Denis Law era la figura più strana di quella che a Manchester viene definita “la santa trinità”. Di certo non aveva l’aura religiosa che questo nome conferisce al tridente del Manchester United della fine degli anni ’60 - la severità istituzionale di Sir Bobby Charlton, la sensualità malinconica di George Best. Con i capelli lunghi che partivano da un punto imprecisato della fronte, il sorriso stralunato, da giovane sembrava uno che era riuscito a imbucarsi in un gruppo che aveva fatto successo. Con il tempo le rughe hanno finito per accentuarne ulteriormente l’espressività del volto e, dopo la fine della sua carriera, ha iniziato ad assomigliare sempre di più a Rod Stewart, con cui condivideva la sazietà compiaciuta di una rockstar stagionata nel benessere.
Denis Law rideva spesso e aveva una leggerezza che lo ha spinto a togliere peso a molti degli eventi più importanti della sua carriera. In un’intervista d’epoca dice di essere finito in Inghilterra per caso, perché il fratello dell’allora allenatore dell’Huddersfield - la sua prima squadra - lo aveva visto giocare a scuola, ad Aberdeen, in Scozia, dov’è cresciuto: «E non c’è bisogno che vi dica che non avevo la minima idea di fosse Huddersfield». Per caso, secondo Law, riuscì ad esordire diciottenne nella Nazionale scozzese, nel 1958, quando ancora era guidata da un Matt Busby appena sopravvissuto al disastro di Monaco e che poi lo renderà una leggenda del Manchester United. E per caso lo venne a sapere per strada, ad Huddersfield, da un vecchio di nome Henry che per lavoro consegnava i giornali. Al caso Law imputa persino la scelta di fare l’attaccante, un ruolo che inizialmente non voleva fare. «Beh, non abbiamo nessuno che segni, abbiamo bisogno di qualcuno davanti», pare gli abbia risposto Busby, che così, forse senza rendersene davvero conto, rese possibili i 237 gol in 404 presenze che ancora oggi lo rendono il terzo miglior marcatore nella storia del Manchester United.
Denis Law definiva un fluke, un puro caso, anche l’ultimo pallone toccato nella sua carriera a livello di club, che per un’ironia molto crudele è anche uno di quelli che più gli veniva ricordato in Inghilterra, dove di palloni ne avrà toccati decine di migliaia. Quando gli chiedevano un commento a riguardo, Law tagliava corto e nella sua autobiografia, chiamata pomposamente The King, non gli dedica più di una pagina e mezzo, nonostante sia uno degli eventi più significativi di tutta la sua carriera. Credo sia l’unico caso in cui la sua laconicità aggiunge peso anziché toglierlo. Anche nell’intervista che ho appena citato, l’unico momento in cui sembra irrigidirsi è quando gli viene chiesto di quel pallone, «se gli si spezza ancora il cuore a parlarne».
È una storia che comincia nella primavera del 1973. Il Manchester United aveva vinto la Coppa dei Campioni meno di cinque anni prima e già aveva rischiato di retrocedere una volta. L’esonero dell’allenatore Frank O’Farrell, arrivato alla fine del 1972, sembrava aver rimesso definitivamente le cose in carreggiata, rimettendo in piedi un club già allora in difficoltà a mettersi il passato alle spalle. Il nuovo allenatore, Tommy Docherty, aveva vinto sette partite nella seconda metà di stagione, dissipando lo spettro della retrocessione, ed era addirittura riuscito a reintegrare in squadra George Best, già alle prese con l’alcol e la depressione. Ottenuta la salvezza, Bobby Charlton si era sentito finalmente rassicurato su un passo che avrebbe voluto compiere da tempo, cioè ritirarsi dal calcio giocato. «Se lo United fosse retrocesso sarei rimasto per aiutarlo a risalire in Prima Divisione», dichiarò nella conferenza stampa con cui annunciava il suo ritiro, «Adesso che è salvo sento di dover cercare qualcosa di nuovo nel calcio». In pochi si aspettavano che di lì a poche settimane il Manchester United avrebbe detto addio anche a un altro dei suoi tre santi.
Denis Law aveva 33 anni e diversi problemi alle ginocchia, ma formalmente aveva ancora un anno di contratto e nessuna intenzione di andarsene dal club che aveva contribuito a rendere grande. Anche in questo caso, la decisione del Manchester United di metterlo nella lista dei giocatori cedibili la venne a sapere per caso, dal notiziario trasmesso da un televisore di un pub di Aberdeen, dove stava passando le vacanze estive. Se l’abbia saputo davvero così o meno, di certo Denis Law non ha mai perdonato a Docherty questa decisione, e anche nella sua autobiografia, scritta anni dopo, quel momento viene ricordato con una certa amarezza. “Ciò che è peggio è che quando sono tornato a Old Trafford per riprendermi gli scarpini e gli altri miei oggetti personali erano tutti in vacanza. Non ho avuto nemmeno nessuno a cui dire addio”. Difficile dire se fu il risentimento a portarlo a firmare per il Manchester City, con cui comunque aveva già giocato tra il 1960 e il 1961.
