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Davide Calabria ha resistito
19 apr 2023
Una grande prestazione difensiva individuale ma anche una grande prova di squadra.
(articolo)
10 min
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IMAGO / NurPhoto
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Se, riprendendo la similitudine coniata da Rory Smith, Kvaratskhelia assomiglia a uno studente di Scienze Politiche, Davide Calabria a cosa assomiglia? La risposta è molto semplice: a uno studente di Giurisprudenza. Non ce lo vedete con il maglione a collo alto sotto la giacca blu, i pantaloni appena stirati con la piega perfetta, che arriva in facoltà con la 500 bianca appena regalata dal padre?

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Chi ha frequentato queste due facoltà sa che tra loro esiste una sottile rivalità. Gli studenti di Giurisprudenza pensano che Scienze Politiche sia una sorta di versione semplificata della propria facoltà, che i suoi studenti siano dei sognatori perditempo e studino materie senza alcuna applicazione reale. Gli studenti di Scienze Politiche che quelli di Giurisprudenza siano degli snob un po’ ottusi, “pariolini” si dice a Roma, figli di papà costretti alla noia per arrivare allo studio legale di famiglia. Anche i miei professori, a Scienze Politiche, rinforzavano questi stereotipi e durante le lezioni mi dicevano “di non fare come quelli di Giurisprudenza”, cioè di studiare a memoria e di rispondere a ogni domanda come un test a crocette vero o falso. E un po’ avevano ragione, o almeno noi lo credevamo, perché in fondo ogni stereotipo contiene un fondo di verità, e immagino che anche gli studenti di Giurisprudenza pensassero lo stesso. Oltre alla grande vittoria del Milan, al dramma del Napoli, allo spettacolo della Champions League, ieri sera abbiamo anche assistito a ciò che chi ha frequentato queste due facoltà sotto sotto ha sognato da una vita, e cioè la sfida in carne e ossa tra la rappresentazione di uno studente di Scienze Politiche e quella di uno di Giurisprudenza.

Da una parte Kvicha Kvaratskhelia, l’ala georgiana che ha terrorizzato il campionato con l’aura da “eroe ferito” e la barba sfatta. I suoi dribbling frutto di un’ispirazione sempre nuova, lui stesso che dice che «non sono cose che si imparano guardando video o in allenamento». Il talento di Kvaratskhelia è tale che gli basta minacciare il dribbling per spostare “il centro di gravità dell’azione da una zona innocua a una pericolosa”, come ha scritto Emanuele Atturo. La personificazione nuova di un talento antico, del mitico George Best.

Dall’altra parte Davide Calabria. Il sorriso luminoso e vuoto al tempo stesso, la mascella definita, il cesto di capelli ricci sulla testa che sembra annunciare la loro perdita. L’unico giocatore sopravvissuto alla Banter Era del Milan, che è salito di livello con la semplice applicazione, studiando come un matto ciò che difensori più talentuosi di lui avevano da insegnargli. Calabria che utilizza l’unico giorno libero per andare al cinema a vedere Creed in maniera non ironica, che come tutti i bambini nati tra la metà degli ’80 e la metà degli anni ’90 è un fan sfegatato di Dragon Ball. Calabria che ha assorbito l’etica working-class dal lavoro usurante del padre, che faceva il muratore e che gli ha insegnato il motto: “impegnati e sta’ zitto”. Calabria rappresentazione della piccola borghesia italiana nata e cresciuta all’ombra del campanile, che non ha mai abbandonato il sogno di giocare per la propria squadra del cuore. Calabria cui vengono rivolte domande come: cosa diresti al piccolo Davide che sognava di giocare col Milan? Calabria che restituisce risposte come: lavorare, lavorare tanto e lasciare stare tutto il resto.

Calabria è uno che si applica e si vede, insomma. Il corpo perfettamente in posizione in uno contro uno, i passetti sul posto che annunciano uno scatto in profondità. Gli occhi fissi sul pallone, lo sguardo intenso e concentrato come un crocodile dundee che nella giungla è pronto a catturare un serpente afferrandolo per il collo.

