Tra le tante critiche che si possono muovere a DeMarcus Cousins, risulta impossibile addebitargli la carenza di personalità o la tendenza a rimanere dentro ai confini di ciò che è ordinario, a volte banale. Nel bene e nel male, tutto ciò che “Boogie” (soprannome apprezzato il giusto) ha combinato durante la sua esistenza si contraddistingue per un tratto distintivo che lo differenzia da compagni e avversari.
In questo senso, il recente infortunio non si discosta dal canovaccio seguito fin qui e definito da una innegabile forza drammatica controbilanciata dalla costante, grottesca tendenza al masochismo. Il lato drammatico sta nel fatto che la rottura del legamento crociato anteriore - il terzo infortunio alla gamba sinistra nel giro di un anno e mezzo dopo la rottura del tendine d’Achille e lo strappo al quadricipite ai playoff - potrebbe segnarne in maniera indelebile il resto della carriera. Quello grottesco è che solo pochi giorni prima era circolato un video in cui Cousins, in vacanza alle Bahamas, sfidava un tifoso locale giocando in ciabatte e costume da bagno su un campetto ghiaioso.
Sotto gli occhi dei compagni di vacanza Draymond Green, John Wall e Eric Bledsoe, esercizi di bullismo da campetto.
Non il massimo della cautela e della professionalità, soprattutto per un uomo di due metri e dieci per centoventi chili reduce da pesanti guai fisici, anche se sarebbe scorretto collegare la zingarata balneare al pesante infortunio occorso qualche giorno dopo in tutt’altra circostanza. A Las Vegas Cousins si stava allenando, al pari di tanti altri colleghi, in vista del training camp con cui avrebbe iniziato la sua nuova avventura a Los Angeles. È in quella circostanza perfettamente normale che una penetrazione andata male l’ha rigettato nel buco nero di una nuova, lunga sosta forzata.
Infortunarsi gravemente due giorni dopo aver compiuto 29 anni.
Eppure, stando ad ascoltare le reazioni a caldo, il tema predominante è stato quello dell’incuria piuttosto che quello della fatalità, in quel territorio dove l’approssimazione pesa più della sfortuna. Del resto questa è da sempre l’angolazione più comune attraverso cui viene osservata la figura di DeMarcus Cousins. Nondimeno, sforzandosi di allargare la visuale, emergono sfaccettature meno esplorate che concorrono a smantellare stereotipi e pregiudizi.
Sliding doors
Che gli infortuni siano parte integrante della parabola di ogni atleta è certezza assodata, ma nella storia di Cousins a colpire è soprattutto la tempistica con cui si sono trasformati in vere e proprie sliding doors.
Il calvario di Boogie inizia proprio in quello che è, con ogni evidenza, il momento più felice della sua carriera. Quando si rompe per la prima volta il tendine d’Achille sinistro, l’ex Wildcat è alla sua seconda stagione a New Orleans, la prima giocata in Louisiana fin dalla palla a due iniziale, dopo essere stato scambiato poco meno di un anno prima. Cousins sta mettendo in mostra la sua miglior versione: al fianco di Anthony Davis segna 25.2 punti, cattura 12.9 rimbalzi e distribuisce 5.4 assist di media, tirando con il 47% dal campo e il 35.4% da tre, cifre del tutto speculari a quelle che dodici mesi più tardi candideranno, con piena legittimità, Nikola Jokic al premio di MVP. Quattro giorni prima di accasciarsi a terra durante i secondi finali della sfida con i Rockets, "Boogie" ha steso i Bulls dopo due tempi supplementari mandando a referto una tripla doppia da 44 punti, 24 rimbalzi e 10 assist. È il primo giocatore dal 1972 a riempire il tabellino con statistiche del genere, impresa riuscita l’ultima volta a Kareem Abdul-Jabbar.
Tutto il debordante repertorio offensivo di Cousins sciorinato in una singola partita.
Nonostante la coppia King Kong-Godzilla sotto canestro, le speranze di titolo dei Pelicans sono risicate, mentre per Cousins quelle di passare all’incasso l’estate successiva appaiono molto più concrete. La logica vorrebbe che a New Orleans, pur di garantire quella stabilità competitiva così essenziale per trattenere Davis, siano pronti ad offrire a Boogie un contratto al massimo salariale. E anche qualora non fossero i Pelicans a mettere sul tavolo un quinquennale da 150 milioni, dollaro più dollaro meno, in una NBA dove gente come Biyombo, Mahinmi e Mozgov viene pagata letteralmente a peso d’oro, non c’è dubbio che un lungo con quel talento e quei numeri dovrà solo scegliere tra una fila di pretendenti.
