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Derby di Champions
12 giu 2019
La storia della Champions League è piena di finali tra squadre dello stesso paese.
(articolo)
24 min
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Imbattersi in un derby di Champions è come andare in vacanza da soli, senza dire niente ad amici e parenti, in un posto lontano mille miglia dal chiasso e dallo stress metropolitano e trovarlo popolatissimo di nostri connazionali: da un lato tutto ci risulta più familiare, dall'altro beh, «se volevo sentir parlare italiano me ne stavo a Milano». Di base non ci dispiace, ma suona un po' come un'occasione sprecata. Fino al 1997, quando com'è noto ogni federazione poteva eleggere al torneo una sola squadra, i derby di Coppa dei Campioni erano ancora più rari e nevrotici, opponendo la squadra più forte del paese alla detentrice del trofeo. Cupissimo era stato il derby Verona-Juventus del 1985, disputato a porte chiuse al ritorno al Comunale per i fatti dell'Heysel e finito, dopo la chiacchierata direzione arbitrale dell'arbitro francese Wurtz, in indicibili polemiche riassunte dalla famosa frase di Osvaldo Bagnoli rivolta alla polizia intervenuta dopo aver sentito un vetro finire in frantumi: «Se cercate i ladri, sono nell'altro spogliatoio».

Ha fatto epoca il Liverpool-Nottingham Forest del primo turno 1978-79, clamoroso passaggio di consegne tra i nobili Reds e gli affamati outsider di Brian Clough. Ma agli albori del torneo ci fu anche un trittico di sfide spagnole tra il Real Madrid e le squadre che approfittavano dei suoi sonnellini per vincere il campionato: il Siviglia (liquidato con un perentorio 10-2 nel 1957-58) e soprattutto il Barcellona, che al secondo tentativo riuscì a spuntarla, diventando nel 1960 la prima squadra capace di eliminare il Grande Real in Coppa dei Campioni, in una partita di estreme polemiche con quattro gol annullati al Madrid e una foto, quella del brasiliano Evaristo che anticipa in tuffo il portiere madridista Vicente e segna il 2-0 nella partita di ritorno, che fece il giro del mondo. Ma adesso è delle sei finali tra vicini di pianerottolo, molto spesso acerrimi nemici, che vogliamo parlarvi.

Real Madrid-Valencia, 24 maggio 2000, Parigi (Stade de France)

La prima finale-derby della storia della Coppa dei Campioni non è poi questo grande affare. Se la giocano, relativamente a sorpresa, il Real Madrid allenato dal pacioso hidalgo Vicente Del Bosque, subentrato a novembre al gallese Toshack, che si è meritato strada facendo i galloni di favorita eliminando in quarti e semifinale le finaliste della precedente edizione; e l'outsider Valencia, squadra iper-cinetica e organizzatissima, allenata da Hector Cuper, un segaligno argentino del quale non si rammenta l'ultima volta che ha piegato le labbra all'insù.

La finale tutta iberica è una novità eclatante e fa sbilanciare tutti gli analisti in pensose riflessioni sulla schiacciante superiorità del calcio spagnolo, ma rimarrà ineguagliata fino al 2014. È un'edizione di Champions storica, la prima a 32 squadre, con due pleonastiche fasi a gironi che servono solo a far crescere a dismisura il numero di partite e gli incassi delle tv. Lo spettacolo vero inizia come sempre dai quarti, quando il Real Madrid alza la voce con un sontuoso 2-3 a Old Trafford, dove il Manchester United è imbattuto da 15 partite europee consecutive. Il momento più alto della serata è “la” giocata di Fernando Redondo, il taconazo subito destinato alla leggenda con cui l'elegante prence di Buenos Aires salta il norvegese Berg per poi sconfessare, nell'assist per Raul, la fama di giocatore lento: perché se c'è un pallone da inseguire, nessun argentino è mai davvero lento.

È una vittoria che salva la stagione del Real, addirittura quinto in campionato e alle prese col bagno economico di sangue dell'affare-Anelka, pagato 66 miliardi senza che nessuno avesse indagato sul suo carattere impossibile, che l'ha spinto durante la stagione a una fastidiosa abulia, prima di denunciare complotti orditi contro di lui da Raul e Morientes.