Ieri abbiamo visto questa scena decine di volte. Il Napoli che fa circolare il pallone alla velocità della luce da sinistra a destra, e poi da destra a sinistra, con l’unico scopo di arrivare lì, ai piedi di Kvarakstkhelia. A quel punto la scena va in pausa, cosa letteralmente vera almeno per i giocatori del Napoli, che aspettano che il proprio demiurgo crei qualcosa. L’ala georgiana inizia a tocchicchiare il pallone con la punta del piede destro, finta alcuni movimenti, insinua il dubbio su dove andrà, mentre sempre più giocatori del Milan intorno a lui si addensano per controllare ogni movimento inconsulto di questo animale esotico e pericoloso. E il primo argine è sempre lui, Davide Calabria.

L’apice della sua sfida con il numero 77 del Napoli arriva negli ultimi secondi del primo tempo. Calabria concede tutto il suo fianco destro con il corpo rivolto verso la porta, si vede che ha studiato. Non vuole permettere a Kvaratskhelia di rientrare sul destro, almeno fino a quando non arriverà un raddoppio, mentre con i piedi che scoppiettano fa vedere di essere già pronto per correre verso la propria porta. Kvaratskhelia fa esattamente ciò che lui vuole: butta la palla verso il lato lasciato scoperto, prova a mettersi tra l’avversario e la palla, ma Calabria è troppo veloce. Resiste alla prima carica spostando l’avversario con la spalla, poi quando ormai sembra battuto entra in scivolata con una certa dose di coraggio e con la punta del destro mette la palla in calcio d’angolo. Quando si rialza non è lui a esultare ma i compagni ad abbracciarlo. Maignan gli dà una carezza sulla nuca che sembra dirgli: hai visto che con noi ci puoi giocare?

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La prestazione di Calabria ieri sera è stato un monumento all’abnegazione difensiva. Ha vinto 8 contrasti su 14 (quasi il triplo del secondo della partita per contrasti riusciti, Rade Krunic, che ne ha vinti 3), realizzato 6 intercetti e 6 spazzate. Più e più volte ieri sera col passare dei minuti l’abbiamo visto porsi di fronte al suo terribile avversario, un soldato semplice di Troia di fronte alla furia di Achille per la morte di Patroclo. Vederlo affrontare la bestia era affascinante come tutte le grandi fatiche umane di fronte a un pericolo ineffabile, come capitan Achab con Moby Dick. E ogni volta che Kvaratskhelia prendeva palla per puntare l'avversario finiva per infrangersi sullo scoglio eretto da Davide Calabria.

Quasi ogni volta, in realtà. Sarebbe fuorviante illudersi di fronte alla sua prestazione pensando che il sacrificio possa sovrastare, anche solo per una sera, il talento. Certo, sarebbe bello per noi mediocri scribacchini costretti a passare il proprio tempo a pigiare i tasti di questo maledetto computer vedersi riflessi nella sua partita, illuderci che un giorno tutti questi sacrifici porteranno davvero a qualcosa che non sia la lenta consunzione fisica e mentale. D’altra parte, immagino che sia per questo che almeno una parte del tifo milanista lo apprezzi, nonostante sia uno dei capitani meno talentuosi della storia del Milan. Calabria ci illude che possiamo farcela anche se non siamo nulla di che. In realtà, però, se alla fine Calabria ce l'ha fatta non è per il suo sacrificio, o almeno non solo, quanto per il fatto che non era veramente solo. O meglio: non lo era quasi mai.

Il Milan è sceso in campo con idee semplici ma molto chiare. Ha abbassato il baricentro fin da subito per negare la profondità ad Osimhen, come ha ammesso lo stesso Pioli dopo la partita, e ha schermato il centro per mandare il Napoli sugli esterni, in particolare a sinistra, cioè esattamente dove voleva andare. Soprattutto nel secondo tempo, poi, quando la palla arrivava sui piedi di Kvarakstkhelia scattava il raddoppio. Brahim Diaz da quel lato o più spesso Krunic coprivano all’ala georgiana la traccia di corsa verso il centro della trequarti o verso l'area, mentre Calabria era pronto a scattare in profondità. In questo modo il capitano del Milan non ha sofferto il dubbio dentro al quale cadono quasi tutti i difensori che affrontano Kvarakstkhelia: la via verso l’area di rigore era già chiusa da un compagno e lui poteva aspettare che il suo avversario si portasse la palla sul sinistro. L’importanza dello spirito di squadra sulla tenuta difensiva del Milan è stata chiara dopo pochi secondi di partita, in una delle pochissime volte, cioè, in cui Calabria è stato sorpreso fuori posizione.

