Il momento preciso in cui per il Boca Juniors si è chiusa un’epoca, in anticipo di una quarantina di giorni sulle elezioni presidenziali che ne avrebbero sancito l’inevitabilità con l’avvicendamento tra Daniel Angelici e Jorge Amor Ameal, è stato quello in cui Wilton Sampaio, la sera del 22 ottobre 2019, ha fischiato per tre volte: nonostante la vittoria per 1-0 gli xenéizes non erano riusciti a ribaltare la sconfitta per 2-0 del Monumental, spalancando le porte della finale di Libertadores ai rivali eterni del River Plate.
In quegli ultimi novanta minuti, però, in cui né il piano gara poco organizzato di Alfaro né la mistica de La Bombonera erano riuscite a sospingere i bosteros verso il miracoloso sorpasso, si è consumata anche una piccola tragedia intima, minore: Daniele De Rossi non era riuscito a realizzare il sogno non tanto di essere decisivo in un Superclásico alla Bombonera, ma quantomeno di giocarlo. Alfaro lo ha tenuto malinconicamente in panchina per tutto il tempo: DDR ha incitato i compagni, dato suggerimenti, giocato il ruolo del tifoso. La sua Libertadores si chiudeva con un bottino misero di 10’ in campo, contro la LDU Quito. E forse, in quell’istante, anche la stessa permanenza al Boca ha perso un po’ di significato.
Foto di Marcelo Endelli/Getty Images
Quella di De Rossi al Boca Juniors è stata la storia di una parentesi, breve e per certi versi triste, ma di una tristezza malinconica come solo certi tramonti ocra di Roma, o certi tango che si suonano in milonghe di provincia. Il connubio tra una sigla e una maglia accomunate dall’iconicità, DDR e Boca, Boca e DDR, che ci hanno mandato il cervello in cortocircuito per l’impensabilità, prima, e l’inevitabilità che quel connubio si realizzasse, poi, invece, per tutto il tempo hanno tenuto a distanza il brutto, lo sporco. Anche il momento dell’addio è riuscito a conservare una signorilità porteña, la virilità di un saluto tra gauchos.
DDR al Boca è stata, finché è durata, un’autostrada narrativa edificante: magari non messianica, ma soprattutto al principio salvifica, ecco, sì. Ed è stata, prima di tutto e nella sua sostanza più profonda e primitiva, un enorme esperimento di storytelling.
«Chissà che il Boca non abbia comprato, più che un futuro idolo, un concetto romantico», scriveva Maria Zucchi sul Clarín al suo arrivo: un’intuizione che coglieva il punto, ma che in nessun modo, per come la vedo io, ha mai macchiato né indorato la pillola delle pagine di questo moderno poema gauchesco, di questo Martin Fierro de noantri che è stata la storia della permanenza di De Rossi nella capitale bonaerense.
Per capire la portata reale di quest’epifania - di questo che per dimensioni e dinamiche ha subito preso le fattezze del fenomeno - bisognerebbe saper scindere, separare il cuore dalla ragione, il desiderio dalla pianificazione, il sogno a occhi aperti di ogni ragazzino che poi diventa un atleta professionista dal lavoro quotidiano di una delle più gloriose società sportive del continente latinamericano. Sarebbe errato, e ingenuo, pensare che la parentesi di DDR alla Bombonera non sia stata una summa piuttosto riuscita di ognuna delle sfaccettature che ho elencato, il crocevia di successo di due visioni convergenti.
Che De Rossi, per sé, fosse alla ricerca di un nuovo scampolo di vita, di un’avventura che gratificasse un’ambizione che definirei più coerente che incoscente - appendice dopotutto piuttosto lineare, dopo diciotto anni di militanza nella squadra della quale era tifoso - non fosse altro che per contrastare la delusione di una storia d’amore finita non male, ma con sfumature agrodolci, è abbastanza palese. Che tutto ciò che sarebbe accaduto dopo avrebbe concorso a renderla così amaramente fallimentare lo era un po’ meno. Con questo non voglio dire che scegliere di abbandonare l’Europa, e il calcio che là si gioca, abbandonando la propria zona di comfort, farlo trasvolando l’Oceano Atlantico nel giorno del suo compleanno, come a volersi regalare una nuova nascita, sia stata una mossa paracula, o appunto romantica. Penso, piuttosto, che sia stata puntuale.
Quando De Rossi è arrivato in Argentina, il Boca era una squadra la cui identità era stata ferita, e l’autostima frantumata in mille pezzi, dopo il mese di dicembre più segnante della sua storia, dopo la Finale Infinita della Libertadores 2018, persa di fronte ai rivali di sempre del River. Una squadra che in un semestre aveva perso i suoi uomini più iconici, i suoi giovani più promettenti, che sentiva il dovere morale di essere ricostruita dalle fondamenta. E al barrio de La Boca, le fondamenta, sono sempre state radici identitarie forgiate nel carisma. L’arrivo di De Rossi all’aeroporto di Ezeiza è stato, in prima istanza e con la maggiore enfasi che gli si può dare, il trionfo dell’idea romantica del calcio, della passione che trascende la logica, e che accende la fantasia. Ma è anche stato l’ultimo tassello, più realisticamente, e nondimeno il più importante, di una strategia di mercato precisa, lucida.