Il Valencia è arrivato alla finale di Saint-Denis con la forza del collettivo, sprigionata soprattutto nei nove gol rifilati nelle due partite al Mestalla contro Lazio (5-2) e Barcellona (4-1). L'Europa fa la conoscenza di nomi sorprendenti come Gerard, Angulo, Farinos, Kily Gonzalez. Quelli che sembrano i due più forti verranno entrambi cooptati dalla Lazio di Cragnotti nel giro di un biennio: il biondo regista Gaizka Mendieta, che sembra davvero un fenomeno (e come tale verrà pagato: 89 miliardi di lire) e il razzente Claudio Lopez detto "el Piojo" (il pidocchio), che a Roma vivrà alterne fortune. Ma a Parigi il Valencia sconta la pesante assenza del capitano Amedeo Carboni, sostituito dal modesto Gerardo, centrocampista adattato: l'unico italiano in campo è perciò l'arbitro, Stefano Braschi.

Come prevedibile, il Valencia esce per primo dai blocchi e cerca di punzecchiare il giovane portiere madridista Iker Casillas, 19 anni appena compiuti, alla stagione d'esordio in prima squadra. L'occasione migliore è per Lopez, ma quando dopo la mezz'ora il Real decide di accelerare la finale si trasforma subito in un combattimento tra un welter e un massimo. A cui peraltro la classe non manca affatto: si veda il delizioso cross “da terra” di Michel Salgado pennellato direttamente sulla testa di Morientes, che sblocca il risultato al 39'.

Le zanzare valenciane finiscono a sbattere regolarmente contro il parabrezza infrangibile eretto da Ivan Campo, Karanka e Helguera, senza che si noti l'assenza dei gloriosi Hierro e Sanchis, confinati in panchina da Del Bosque per raggiunti limiti d'età. Ai tanti tiri da fuori del Valencia, quasi tutti molto lontani dai pali, risponde al 67' una splendida volée in sforbiciata dell'inglese Steve McManaman, che in quattro anni al Madrid ha combinato poco, quasi (quasi) tutto concentrato in questa serata. Il Valencia non ha più nulla da difendere e lascia un'intera metà campo al contropiede accompagnato in porta dall'elegante Raul Gonzalez Blanco, che al 75' chiude i giochi scartando anche Canizares, in un gol molto simile a quello realizzato due anni prima da Ronaldo contro la Lazio, in un'altra finale europea e parigina (ma in un altro stadio, il Parc des Princes).

Quella sera il 22enne di San Cristobal de Los Angeles, modesta periferia madrilena, sembra davvero avere tutto per poter diventare il miglior calciatore del mondo, ma a conti fatti gli mancherà sempre qualcosa – soprattutto in Nazionale – per poter entrare davvero nell'Olimpo senza arricciamenti di naso.


Milan-Juventus, 28 maggio 2003, Manchester (Old Trafford)

Avete notato quel “quasi” lasciato tra parentesi qualche riga fa? Beh, non è dato sapere se Pavel Nedved avrebbe davvero potuto evitare di commettere quel fallo su McManaman a due minuti dal 90' di una semifinale stra-dominata, con la spada di Damocle della diffida pendente sulla nuca addirittura da sei partite; ma se ci fosse riuscito, non sarebbe stato il generoso Pavel Nedved, e dunque il problema non si pone.

A causa della squalifica del miglior giocatore d'Europa in quella primavera 2003 l'equilibrio tra Milan e Juventus si è improvvisamente raddrizzato e la finale è un cruciverba riservato a solutori più che abili, dopo che le due partite di campionato sono entrambe finite 2-1 per chi giocava in casa. Lippi è alla sua quinta finale europea con la Juventus, avendone vinta solo una su quattro; Ancelotti a questi livelli è un absolute beginner, potendo vantarsi a livello internazionale – si fa per dire – solo di una Coppa Intertoto vinta nel 1999 proprio con la Juve, eliminando nel percorso verso la gloria Ceahlaul Peatra Neamt, Rostov Rostselmash e Rennes.

(È sempre importante ribadire che il gol spartiacque della carriera di Pippo Inzaghi, in realtà, per le fredde statistiche è un gol di Tomasson).