Il piano s’infrange però sul tendine d’Achille sinistro e sulle sue intemperanze che rendono difficile scommettere su uno con quel fisico e quella storia clinica. Il classico rischio che non vale poi davvero la pena correre. In estate Cousins, in assenza di alternative percorribili, decide di scommettere su se stesso accettando la proposta dei Golden State Warriors. I campioni in carica gli offrono un annuale a 5.3 milioni di dollari, cifra lontanissima dal valore teorico del giocatore, ma la prospettiva è allettante: rimettersi in forma, dimostrare capacità d’adattamento a un sistema di gioco tra i più avanzati della lega, vincere il Larry O’Brien Trophy e tornare a sedersi al tavolo del mercato estivo con credenziali perfette per accaparrarsi una fetta consistente del traboccante salary cap a disposizione.
Boogie rientra a gennaio, facendo il suo esordio con la maglia di Golden State a un anno dall’infortunio. Nelle trenta partite di regular season giocate il minutaggio è limitato (25.7 di media, il dato più basso del suo percorso da professionista) ma Cousins sfiora comunque la doppia doppia. Contro i Clippers al primo turno dei playoff avviene un altro esordio, quello nella post-season, terra promessa mai raggiunta negli otto anni precedenti. La contesa coi ragazzi di Doc Rivers è tosta, Cousins non si tira indietro ma deve abbandonare il campo dopo gara-2 per uno strappo al quadricipite sinistro. La stagione sembra finita, ancora una volta sul più bello, ma per la squadra la sua assenza è poco più che un danno collaterale. Gli infortuni a Kevin Durant prima e Klay Thompson poi ne accelerano però il ritorno sul parquet e le Finals contro i Raptors si trasformano in un microcosmo della carriera di Cousins: benissimo nelle due vittorie racimolate dagli incerottati Warriors; malissimo quando la squadra non gira e lui dovrebbe prendersi più responsabilità, come nella disastrosa gara-4 chiusa con un plus/minus di -12 e il 14.3% dal campo. Sotto la lente d’ingrandimento delle Finals emergono pregi (come il multiforme arsenale offensivo e lo strapotere a rimbalzo) e difetti (l’inconsistenza in difesa e la fatica a non uscire mentalmente dalla partita dopo i primi errori). Tutti peraltro già piuttosto noti.
11 punti, 10 rimbalzi, 6 assist e 2 stoppate nella gara che rimette in pari la serie.
Nel tornado di nomi, cifre e scambi che travolge la lega allo scoccare del primo luglio Boogie resta immobile, apparentemente dimenticato anche dalle franchigie che falliscono i loro primi obiettivi di mercato. Infine, una settimana dopo, firma con i Los Angeles Lakers. Per lui c’è un altro contratto annuale, a cifre ancora più ridotte (3.5 milioni) rispetto a quelle percepite la stagione precedente. Al di là dell’aspetto economico - voce sotto cui, a causa degli infortuni, Cousins può registrare una perdita netta stimabile finora in almeno 60 milioni di dollari - le premesse sembrano quelle giuste sia da un punto di vista tattico che ambientale.
Fortemente voluto da Davis, che non ama giocare da centro e che nell’anno trascorso insieme a New Orleans si è giovato della presenza di Boogie, i Lakers attorno alle due stelle avevano raccolto un cast degno dell’ipotetico quarto capitolo de I Mercenari, e sembrano cuciti dal sarto sulle spalle larghe di Cousins. L’obiettivo dei tanti veterani a supporto del duo James-Davis è chiaro: vincere il titolo e vincerlo subito. L’orizzonte temporale dei singoli contratti conferma con chiarezza assoluta quale sia il progetto della franchigia, ed è un progetto che ben si allinea con le esigenze di Boogie. Seppur calato in un contesto tecnico e mediatico molto distante, il traguardo non è poi così diverso da quello fissato un anno prima sulla Baia: contribuire alla vittoria e poi sondare l’interesse delle squadre con soldi da spendere al mercato estivo dei free agent.
La rottura del crociato anteriore, che con ogni probabilità lo terrà fuori per l’intera prossima stagione, spariglia le carte, colorando a tinte fosche il futuro di Cousins. È davvero difficile a oggi immaginare per lui una seconda parte di carriera appagante sia in termini economici che agonistici. D’altronde le incognite sulla sua tenuta fisica, alla soglia dei trent’anni e con una struttura muscolare così massiccia, peseranno come un macigno, ben più di un corredo reputazionale già gravoso e forse non del tutto equo.
The Boogie Man
Se c’è una cosa su cui i detrattori (tanti) e gli estimatori (decisamente più rari) di Cousins concordano è che si tratta sotto ogni punto di vista di uno dei giocatori più controversi dell’ultima decade NBA.
