Per farsi spiegare uno dei gol più inspiegabili della storia del calcio nonché il più incantatorio della carriera di Dennis Bergkamp - segnato esattamente vent’anni fa, il 2 marzo 2002, contro il Newcastle -, bisogna ascoltare Bergkamp che parla di un altro suo gol di quasi cinque anni prima. «Il mio primo controllo…il primo controllo di chiunque, quella è la parte più importante del gioco».
L’olandese, che forse teme di passare per arrogante, fa una piccola, ma evidente pausa dopo aver detto “il mio primo controllo”, includendo nella sua affermazione chiunque provi a stoppare un pallone: una verità non sconvolgente e sempre più lampante nel calcio ad alta velocità di oggi. Migliore è il tuo controllo di palla, più facile sarà prendere un vantaggio sull’avversario: ovvio. Ma Bergkamp, cortesie a parte, è tutt’altro che ovvio in quella frase. Sta rivelando ciò che lo rende differente dagli altri, definendo l’essenza del suo modo di stare in campo, di fare calcio.
Il primo controllo è tutto: quando è perfetto, come gli capitava quasi sempre, ma anche quando non lo è, lasciando spazio - a chi ne ha il talento -, di mettere ordine (o creare disordine) partendo dalla più umana delle variabili: l’errore.
Il gol di cui parla Bergkamp è un gol minore. Non è una finale né un derby né uno scontro decisivo: è un’anonima quarta giornata della Premier League 1997/98. La partita è Leicester-Arsenal. Bergkamp in quella gara aveva già fatto due gol, con altre due specialità della casa, il tiro sul secondo palo, e il pallonetto (quest’ultimo fortunoso perché ottenuto grazie a un rimpallo). Fin dai tempi dell’Ajax aveva una predilezione per quella giocata, a tal punto da collezionare un numero tale di cucchiai e cucchiaini preziosi da poter rivaleggiare con l’argenteria di Francesco Totti.
Il gol di Bergkamp in cui emerge la sua capacità di stoppare il pallone in modo diverso dagli altri è però quello del provvisorio 3-2, segnato nei minuti di recupero. Lancio da destra: lui, marcato, sta correndo talmente avanti da arrivare a ridosso dell’area piccola, in quella porzione di campo in cui la riga di fondo si fa più vicina e l’angolo della porta è sempre più stretto. Lì arpiona il pallone col destro, rubando il tempo al suo marcatore, che ancora si trova dove dovrebbe essere, cioè tra Bergkamp e la porta. L’olandese non fa cadere il pallone, ma col sinistro lo addomestica mandando completamente fuori giri l’avversario, che non può far altro che continuare a camminare nella direzione sbagliata, completamente disinnescato.
Prima di calciare in porta col destro, Bergkamp tocca la palla prima con la coscia, poi ancora una volta col piede sinistro. Sono cinque tocchi in totale: ad altissima velocità, ma soprattutto, tutti dipendenti dal primo controllo. Come se quello stop volante in controtempo avesse attivato un meccanismo di precisione già predisposto da tempo: eppure pochi secondi prima Bergkamp non sapeva nemmeno che avrebbe ricevuto un lancio.
Il Leicester, che aveva pareggiato una prima volta al 90esimo, troverà il modo di segnare anche il 3-3, rovinando in parte la festa all’olandese. Quella partita, tuttavia, fisserà per sempre la cornice dentro cui si muoverà Bergkamp, a tal punto che i profili social dell’Arsenal rilanceranno, anni più tardi, il video dei suoi tre gol con il titolo: “La più bella tripletta della storia della Premier League?”.
Bergkamp, che in quella stagione vincerà la sua prima Premier, era arrivato due anni prima, atterrando in un calcio inglese che era ancora davvero inglese e non assomigliava per niente a quello che vediamo oggi. Nel suo primo Arsenal, tutti i giocatori - al di fuori di lui, del connazionale Glenn Helder e del danese John Jensen (l’autore del primo dei due gol con cui la Danimarca sconfisse la Germania nella finale di Euro ’92) - erano nati nelle isole britanniche. E così l’allenatore, lo scozzese Bruce Rioch.
Bergkamp, cresciuto e poi esploso nell’Ajax, era stato acquistato nell’estate del 1995 dall’Inter, dove aveva attraversato due anni complicati: in un calcio italiano ancora fortemente difensivista fu semplicemente non capito e infine espulso come un corpo estraneo. Si trovò male con Osvaldo Bagnoli durante la prima stagione, riuscendo comunque a vincere la Coppa Uefa da capocannoniere, malissimo con Ottavio Bianchi. La separazione fu consensuale e tutt’altro che traumatica: ancora oggi certi tifosi italiani che non hanno mai tolto gli occhi dalla Serie A lo definiscono un bidone.