La partita è molto brutta, ma anche – e forse proprio per questo - uno snodo fondamentale del calcio italiano degli anni Duemila, e non è esagerato dire che le conseguenze ce le porteremo fino a Berlino 2006. A cominciare da Marcello Lippi, che sul rigore di Shevchenko sentirà rompersi qualcosa e lascerà la Juve la primavera successiva, per abbracciare l'avventura sulla panchina azzurra che finirà come tutti sappiamo, per continuare con molti dei protagonisti di quella notte.

Ancelotti si libererà dell'etichetta di perdente di successo e diventerà anzi tutto l'opposto, dopo aver rischiato l'esonero e la lapidazione in pubblica piazza in caso di eliminazione in semifinale contro l'Inter. E poi non si può non parlare del Gattuso mediano di corsa e di fatica senza citare quella corsa prodigiosa in solitaria che obbliga la Juventus, che sta battendo un calcio d'angolo in superiorità numerica al 115° minuto, a tornare indietro da Birindelli e poi da Buffon.

Non si può non parlare dell'incredibile scherzo giocato dal destino a David Trezeguet, unico giocatore della storia del calcio ad aver sbagliato un rigore in finale di Champions e uno in finale del Mondiale, perdendole poi entrambe; o più dolcemente a Buffon, che a Manchester para due rigori su cinque per ritrovarsi con un pugno di mosche, salvo poi alzare la Coppa del Mondo dopo essere stato spiazzato cinque volte su cinque – compreso Zidane nei tempi regolamentari, e compreso Trezeguet.

Il Milan domina la prima mezz'ora, sfiora il vantaggio con Rui Costa e Inzaghi (Buffon strepitoso) e se lo vede annullare per un fuorigioco attivo di Rui Costa su tiro di Shevchenko. Poi la Juve guadagna metri e coraggio e sale in cattedra la coppia centrale Maldini-Nesta, quest'ultimo decisivo in salvataggio acrobatico su Del Piero. Poi lo spettacolo si fa sempre più rarefatto, non esattamente lo “spot per il calcio italiano” che tutti sognavamo alla vigilia, del resto piuttosto improbabile in una finale in cui tutte e due le squadre possiedono una conoscenza enciclopedica dell'avversario. Si procede per frammenti e sussulti isolati, come il rumore secco della traversa scheggiata da Conte a inizio ripresa o lo stiramento di Roque Junior che obbliga un Milan sempre più sfinito a giocare di fatto in dieci gran parte dei supplementari, con i rigori come unico obiettivo plausibile.

Negli extra-time Sandro Piccinini ripete ossessivamente come funziona la regola del silver goal, estemporanea invenzione UEFA durata lo spazio di un mattino – anche se Mourinho ci ha vinto una finale di Coppa UEFA la settimana prima e la Grecia ci vincerà una semifinale europea l'estate dopo. Le due squadre approdano ai rigori in piena paralisi emotiva e tutti i rigori vengono calciati da gambe segate dalla tensione. La curva juventina intona un improbabile Inno di Mameli che suonerà tristemente profetico: gli unici bianconeri a trasformare il rigore sono proprio gli italiani Birindelli e Del Piero, mentre Dida respinge i tiracci centrali di Trezeguet, Zalayeta e Montero guadagnando quasi un metro rispetto alla linea di porta.

Con l'abbrivio dei gol di Serginho e Nesta, in fondo a quella che è forse la peggiore delle sue sette stagioni in rossonero, Shevchenko trova la forza di mantenere lo zero termico assoluto e calcia in modo esemplare il pallone più pesante della storia del Milan, grazie al quale ancora oggi molti tifosi rossoneri identificano il 28 maggio 2003 come la notte più bella della vita.