Docherty, comunque, era convinto che fosse un passo necessario al rinnovamento di cui il club aveva bisogno. “Sono sicuro che la prossima stagione ci restituirà delle prospettive molto più luminose”, scriveva nel suo diario quell’estate, “ci vuole tempo per costruire una squadra ma, a parte un paio di eccezioni, abbiamo una rosa molto giovane”. Secondo alcuni quelle parole avrebbero avuto un fondamento nel lungo periodo, ma nell’immediato le cose andarono molto diversamente. In poche parole: il Manchester United andò incontro a quella che è probabilmente la peggiore stagione della sua storia - una sequela di sfortune, incomprensioni e incompetenza che Ruben Amorim, allenatore del «peggiore Manchester United di sempre» a sentire le sue stesse parole, credo farebbe fatica anche solo a immaginare.
Con il rinnovamento della squadra, infatti, il Manchester United si era privato dei suoi due unici marcatori di livello (e, non poteva saperlo, ma anche dei migliori della sua storia, con l’unica eccezione di Wayne Rooney). In altre parole: senza Charlton e Law non aveva la minima idea di come segnare. La situazione era talmente grave che, arrivati al Natale del 1973, dopo aver vinto solo quattro delle venti partite disputate in campionato, tra i capocannonieri della squadra c’era il portiere, Alex Stepney, a cui incredibilmente era stato dato il compito di battere i calci di rigore (ne segnò due). Docherty a distanza di anni si è giustificato dichiarando che in allenamento era risultato uno dei migliori a tirarli, il che dice quasi tutto sulla qualità del Manchester United quella stagione. Stepney, tra l’altro, era l’unico superstite della finale di Coppa dei Campioni del 1968 contro il Benfica, a parte George Best, che uscì definitivamente di scena di lì a poco, dopo aver litigato con Docherty per essere stato escluso per una partita di FA Cup.
Arrivati all’inizio del 1974, quindi, il Manchester United sedeva terzultimo in classifica e l’unica cosa che lo divideva dalla prospettiva della retrocessione era il proprio nome, la propria storia. Il mantra “they’re just too good to go down” - “sono semplicemente troppo forti per retrocedere” - che dà il titolo al libro del giornalista Wayne Barton su quella stagione (Too good to go down, da cui ho preso gran parte delle citazioni che trovate in questo pezzo) e che ormai era più un auspicio, una rassicurazione che una vera osservazione, dato che, come la nave di Teseo, ormai il Manchester United non era più la squadra di sei anni prima - letteralmente, se si esclude solo il suo portiere-rigorista.
A questo punto si potrebbe raccontare questa storia anche solo leggendo i tabellini. Il Manchester United non ha il girone di ritorno fortunato della stagione precedente e arriva all’ultima partita in casa, la penultima di campionato, a dover sperare nei risultati di Birmingham e Southampton - rispettivamente 19esimo e ventesimo in classifica a quattro e due punti di distanza dalla squadra di Docherty, penultima. L’ultima partita in casa è però il derby contro il Manchester City, ancora più sentito di quanto non sia oggi in cui la rivalità con il Liverpool ha parzialmente preso il suo posto, e le cose vanno nel peggior modo possibile. Il Manchester United comincia bene, salva anche un gol sulla linea, ma alla fine del primo tempo inizia a diffondersi la notizia che il Birmingham ha ribaltato lo svantaggio iniziale contro il Norwich. Dagli spalti la rassegnazione passa al campo, dove gradualmente il Manchester City prende il controllo della partita, fino al gol della vittoria a otto minuti dalla fine.
È un gol inutile, del tutto superfluo perché il Manchester United è per l’appunto già retrocesso, e che proprio per questo sarà una condanna per Denis Law, che con l’ultimo pallone toccato della sua carriera in Inghilterra creerà una leggenda che i giornali provano invano a smentire ancora oggi, e cioè che è stato proprio quel gol a far retrocedere il Manchester United. Credo sia per questo che più volte l’abbia definito “a complete fluke”, un colpo di sfortuna, una coincidenza, un puro caso. Qualcosa che non doveva succedere, che nei fatti è come se non fosse successo, e che pure è successo. Qualcosa che è lì a testimoniare che qualcosa non torna. È per questo o per il fatto che lo abbia segnato di tacco, in maniera talmente inaspettata che il povero Alex Stepney ha provato a piegarsi per bloccarlo a terra ma, senza che nemmeno se ne sia accorto, un attimo dopo se l’è ritrovato alle sue spalle. «L’arbitro ha dato gol ma avrebbe potuto fischiare qualsiasi cosa, un fuorigioco, un fallo, no?», si è chiesto Denis Law anni dopo, come se ancora ci sperasse.