Con l’eccezione della clamorosa sfortuna in cui è inciampato tra New Orleans e Golden State, i risultati del campo parlano però abbastanza chiaro. Nelle sette stagioni e mezzo trascorse a Sacramento, Cousins non è mai riuscito a trascinare la squadra oltre le 33 vittorie in regular season, fallendo nella missione di riportare i Kings ai playoff. D’altro canto andrebbe anche ricordato come in quelle sette stagioni e mezzo Boogie sia dovuto passare attraverso sei cambi di allenatore, tre cambi di General Manager e due proprietari diversi, peraltro accomunati da un esibizionismo inversamente proporzionale alla capacità manageriale. Per quanto la parabola ai Kings rimanga il corpo della sua carriera fin qui, occorrerebbe anche non dimenticare come durante la sua lunga permanenza a Sacramento il miglior compagno di cui Cousins ha potuto beneficiare è stato un Rajon Rondo in contract year, seguito a ruota da Darren Collison, Tyreke Evans e Rudy Gay.
Oggettivamente, a nessun giocatore del talento di Boogie è toccato passare attraverso un’odissea di cotanta mediocrità. Senza disporre di una guida tecnica solida, tantomeno di un’idea di gioco coerente o di un supporting cast adeguato, l’ex-quinta scelta al Draft del 2010 ha incarnato l’ideale di unicorno, lungo in grado di colpire con efficacia dal perimetro e trattare la palla come un esterno, ancor prima che la definizione venisse varata a favore dei vari Porzingis, Davis e compagnia. A dispetto di tutto, Cousins è inoltre riuscito per quattro volte a entrare nell’élite dei convocati all’All-Star Game, pareggiando, per dire, il numero di apparizioni di Jimmy Butler, entrato nella lega un anno più tardi e di certo non immune a critiche per il comportamento dentro e fuori dallo spogliatoio. Malgrado ciò, Butler è una stella conclamata: il potere negoziale nei confronti delle franchigie per cui ha giocato e il suo conto in banca ne confermano lo status. Certo, i risultati ottenuti sul campo dall’ex-pupillo di Thibodeau sono sensibilmente migliori rispetto a quelli (quasi nulli) di Cousins, ma non bastano a spiegare l’ampiezza dello scarto tra i due nella percezione di appassionati e addetti ai lavori.
Di certo c’è che Boogie, fin dagli esordi, ha dimostrato di possedere doti abbastanza contenute quanto a capacità comunicativa ed empatia, pur risultando spesso molto apprezzato dai compagni, specie da quelli più esigenti (chiedere a Rajon Rondo e Draymond Green per conferme). È altrettanto incontestabile come lui abbia fatto davvero poco per contrastare il sentimento di antipatia che l’ha circondato, anzi finendo spesso per alimentarlo con la genuina intenzione di combattere le ipotetiche ingiustizie perpetrate nei suoi confronti.
E nel tormentato rapporto coi media sta forse la chiave per provare a comprendere la complessa figura di DeMarcus Cousins e soprattutto il modo in cui è stata proiettata verso il mondo esterno. In fondo, in una NBA dove le stelle della lega sono, o meglio appaiono, brillanti e irreprensibili anche fuori dal campo, Boogie - maleducato, a volte goffo e fondamentalmente perdente - soddisfa l’appetito per un villain. Prendersela con Cousins è, metaforicamente parlando, un tiro aperto dall’angolo dietro la linea da tre punti: soluzione ad alta probabilità di successo che garantisce ottimi ritorni. La sfortuna, quando si tratta di lui, è facilmente riconducibile a un contrappasso karmico per colpe mai del tutto chiarite ma date per assodate, sussurri e pettegolezzi a metà strada tra il bar e lo spogliatoio valgono come prove schiaccianti nel tribunale immaginario approntato da critici e opinionisti. Lì dove errori e scelte sbagliate si traducono velocemente in stupidità bella e buona.
Al netto delle lampanti responsabilità personali, il metro con cui viene giudicato come uomo e giocatore appare sempre un po’ più severo rispetto a quello applicato al resto dei colleghi, circostanza che in prospettiva potrebbe rendere ancora più ardua la risalita dopo l’ennesima caduta. Allo stesso modo, però, se Cousins saprà trasformare tutto questo in energia positiva e alimentare una voglia di rivalsa ora più che mai necessaria, godrebbe di spazio e tempo per rimaneggiare un finale in apparenza già scritto.
La storia di Boogie, il brutto, sporco e cattivo della NBA contemporanea, è ancora lontana dall’essersi conclusa.