Manchester United-Chelsea, 21 maggio 2008, Mosca (Luzhniki)

Ranieri, Mourinho, Ancelotti, Hiddink, Scolari, Benitez, Conte hanno tutti fallito l'obiettivo che sta più a cuore a Roman Abramovich. Ma prima ancora che ci riuscisse Roberto Di Matteo nel 2012, colui che era andato più vicino al colpaccio era stato il “supplente” Avram Grant, un anonimo israeliano di qualche talento che nell'autunno 2007 eredita un Chelsea balcanizzato dalla gestione Mourinho. Presentato ad Abramovich dal mefistofelico Pini Zahavi, mega-procuratore israeliano che esercita un certo ascendente sull'oligarca russo, Grant ha ricevuto accoglienze che potremmo eufemisticamente definire freddine: «Sarà accolto alla grande dallo spogliatoio», commenta Pat Nevin, opinionista BBC ed ex centrocampista del Chelsea, «più o meno come Camilla Parker-Bowles al funerale di Lady Diana».

Eppure “The Unknown One” funziona: nessuno lo ama particolarmente, ma arriva secondo in campionato e soprattutto porta il Chelsea laddove lo Special aveva sempre fallito, ovvero alla finale di Champions. Grazie anche a un tabellone autostradale che oppone ai Blues l'Olympiakos agli ottavi, il Fenerbahce (!) ai quarti e il Liverpool in semifinale, battuto ai supplementari dopo una solenne botta di fondoschiena al 95' della partita d'andata, quando un corto circuito di John Arne Riise ha regalato al Chelsea un insperato pareggio in trasferta.

https://twitter.com/ChelseaChadder/status/1120228378953625601

Per il Manchester United, che il campionato l'ha vinto, si è trattato invece della solita stagione straordinariamente ordinaria dell'era Ferguson, che ha provato a incendiarla ulteriormente evocando le ricorrenze della tragedia aerea di Monaco di Baviera (50 anni) e della prima Coppa Campioni (40 anni). È definitivamente esploso Cristiano Ronaldo, non più aletta un po' fine a se stessa ma centravanti a tutto tondo, che subito prima della finale di Mosca ha toccato quota 40 gol in stagione per la prima volta in carriera. L'arrivo di Carlos Tevez, dopo il “parcheggio” al West Ham, ha fruttato altri 19 gol e ha allargato ulteriormente gli orizzonti di un attacco che può contare anche su un Rooney tornato in ottime condizioni dopo una frattura al piede destro; in difesa la coppia Vidic-Ferdinand è certezza assoluta e ha concesso un solo gol (al Lione, ininfluente) nelle sei partite di ottavi, quarti e semifinali.

Il destino ha previsto che l'inseguimento di Abramovich alla sua prima Champions debba concludersi proprio a Mosca, dove il fuso orario fa iniziare la partita alle 22:45 locali: sarà la prima e unica finale della storia del torneo disputata a cavallo della mezzanotte.

Sotto una pioggia very british i primi 25 minuti scorrono via alquanto irrilevanti, finché Cristiano Ronaldo non prende l'ascensore e incorna magnificamente il cross di Wes Brown: 1-0 United. Il Chelsea barcolla e ringrazia Cech che si salva alla grande su Tevez e Carrick in pochi secondi; lo United ha la partita in mano ma si distrae fatalmente a cavallo del 45', quando van der Sar pattina in area di rigore e consente a Lampard di arrivare sul pallone quell'attimo prima che basta per pareggiare. Le dita di Frankie puntano immediatamente verso il cielo, nel ricordo di mamma Pat scomparsa meno di un mese prima.

Nel secondo tempo l'1-1 diventa di marmo, suggerito anche dall'estremo equilibrio dei tre precedenti stagionali, un pareggio e una vittoria per parte. Solo il gigante Drogba prova a estrarre il coniglio dal cilindro, con un formidabile destro dal giro dal limite dell'area che sbatte sul palo alla sinistra di van der Sar. La pioggia moscovita diventa diluvio e la fanghiglia del Luzhniki risulta micidiale ai 22 in campo, appesantiti da una battaglia giocata a ritmi da Premier.

Il secondo tempo diventa una specie di Rumble in the Tundra con l'equilibrio che barcolla sulla clamorosa traversa di Lampard (94') e dalla parte opposta su un formidabile salvataggio sulla linea di capitan Terry (100') su un tiro da pochi metri di Ryan Giggs, che ha scelto una notte affatto banale per la sua 759^ presenza da diavolo rosso, una in più del precedente primatista Bobby Charlton. I rigori incombono e non tutti mantengono i nervi saldi: Drogba si fa coinvolgere in una rissa da saloon e tira uno schiaffo a Vidic, finendo espulso. Al minuto 124'40”, poco dopo l'ingresso in campo dei rigoristi (?) Anderson e Belletti, l'arbitro Michel dichiara conclusa la finale di Champions più lunga di sempre.