È un gol che assomiglia davvero a un lutto, quando si fa fatica a credere a cosa si sta vivendo. D'altra parte, è stato lo stesso Docherty a dire che «quando siamo retrocessi sono morto un migliaio di volte». E se questo gol tecnicamente non ha retrocesso lo United, di sicuro è stato il momento in cui tutti ne hanno preso piena consapevolezza. Law fa per alzare un pugno poi si ferma, guarda a terra, la faccia impietrita mentre un compagno prova a dargli uno schiaffetto per farlo riprendere. A questo punto è difficile ricordarsi che si tratta di un gol vittoria in un derby. Sul campo iniziano a entrare dei tifosi del Manchester United, i pantaloni a zampa d’elefante, le giacche di feltro, le sciarpe rosse e bianche che penzolano sul collo. Non sembrano tristi. In quella stagione la Football Association aveva fatto rigiocare una partita vinta 4-3 in rimonta da un Newcastle in 10 uomini per via di un’invasione di campo, e da quel momento i tifosi in Inghilterra avevano iniziato a sperare che si fosse creato un precedente.
C’è un conciliabolo tra arbitri, dirigenti e giocatori a bordo campo, mentre sullo sfondo continuano a sciamare persone di ogni tipo. L’allenatore del Manchester City ne approfitta per togliere dal campo Denis Law, forse preoccupato per la sua incolumità, e lui sembra letteralmente fuori di sé. È il suo corpo a uscire dal campo, a non dare il cinque al compagno, a sparire nell’ombra, mentre qualche timido fischio lo accompagna all’uscita. Di lì a poco si ricomincia a giocare, ma solo per qualche minuto. Dietro una porta inizia ad alzarsi un fumo grigio, mentre la polizia fa sempre più fatica a contenere i tifosi sugli spalti. Altre persone invadono il campo, alcune stranamente abbracciano i giocatori dello United. Willie Morgan, che era in campo e diventerà capitano del Manchester United nella stagione successiva, ha dichiarato che stavano provando a consolarli. «I tifosi sono stati fantastici: volevano abbracciarti e dirti che era tutto ok, il che ci faceva sentire ancora peggio». Alla fine, dopo qualche altro secondo di gioco, la marea dagli spalti si riversa sul campo, cancellando la partita. Giorni dopo la FA deciderà stranamente di mantenere il risultato anziché darla vinta al Manchester City a tavolino, togliendo a Denis Law anche questa consolazione burocratica.
Quel gol è esistito eppure chi lo ha vissuto dice di non essere sicuro che sia successo davvero. «Quando Denis è uscito dal campo è stato davvero surreale», ha detto Jim McCalliog, quel giorno in campo per il Manchester United «Veniva da chiederti: sono in un sogno?». McCalliog è stato uno dei primi a uscire dal campo dopo l’invasione, e quando è tornato nello spogliatoio del Manchester United ha trovato Denis Law in un angolo con la testa tra le mani. Che cosa ci faceva lì? «Sembrava non avesse nemmeno realizzato di aver segnato», ha detto Cliff Butler, anche lui in campo quel giorno.
La giornata finì in maniera piuttosto strana. Il Manchester United, incredibilmente, decise di non esonerare Tommy Docherty, e anzi la leggenda vuole che Matt Busby, diventato nel frattempo dirigente, gli regalò una cassa di champagne in segno di supporto. Denis Law alla fine riuscì a uscire da quello spogliatoio, nonostante fosse preoccupato di poter essere minacciato da qualche tifoso del Manchester United, o anche peggio. Niente di tutto questo, però, è successo. “I tifosi dello United erano tranquilli a riguardo e non ci sono stati né pugni alzati né male parole quando ho lasciato il campo”, ha scritto Law nella sua autobiografia, “Quella sera sarebbe potuto accadere varie volte perché sono andato a vedere Rod Stewart all’Apollo, a Manchester. E se ci fosse stata qualche animosità nei miei confronti, sono sicuro che a quel punto l’avrei già scoperto”.
Quell’estate Denis Law andò in Germania per giocare i Mondiali con la Scozia. Poi tornò in Inghilterra e annunciò il suo ritiro dal calcio, nonostante fosse ancora relativamente giovane e avesse ancora un anno di contratto. L’allenatore del Manchester City gli disse che avrebbe fatto fatica a trovare posto tra i titolari, e lui gli rispose che non valeva la pena giocare con la squadra riserve. Questo almeno è quello che ha sempre raccontato.