Burdisso, che era entrato a far parte del corpo tecnico come direttore sportivo proprio dopo lo spartiacque storico della finale di Madrid, ha concluso l'affare De Rossi dopo i tesseramenti di Jan Hurtado, uno dei giovani più promettenti della Superliga, e del “Toto” Salvio, il figliol prodigo che tornava in patria per aiutare nel processo di ricostruzione: un mercato condotto dal Boca proprio come fosse una narrazione. Una narrazione che sussurrava «stiamo mettendo assieme tutti i pezzi, di nuovo». E aggiungeva, anche: «perché questo è il Boca». Una narrazione che era anche l’unica con la quale Angelici poteva sperare di conquistare consensi, specie da quando aveva preso a prendere corpo l’ipotesi che in campo, ad appoggiare il candidato Amor Ameal alle presidenziali di dicembre, stesse per scendere l’idolo assoluto della Doce, Juan Román Riquelme.
De Rossi è stato, finché è durata ma soprattutto all’alba della sua esperienza bonaerense, un simbolo polisemico: campione del Mondo che sceglieva la Superliga, ma soprattutto Tano (cioè "italiano") che ripercorreva i passi dei suoi avi. «Ci ha scelti», dice a un certo punto il video - ingenuo ed eloquente allo stesso tempo - con cui Angelici, durante la conferenza stampa di presentazione, lo ha voluto introdurre «perché siamo un club serio». Ma poi anche «perché è un bostero, come i nostri genitori». De Rossi, in questo senso, è stato davvero uno che in Argentina è andato a coltivare un sogno, il germoglio di una vita che poteva essere - che immaginava, e che forse è stato, per questi sei mesi - diversa. Un legame con il passato, che non lasciava indifferente neppure l’allora Presidente della Repubblica Macrì.
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De Rossi era anche il tipo di calciatore, nel presente, che nessuno avrebbe faticato a riconoscere pervaso dal genius loci xenéize. Innanzitutto pieno di rabbia, una rabbia selvaggia e primordiale, da simbolo che per amore dei simboli si fa feticcio; uno che si presenta al Pedro Pompilio, il centro d’allenamento del Boca, anche quando il resto della squadra ha il giorno libero, e che quando scende in campo, anche se in allenamento, ci mette tutto se stesso. Un umile alla scoperta di un mondo in cui ci sia meno show e più calcio (come dice nell’intervista in cui, sottotitolando, c’è chi ha pensato di tradurre «meno yo e più calcio», che non sarebbe neppure sbagliato), un hincha (cioè un tifoso) che non solo gioca per, ma ama il Boca, sinestesia di Buenos Aires, dell’Argentina, della cultura che la permea: che passeggia per Caminito, che cena a Palermo, che fa acquisti al mercato di San Telmo e compra un mate da sorseggiare in tribuna, senza per questo voler passare da turista. Che non vuole creare scalpore, che non vuole incontrare nessuno ma finisce per scattarsi una foto al giorno con i tifosi, e che se proprio deve fare un’eccezione che sia per Diego, il benedicente Diego, per il quale «che tu indossi la maglia del Boca è come San Gennaro che liquefa il sangue».
Ma DDR, al Boca, è arrivato anche con la convinzione, e cavalcando la speranza, che potesse essere, ancora, un giocatore capace di fare la differenza. Al di là degli entusiasmi facili, del gol all’esordio in una partita che sembrava perfetta per celebrare la prima apparizione del numero 16 e che è finita per esserlo ancora più profondamente di quanto potessimo immaginare, perché è finita in sconfitta, una sconfitta che ha trasportato al di là dell’Oceano un po’ del suo tragicismo decadente (come si dirà "mai na gioia", in lunfardo, quella specie di mix tra italiano e spagnolo che si parla nelle città che si affacciano sul Rio de la Plata?), DDR nelle prime settimane ha imposto una gerarchia alla squadra del “Lechuga” Alfaro.
Il DT gli ha cucito attorno un 4-2-3-1 quasi ad hoc, che non aveva mai utilizzato al Boca prima del suo arrivo. E per fare il cinco DDR è sempre stato tagliato: i suoi compiti non si sono mai limitati alla fase difensiva. Come Nández (di cui, in un certo senso, ha costituito la controparte emotiva, più che tecnica) DDR si è preso la responsabilità di impostare, di scendere tra i centrali difensivi in salida lavolpiana, dettando i movimenti ai compagni, lanciandoli in profondità. La Doce non si infiammava solo quando il tatuaggio del polpaccio si è fatto tridimensionale (cioè spesso, fin dall'esordio), ma anche quando giocava a un tocco, dava respiro all’azione, faceva circolare il pallone. Ok, certo, anche quando ci metteva tutta la sua irruenza.