All'una e mezza passata, in una notte bianca che non sarebbe dispiaciuta a Dostoevskij anche se non siamo a San Pietroburgo, il primo a sbagliare è l'ultimo da cui te l'aspetti: ma il peso della prima finale di Champions gioca un brutto scherzo a Cristiano Ronaldo, che s'inchioda sulla rincorsa per poi farsi ipnotizzare da Cech. I Blues sono infallibili e Cech quasi para, toccandolo solamente, il rigore di Nani che renderebbe pleonastico il quinto tiro del Chelsea.

Sul dischetto si presenta John Terry ed è in quel momento che la fortuna presenta a Grant tutto il conto di una stagione col vento a favore: il capitano scivola sull'erba bagnata e calcia sbilanciato, anche se poi non così male, van der Sar è spiazzato ma arriva il palo – il terzo della serata – a pietrificare la faccia di Abramovich in tribuna. Anche i ricchi piangono sarebbe titolo persino banale, ma del resto banale è ormai anche l'indirizzo dei rigori che seguono: Giggs segna il settimo rigore e Anelka – che si presenta dagli undici metri con la faccia di chi ha capito tutto – invece no.

A 37 anni, dodici anni dopo la sua ultima finale persa ai rigori a Roma contro la Juventus, Edwin van der Sar si riscopre portiere di spessore internazionale. Terry piange a dirotto come mai gli abbiamo visto fare in carriera. In panchina, non utilizzato per 120 minuti, un ombroso Andriy Shevchenko pensa che forse avrebbe potuto rendersi utile.


Bayern Monaco-Borussia Dortmund, 25 maggio 2013, Londra (Wembley)

La nuova generazione del calcio tedesco, già benedetta da Pep Guardiola che nel gennaio 2013 ha annunciato il suo approdo al Bayern Monaco dalla stagione successiva («È il miglior progetto che mi è stato sottoposto»), vive un epilogo di Champions incredibile con la prima finale über alles che è anche uno scontro filosofico tra due differenti Germanie, quella solida e tradizionale del 68enne Jupp Heynckes contro quella fieramente non convenzionale del 45enne Jurgen Klopp. Questi è la clamorosa sensazione della stagione: dopo aver portato un Borussia Dortmund semi-derelitto a due Meisterschale consecutivi, ha esportato in tournée il suo modello heavy metal nei maggiori stadi europei, superando ai quarti con molta fortuna il Malaga di Manuel Pellegrini (in circostanze che l'Ingegnere gli rinfaccerà ancora a sei anni di distanza) e poi schiantando il Real Madrid di Mourinho con un poker di Robert Lewandowski che non ha precedenti nella storia delle semifinali europee. E nonostante la sconfitta per 2-0, la resistenza al Bernabeu nel match di ritorno non è stata neanche poi così sofferta.

Il Bayern invece ha rifilato un +25 in campionato al Borussia ed è passato sopra col carrarmato a tutte le avversarie della fase a eliminazione diretta. Ha avuto un attimo di rilassamento agli ottavi contro l'Arsenal, rischiando di riaprire la qualificazione dopo aver vinto 3-1 all'Emirates, ma poi ha dominato il doppio confronto con la Juve ai quarti e in semifinale ha disintegrato il Barcellona con un incredibile 7-0 totale che non ha bisogno di ulteriori commenti. Sembra una squadra imbattibile, di quelle che attraversano il cielo d'Europa ogni vent'anni, dove la pur elevatissima qualità tecnica viene oscurata da una forza fisica e mentale senza precedenti, che si sublimano nel formidabile portiere Neuer che sembra l'Uomo che Cadde sulla Terra di David Bowie.