Consapevole di essere finito in una squadra storica, ma dalla reputazione compromessa (erano i tempi del “Boring Arsenal”, il “noioso Arsenal”), alla fine di una prima stagione ottima per lui e buona per il club, rivela ai microfoni un altro pezzo di quel che pensa, parlando dello zoccolo duro inglese della squadra come di “Mental side” e di sé stesso come “Footballing side”, come se la maggioranza dei compagni facesse qualcosa sì di utile, ma che aveva poco a che fare con il giocare a calcio. Lo dice senza malizia, forse intimamente convinto che la grinta e la corsa di alcuni valesse davvero quanto il suo talento.
In una squadra ancora povera di contenuti tecnici, ben diversa da quella in cui giocherà negli anni successivi, gli unici a dargli una mano ad alzare il livello sono l’attaccante Ian Wright, l’altalenante Paul Merson e l’ex juventino David Platt. Quell’Arsenal guadagnerà la qualificazione alla Coppa Uefa all’ultima giornata. Obbligato a vincere, all’82' è sotto di un gol: in tre minuti ci pensano prima Platt e poi Bergkamp, con un potente tiro da fuori: “The Footballing Side”.
Quell’Arsenal giocava ancora nel mitico stadio di Highbury, e guardando sia le partite che il contorno sembrano passati ben più di 25 anni: era già Premier League, ma non lo era ancora. C’era già Cantona, primo rivoluzionario del calcio inglese di fine secolo, ma non era ancora arrivato Gianfranco Zola. Gli sponsor sulle tribune avevano ancora quel sapore di calce e fish&chips: Sanderson Electronics, Young’s Scaffolding, Draper Tools. Di lì a poco sarebbero arrivate le multinazionali e anche Arsène Wenger, che rese cosmopolita, professionale e più europeo l’Arsenal e - di riflesso - tutto il calcio inglese. Nella squadra con cui Bergkamp vince il primo titolo, nel 1998, in rosa ci sono due olandesi (lui e Marc Overmars), cinque francesi (tra cui Vieira, Anelka e Petit), un austriaco, un tedesco, un liberiano e un portoghese.
A fine stagione, ai Mondiali di Francia ’98, è il momento dell’altro gol celebre di Bergkamp, una specie di fotocopia della terza rete al Leicester di un’estate prima, ma con il glamour della Coppa del Mondo e l’epica di uno scontro diretto - il quarto di finale contro l’Argentina - risolto nei secondi finali con una giocata che fa saltare tutti sulla sedia.
Lancio dalla proprio metà campo di Frank De Boer: Bergkamp - francobollato dall’allora difensore del Napoli Roberto Ayala - mette giù un pallone ai limiti dell’impossibile. Nello stesso tempo in cui il suo marcatore capisce come intervenire sul primo controllo, il 10 olandese ha già spostato la palla con un rapido secondo tocco e sta calciando in porta d’esterno, a incrociare. Anche qui, il tiro e la sua preparazione sembrano la naturale conseguenza di quello stop volante, come due tessere di domino che cascano inevitabilmente una volta che la prima è venuta giù.
Il 2 marzo 2002, in un Arsenal sempre più forte (nel frattempo erano arrivati Henry, Pires, Ljungberg…) - che due anni dopo diventerà quello degli “Invincibili”, vincendo la Premier senza mai perdere - Bergkamp realizza il suo capolavoro, un gol che ancora oggi non ha un gemello in cui specchiarsi. Negli anni abbiamo visto e accumulato ricordi di gol stupendi segnati in ogni modo: di tacco, in rovesciata, di potenza, di precisione, da angolazioni estreme, e per ciascuno di questi c’è sempre un altro gol che in qualche modo lo ricorda, gli somiglia. O perlomeno gli si avvicina. Qui Bergkamp, usando la sua abilità nel primo controllo, quasi come fosse un colpo speciale da videogioco, ci fa entrare nell’inesplorato.
La partita è Newcastle-Arsenal. In quel momento i bianconeri di Bobby Robson e Alan Shearer sono secondi in classifica, l’Arsenal è primo, ma in un momento di flessione: in infermeria ci sono 11 giocatori, una squadra intera, tra cui Henry, fino a quel momento decisivo.
È l’undicesimo minuto del primo tempo quando Bergkamp, ancora nella sua metà campo, passa il pallone a Pires e si butta nello spazio, attaccando l’area di rigore; Pires avanza, temporeggia e poi serve al limite dell’area Bergkamp, che in quel momento è quasi spalle alla porta. A marcarlo, con il numero 34, c’è il difensore Nikos Dabizas. Per liberarsene l’olandese non sceglie la via più difficile, ma una via che nemmeno esiste.
Vujadin Boskov, con quel suo italiano senza articoli con cui amava divertirsi, diceva: «Grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri». Giocatori come Bergkamp costruiscono strade dove una strada non è prevista.
Per uno con i suoi piedi eseguire quella giocata è difficile, ma pur sempre possibile, cosa appare impossibile è averla immaginata, con pochi secondi a disposizione, una difesa schierata alle spalle e un passaggio che non è nemmeno dei migliori, visto che il pallone rimbalza un paio di volte sul terreno prima di arrivargli addosso.