Quando, cioè, faceva quello che ci si aspetta faccia un calciatore che, come dicono in Argentina, tiene jerarqía e huevos. E non è un caso che, nelle partite in cui non è sceso in campo, il Boca abbia faticato a impostare, a uscire dalla difesa con calma, con i tempi giusti.
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E poi? Poi sono arrivati gli infortuni. Le incomprensioni con Alfaro, che lo ha spesso mandato in tribuna, o tenuto in panchina. Le assenze prolungate, che facevano male al Boca soprattutto perché il Boca, di fronte al timore del mese terribile in cui avrebbe dovuto affrontare il River iperorganizzato di Gallardo per tre volte, diventava minuscolo. Le assenze di fronte alle quali i tifosi si sono divisi, tra chi non vedeva in Daniele un giocatore che potesse apportare competitività e chi invece, in DDR, leggeva la filigrana del simbolo, del feticcio totemico, positivo a prescindere per una squadra priva, prima che di leader tecnici, di carisma. Uno che sapesse comunicare lo spirito bostero.
D'altra parte, all'inizio tutti si aspettavano che Daniele De Rossi con il suo calcio avrebbe parlato una specie di declinazione moderna del cocoliche futbolero. Il cocoliche è un pidgin, cioè un codice comunicativo condiviso, meticcio, che nasce dalla necessità di capirsi e che trova la sua realizzazione a partire dalla perpetuazione di una speranza, o promessa, di mutua intelligibilità basata, soprattutto, su una vicinanza: genetica, culturale, coatta, forzata. I pidgin non sono lingue, non ne hanno la sofisticatezza necessaria: sono accozzaglie linguistiche composte da termini base, scimmiottamenti, seguono una logica tutta loro. Il cocoliche, in particolare, è stato il pidgin utilizzato dai primi italiani emigrati in Argentina, ed è stato, in primis, una forma di sopravvivenza: poi uno strumento di umorismo, di sberleffo. Il termine stesso è la storpiatura del cognome di un emigrato, Cucolicchio.
Che non fosse del tutto così, invece, s’è cominciato a capire dalla prima vera intervista che DDR ha rilasciato da quando è arrivato al Boca: da un’intervista così profondamente argentina, piena di s finali elise, di vos, di yeismi, si capiva già che De Rossi non era un Cucolicchio, ma uno di loro. E, nella fattispecie, un bostero.
Uno che nelle sue chat di Whatsapp usa l’avatar di Riquelme, preoccupato e allo stesso tempo rassicurato della sicurezza interna, consapevole del suo ruolo di testimonial nel mondo del livello della Superliga, e di elemento innovativo proprio perché profondamente tradizionale - come il passaggio in cui dice di sapere benissimo cosa può apportare: pause e velocità di pensiero.
Fiero di sentirsi chiamare Tano eppure, controcorrente, controintuitivamente, in un contesto in cui ogni cittadino della Repubblica de La Boca aveva il sangue agli occhi, estremamente lucido nella valutazione del peso specifico dei Superclásicos, specialmente quelli di Libertadores: una sfida per cui tutti si fermano, anche in Europa, quindi sufficientemente iperbolico, e allo stesso tempo, però, realista, pragmatico, capace di smorzare i toni, di non infuocare la tensione dell’attesa. Quanto deve avergli fatto male, non giocarli?
A La Boca, per un certo periodo, c’è stato bisogno di una mistica sulla quale impiantare, come si fa con certe piante che sono quasi morte, ma possono tornare rigogliose anche solo con una talea, una storia che potesse farsi fenomeno, e poi epica, pret-à-porter. Quella storia per un momento è stato Daniele De Rossi, l’integerrimo, ecumenicamente benvoluto, perfettissimo Daniele De Rossi, o se preferite, più semplicemente, “el Tano”.
Uno che è riuscito a rendere intrisa di spirito boquense anche la conferenza stampa d’addio. Ferma, ma commossa. Piena di un sentimentalismo macho, e di un’eleganza misurata. Ricca di ringraziamenti per Angelici, e senza nessuna acredine per la nuova dirigenza. Perché davvero, forse, nell’addio di DDR che è anche, ma su questo faccio più fatica a concentrarmi ora, un addio al calcio giocato, non c’è nessuna manovra politica, nessuna plausibilissima mossa di avvicendamenti societari, ma la semplice volontà di tornare ad abbracciare una famiglia che lo aspetta dall’altra parte dell’Oceano. Con la consapevolezza che lì, a Baires, rimarrà per sempre una fetta del quartiere de La Boca, l’altra famiglia, nella quale lo ricorderanno per ciò che è stato. Una narrazione breve, ma perfetta in ogni suo aspetto, coerente e allo stesso tempo imbevuta di locura. Come un racconto di Bioy Casares, come un'esperienza imperfetta, e per questo unica e forse irripetibile di questi tempi.
Oggi, che non è più ufficialmente neppure un giocatore, Daniele De Rossi, nelle nostre teste, è questo. E non mi sembra per niente poco.