La finale di Londra (con gli inglesi che sfottono: «Finalmente torneremo a vedere dei tedeschi perdere a Wembley») però si rivela subito essere un altro affare: una partita aperta, sfrontata, assai veloce e divertente. Nel 4-2-3-1 di Klopp manca Mario Gotze, già promesso sposo al Bayern: sulla natura del suo infortunio al bicipite femorale i maligni andranno a nozze. Ma poco importa, visto che il Borussia domina ugualmente la prima mezz'ora, pur andando regolarmente a sbattere contro l'alieno Neuer. Le occasioni fioccano e quelle del Bayern, riassestatosi dopo le turbolenze iniziali, arrivano in coda al primo tempo, con un notevole intervento hockeystico di Weidenfeller che stoppa di faccia Robben paratoglisi davanti.

L'olandese, vero gatto nero delle due grandi finali giocate e perse con l'Olanda (Mondiali 2010) e il Bayern (Champions 2012), deve interrogarsi nell'intervallo sul suo destino di Grande Incompiuto; e deve trovare anche la risposta giusta, visto che torna in campo trasfigurato e pronto a diventare, finalmente, decisivo. È lui che mette il tiro-cross, bucato da Schmelzer, comodamente appoggiato in rete da Mandzukic (60'); ed è sempre lui che, dopo il pareggio su rigore di Gundogan, si avventa per primo sul tacco di Ribery sporcato da un difensore e, con il tiro più sporco e scoordinato della sua intera collezione, segna il gol più importante della carriera al minuto 89 della finale di Champions League. Heynckes completa il suo triplete in salsa bavarese e dà il benvenuto a Guardiola, che alla guida del Bayern si fermerà in semifinale per tre stagioni su tre.


Real Madrid-Atletico Madrid, 24 maggio 2014, Lisbona (Estadio Da Luz)

Appena un anno dopo e la Germania è già il passato – o almeno i suoi club: la Nationalmannschaft irrorata di guardiolismo vincerà con pieno merito il titolo mondiale al Maracanà. L'intensità protesa spasmodicamente in avanti del Borussia di Klopp viene sostituito con quella più reattiva e reazionaria dell'Atletico Madrid di Diego Simeone, conducator di una squadra di maverick che appena una settimana prima ha centrato la prima grande impresa stagionale, andandosi a prendere al Camp Nou un titolo inaudito e diventando l'unica squadra ad arrivare prima di Messi e Ronaldo nello stesso campionato. Ma hanno fatto cose strabilianti anche in Champions, prima eliminando ai quarti il Barcellona, letteralmente soffocato nella partita di ritorno al Calderón, e poi dando una lezione di calcio in semifinale al Chelsea di Mourinho, costretto mestamente a schierare il suo proverbiale pullman davanti alla porta nell'andata in Spagna (0-0) solo per prenderle sonoramente (1-3) a Stamford Bridge.

Ancora meglio ha fatto il Real Madrid di Ancelotti, che si è esaltato nel sacco di Monaco di Baviera, quando Carletto ha fatto ridiscendere sulla terra Pep Guardiola, lasciandogli percentuali brutali di possesso palla solo per umiliarlo con più gusto in una doppia semifinale conclusa con l'aggregate di 5-0, in cui Cristiano Ronaldo ha battuto il record di marcature in una singola edizione di Coppa Campioni, che durava dai tempi di José Altafini (1962-63).

(Un vero e proprio cortometraggio da 13 minuti sulla strepitosa partita di Cristiano Ronaldo all'Allianz Arena).

È un derby, ma non potrebbero esserci due avversarie più lontane per storia, prestigio, aspettative, atteggiamento. Di nuovo in finale a dodici anni dall'ultima volta, il Real Madrid va a caccia della sospirata Decima contro un rivale che ha ricordi pessimi della sua unica finale di Coppa Campioni, quella del 1974 persa al replay contro il Bayern Monaco dopo che in gara-1 i tedeschi avevano evitato la sconfitta all'ultimo minuto dei supplementari grazie a un tiraccio dello stopper Hans-Georg Schwarzenbeck che aveva sorpreso il portiere Miguel Reina, padre di Pepe.