A quel punto il numero 10 tocca la palla con l’interno del piede sinistro e la fa ruotare intorno a Dabizas, lui fa una piroetta nell’altra direzione e aggira il greco dal lato sinistro. Bergkamp e il pallone, fatalmente si rincontrano a metà strada, come due ballerini, come acrobati del Cirque du Soleil che sanno, a occhi chiusi, di potersi trovare lì e solo lì per non mandare il loro numero a scatafascio.
Dabizas è solo un ostacolo ormai alle spalle, come quelle sigarette lanciate in autostrada da incauti automobilisti che sembra ti stiano arrivando addosso e un secondo dopo spariscono a tutta velocità nello specchietto retrovisore, inghiottite dalla strada. Bergkamp non deve far altro che proteggere quel pallone spedito pochi secondi prima nella direzione opposta rispetto alla sua e diventato una specie di boomerang che ritorna obbediente da chi l’ha lanciato.
A sottolineare lo stupore di tutti c’è quello del telecronista, Martn Tyler, voce storica del calcio inglese (e anche del videogioco Fifa per 15 anni), che durante la giocata riesce a dire solo: «It’s Bergkamp. That’s magnificent». Seguono tredici secondi di silenzio, un’eternità in una diretta tv, in cui Tyler ancora non ha elaborato cosa sia successo. Se la cava, mentre scorre il replay, con un «…il movimento. E poi questo». Come dire: fate prima a guardare. La spiegazione del gol arriverà qualche secondo dopo, facendo il paio con la storica telecronaca di Jack van Gelder durante quell’Olanda-Argentina del ’98. Non capacitandosi di quanto accaduto, Van Gelder se la cavò urlando per otto volte di fila «Dennis Bergkamp». In quei secondi sospesi di incredulità i due telecronisti prendono due strade diverse: uno si arrende al silenzio, l’altro lo riempie con una ripetizione.
A trovare le parole è ancora una volta Bergkamp, quasi brutale e antipoetico: «Il gol al Newcastle è sembrato un po’ speciale, un po’ strano, un po’ bello. Ma per me era l’unica opzione, il modo più veloce per andare incontro alla palla e poi verso la porta». A sentire Bergkamp ci si sente quasi ingannati per aver visto tanta bellezza in un gesto che per lui era solo un modo, sì creativo, ma soprattutto pratico per aggirare un ostacolo. Ma ha ragione lui: la magia di certi gesti è strettamente legata alla loro efficacia in campo, sennò non cercheremmo bellezza dentro una partita, che sia tra amici o in Premier League, ma ci lasceremmo continuamente incantare dalle acrobazie dei giocolieri da marciapiede, che hanno un sacco di splendide idee, ma nessuna vera storia in cui inserirle.
Mentre noi continuiamo a guardare e riguardare il gol al Newcastle, come se non fossimo mai sazi, Dabizas non ha mai digerito quel dribbling anomalo, dove appare prima spiazzato e poi goffo mentre cerca di togliere la palla a Bergkamp con un estremo tentativo da dietro. Risparmiato dalla pagina in italiano e da quella in inglese, la pagina francese di Wikipedia liquida Dabizas e la sua carriera in quattro righe dando più spazio a quella serataccia a spasso con Bergkamp che a uno storico trionfo. C’è scritto così: "Dabizas ha fatto parte della Nazionale greca che ha vinto Euro 2004. È lui ad aver subito ‘le contrôle extraordinaire’ di Dennis Bergkamp durante un match tra Newcastle e Arsenal".
Il controllo, sempre lui. Proprio al suo modo così peculiare di addomesticare il pallone è ispirata la statua inaugurata nel 2014 fuori dall’Emirates Stadium. Riprende un preciso aggancio volante di Bergkamp, del 2003, sempre contro il Newcastle. Due anni fa fu proprio Dabizas a far partire una petizione online per gettare la statua di Bergkamp nel Tamigi. Tra i firmatari sua mamma, sua nonna, il portiere che prese quel gol, Shay Given, l’ex compagno di squadra Andy O’Brien (il difensore che nel 2003, ammira a bocca aperta il Bergkamp in carne e ossa stoppare il pallone in campo prima che si faccia statua) e il capitano della Grecia campione d’Europa, Theodor Zagorakis.
La statua, ovviamente, è ancora lì, e - sebbene venerata dai tifosi dell’Arsenal - bisogna ammettere che non corrisponde del tutto al campione che vorrebbe mostrare. Sarà il bronzo o la posa plastica non perfettamente riuscita, ma manca della leggerezza che Bergkamp suggeriva ed esprimeva quando stava in campo, quel suo muoversi in punta di piedi, come una volpe, come un ballerino.
A fare meglio dello scultore assoldato dall’Arsenal, modellando Bergkamp solo con le parole, è stato un suo ex compagno nei primi due anni inglesi, l’attaccante gallese John Hartson, fama da rissaiolo in campo e faccia da pub di provincia, spirito d’osservazione e anima da poeta: «Tutto quel che faceva sprigionava classe. Era setoso. Se Bergkamp avesse giocato sulla neve, non avrebbe lasciato impronte».