Dopo una lenta circolazione bassa in difesa, Kjaer ha provato immediatamente a lanciare lungo verso Giroud, che era venuto incontro nel cerchio di centrocampo. L’attaccante francese ha cercato di appoggiare una palla facile (per lui) a Brahim Diaz, venuto in aiuto, ma si è calciato sul ginocchio recapitando inavvertitamente il pallone proprio a Kvarakstkhelia. Nel momento di questa sbavatura Calabria era l’uomo più avanzato del Milan, alto e largo a destra. L’ala georgiana ha cercato immediatamente di sfruttare il momento. Ha puntato Krunic, superandolo con un tunnel di esterno, ma quando ha provato a entrare in area si è ritrovato di fronte altri due uomini (Bennacer e Brahim Diaz), mentre altri tre lo inseguivano da dietro. Alla fine è dovuto tornare sui suoi passi.

La prestazione difensiva di Calabria, in effetti, è stata vigorosa ma non perfetta, e forse l’avrete già capito dal dato sui contrasti vinti (poco più della metà di quelli tentati). Nonostante il raddoppio continuo della difesa del Milan, la furia e il talento di Kvarakstkhelia è stato tale da passare anche attraverso i corpi, creando le due occasioni più nitide per il Napoli al di là del gol. La prima al 46esimo, quando l’ala georgiana lo ha portato fin dentro la sua area di rigore per rientrare col sinistro pochi centimetri prima della linea di fondo (tirando però poi alto sulla traversa). La seconda al 57esimo, un doppio tocco esterno-interno che gli ha permesso di passare nello spiraglio minuscolo lasciato da Calabria e Krunic, ma ancora una volta non di centrare lo specchio della porta. Per il resto del tempo, però, il sistema difensivo del Milan sull’esterno destro ha reso inoffensivo il suo avversario più pericoloso, costringendolo a tornare indietro o addirittura a cambiare gioco sull’altra fascia. Mentre il Napoli attendeva che il suo Messia col numero 77 risorgesse un'altra volta, il Milan si organizzava per chiudere il sepolcro.

Il raddoppio pensato da Pioli sull’esterno destro ci parla molto del timore che incute ormai Kvarakstkhelia negli avversari, della sua forza, ma anche della sua testardaggine nel provare a sfondare a spallate una porta chiusa, e dell’incapacità del Napoli di andare oltre i propri giocatori migliori. Oggi - fuori dalla concitazione, dalla paura, dalle aspettative - è troppo facile chiedersi perché Spalletti non abbia provato qualcosa di diverso per smontare questo raddoppio, magari una sovrapposizione esterna da parte del terzino, che invece come al solito è rimasto ancorato nel mezzo spazio, o una interna della mezzala su quel lato. Quel che è certo è che il Milan ha dimostrato di sapere esattamente a che tipo di partita sarebbe andato incontro mentre il Napoli non ha avuto la raffinatezza o il coraggio di sorprendere l’avversario, e ha pensato che sarebbe bastato caricare a testa bassa per buttare giù il muro rossonero. Con arieti come Kvarakstkhelia e Osimhen d'altra parte è fin troppo facile pensarlo, ma proprio per questo alla fine a Pioli è bastata un’idea altrettanto semplice per smentirlo, e cioè che il calcio rimane un gioco di squadra. Per portarla in campo, però, aveva bisogno di qualcuno che la studiasse con l’inflessibilità dello studente di Giurisprudenza, e quel qualcuno non poteva che essere Davide Calabria.

Si dice spesso che il capitano è il giocatore più rappresentativo di una squadra, ma non è facile capire cosa rappresenti Calabria, con la sua faccia così comune, per il Milan. Di certo non la sprezzatura con cui surfa sull’onda del talento di Leao per arrivare in porta, o la forza fisica inarrestabile con cui risale il campo attraverso le cavalcate di Theo Hernandez. Non l’intelligenza del suo calciomercato, che l’ha portata alle mani di Maignan, o il carisma con cui affronta le partite più importanti, che poggia saldamente sulle spalle di Kjaer. Calabria non rappresenta nessuna delle caratteristiche più appariscenti di questa squadra ma in fondo ne esprime effettivamente la sua essenza. Una fede incrollabile e cieca nella forza della propria squadra.

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