioni delle squadre che negli anni hanno lasciato Vancouver, Charlotte e soprattutto a Seattle, dove la notizia della fine del suo mandato è stata festeggiata come parziale rivincita del furto ai danni dei Sonics.
La storia vera o presunta della busta gelata che ha regalato Patrick Ewing ai Knicks.
Di certo c’è che nell’interpretazione del suo mandato Stern ha sempre mantenuto una tendenza all’interventismo, cercando di mettere il becco in qualsiasi decisione o di orientare le scelte altrui sempre seguendo un disegno che avesse come fine ultimo il bene della lega o, secondo i più critici, quantomeno quello dei trenta proprietari delle franchigie.
Questo ha significato spesso sporcarsi le mani, evenienza peraltro esplicitata in uno dei momenti più memorabili e allo stesso tempo imbarazzanti del suo mandato. Stern, noto control freak ossessionato dal padroneggiare ogni aspetto comunicativo e dal trasmettere al mondo esterno un’immagine di sé sempre misurata e in pieno dominio emozionale, al permanere della fase di stallo durante le negoziazioni per l’ultimo rinnovo del CBA sconvolgeva le cronache con l’affermazione, altresì velata minaccia rivolta alla controparte, di «sapere dove sono sepolti i cadaveri della NBA». Le macchinazioni dei tanti detrattori lo vorrebbero architetto di complotti degni di una spy story in piena regola e questa uscita, non si sa quanto volontaria, lo colloca addirittura nei panni di un uno dei tanti gangster o aspiranti tali portati sul grande schermo da Scorsese o De Palma.
L’episodio più misterioso della sua ipotetica carriera da grande manipolatore rimane il supposto colloquio con cui avrebbe convinto Michael Jordan al ritiro nell’estate del 1993. Spaventato dall’enorme popolarità di Jordan, ormai diventato più grande della NBA stessa, e forse preoccupato dai possibili scandali collegati ai vizi di gioco che il campione dei Bulls coltivava senza troppa ritrosia, Stern avrebbe giocato le sue carte convincendo Jordan ad allontanarsi dalle scene, almeno momentaneamente. Di tutte le presunte imprese della versione villain di Stern questa rimane la più affascinante e nulla vieta di sperare che prima o poi qualche autore coraggioso la trasformi, anche in forma anonima, nella storia di un avvocato ebreo newyorkese chiuso in una stanza di un sotterraneo di Las Vegas che negozia, ovviamente alla pari, con lo sportivo più famoso al mondo.
Per ora ci si può accontentare dei tanti aneddoti raccolti da testimoni oculari nel corso degli anni e che variano da pizze scagliate verso il commissioner come bersaglio a trucchi da esperto giocatore di poker sciorinati a favore di telecamera.
Il gioco prevarrà
Al di là delle ricostruzioni a volte un po’ troppo fantasiose, secondo molti il lato oscuro dell’operato di Stern si estende anche alle scelte strategiche che col tempo hanno trasformato la NBA in una realtà per certi versi simile ai grandi colossi finanziari, i cui tentacoli si allungano talmente oltre il terreno di competenza, ovvero la competizione sportiva, da renderla troppo grande per fallire o per cambiare, forse anche per concedere respiro ad altri concorrenti.
Per raggiungere i propri obiettivi la NBA avrebbe vampirizzato il gioco in tutti e cinque i continenti, svuotando di significato le competizioni che non agiscono sotto l’egida con la sagoma di Jerry West nel logo. Si tratta di accuse non certo prive di fondamento, così come di processi ormai storicizzati attorno a cui occorrerebbe costruire ragionamenti profondi e che esulino dalla ricerca di una causa unica e soprattutto di un colpevole da additare. Perché Stern non è stato né un eroe né un tiranno e il peggior torto che si può fare alla sua memoria sta proprio nel dipingerlo come un personaggio mono-dimensionale, banalizzando una personalità complessa e molto spesso sibillina.
L’intervista più recente a uno Stern tutt’altro che rassegnato alla pensione.
Come per chiunque si sia arrampicato verso la vetta della scala sociale e poi abbia gestito un potere così grande per un periodo di tempo così lungo, la sua storia è e resterà una storia di luci, molte delle quali giustamente riflesse nei tanti profili postumi usciti in questi giorni, e ombre, sulle quali sarebbe giusto e doveroso indagare e riflettere con il giusto distacco consentito dalla distanza temporale ed emotiva. Partendo magari dall’assunto che tutto quello che ha portato a termine non è ascrivibile al merito di un solo uomo, seppur fuori dalla norma per intelligenza e ambizione, ma è bensì frutto anche di coincidenze fortunate e di una serie di persone, istituzioni e realtà di varia natura che hanno lavorato con lui e per lui. Non solo: tenendo sempre presente come lo spazio che Stern e la NBA si sono presi in tutti questi decenni è pur sempre uno spazio altrimenti lasciato vuoto dall’incompetenza o dal disinteresse di altri.
Infine, provando a tenersi lontano dagli stereotipi e dalle agiografie posticce, se si vuole cercare l’eredità che Stern lascia oggi alla NBA la si può forse trovare in alcuni aspetti solo in apparenza marginali. Innanzitutto nella lucidità di pensiero e nella predisposizione a innovare che l’hanno portato a far emergere un successore come Adam Silver, apparentemente in aperta antitesi quanto a visione e attitudine eppure ritenuto candidato ideale a guidare la lega verso un futuro ancor più prospero. Il passaggio di consegne, avvenuto senza strappi e in apparente continuità, è forse il vero capolavoro della sua gestione.
Ma l’eredità di Stern si ritrova anche nella convinzione di dover sempre provare a migliorare il proprio prodotto, lezione che Silver ha metabolizzato e ora mette in pratica parlando apertamente di cambiamenti da apportare alla formula della regular season pur con la lega al picco del volume d’affari prodotto. Mai sedersi sul proprio successo insomma, e questo atteggiamento si accompagna ad un altro mantra che Stern ha sempre ripetuto anche nei passaggi più tortuosi attraversati dalla NBA negli ultimi decenni: «the game will win out», il gioco prevarrà. Una fiducia incrollabile nel gioco della pallacanestro, nella sua intrinseca bellezza e nell’inevitabile crescita di popolarità a cui sarebbe andato incontro.
E la fiducia riposta nel gioco è stata ampiamente ricambiata, perché almeno questo si può dire senza timore di obiezioni o smentite: David Stern ha lasciato la pallacanestro in un posto migliore rispetto a dove l’aveva trovata.