Il peso della Storia peserà non poco sulla finale di Lisbona, che Ancelotti è costretto a giocare senza il metronomo Xabi Alonso (squalificato, lo sostituirà Khedira). Simeone invece è privo del turco Arda Turan, uomo decisivo in Liga, e il suo miglior attaccante, Diego Costa, si tiene insieme con lo scotch. Il Cholo decide di rischiarlo ugualmente, bluffando pietosamente (si è parlato di una miracolosa terapia a base di placenta di cavallo consigliata da una dottoressa di Belgrado), e mal gliene incoglie: il neo-spagnolo, atteso a un Mondiale disastroso con la Selección, è costretto al forfait già dopo otto minuti e Simeone deve bruciarsi un cambio (entra Adrian Lopez). Ben diversa la strategia di Ancelotti, che ha deciso di lasciare in panchina l'argenteria proprio come ha fatto in campionato al Calderón, e quasi ci scappava il colpaccio: restano a sedere Isco e Marcelo, cui viene preferito il padrone di casa Coentrao.

L'Atletico gioca con il sacro furore dell'ora o mai più e la mette subito sulla dimensione che gli è più congeniale, la corrida. Istruito a tenere il ritmo basso, il Real si muove a disagio e va sotto al 36' su una di quelle situazioni che Simeone sta provando allo sfinimento da due anni. Nella primavera del 2014 Diego Godin è sicuramente il miglior colpitore di testa al mondo, se è vero che ha deciso la Liga una settimana prima al Camp Nou ed eliminerà l'Italia dal Mondiale brasiliano svettando su Bonucci e Darmian; e soprattutto, la sera del 24 maggio 2014 punisce uno svarione di Casillas e porta in vantaggio l'Atletico, rispettando in pieno il piano-gara di Simeone che ora può definitivamente schierare i suoi con l'efficacissimo 4-5-1 penitenziale che fa dannare ogni avversaria.

Il secondo tempo del Real è un vicolo cieco finché Ancelotti non fa entrare Marcelo, ridando colore e dimensione anche alla partita di Di Maria che nel 4-3-3 sta giocando interno sinistro da qualche settimana, mandando al manicomio numerose difese che non capiscono chi debba marcarlo. La marea blanca sale impetuosamente ed esalta il masochismo dei colchoneros, abituati a godere nella sofferenza. Ma quando il quarto uomo solleva la lavagnetta con i minuti di recupero la cronaca diventa storia, e la storia del Real non può che avere la meglio su quella dell'Atletico, rappresentata dal povero Cebolla Rodriguez inquadrato in panchina con le mani tra i capelli qualche secondo prima che Modric pennelli il corner fatale: spunta la testa di Sergio Ramos, ed è 1-1.

Parlando di Ancelotti si ripeterà fino alla noia l'aforisma di Napoleone che preferiva i generali fortunati a quelli valorosi: ma in questa finale sono sotto gli occhi di tutti i meriti dell'allenatore emiliano qui in versione Guglielmo da Baskerville, bravo a farsi cucinare nel proprio brodo da Frate Simeone per poi rovesciare di colpo il pentolone. Com'è facile immaginare, ai supplementari non c'è più la partita e anzi l'Atletico è bravo a resistere ai propri crampi fisici e mentali per altri venti minuti, fino a crollare tre volte sotto i colpi di Bale, Marcelo e Ronaldo, che al quinto anno di Real festeggia finalmente una Champions vinta nella notte in cui è stato più anonimo. Dopo una serata passata a masticare cicche e caramelle per tenere a bada la tensione e il nervosismo, Ancelotti può finalmente esultare: è la sua terza Champions League, come solo l'inglese Bob Paisley, ed è l'uomo della Decima, sollevata al cielo da un Iker Casillas altrettanto sollevato. Seduto accanto prende appunti il suo vice, Zinedine Zidane.


Real Madrid-Atletico Madrid, 28 maggio 2016, Milano (San Siro)

Ogni tanto il calcio concede la rivincita e così, appena due anni dopo il crudelissimo epilogo di Lisbona, l'Atletico ha la possibilità di vendicarsi a San Siro di un Real apparentemente ben più dimesso e crepuscolare del precedente. Non c'è più Ancelotti, sostituito da Benitez poi giubilato nel giro di mezza stagione per fare spazio al super-florentiniano Zidane, e non sta bene neanche Cristiano Ronaldo, indolenzito da parecchie settimane dopo aver rimontato quasi da solo il Wolfsburg ai quarti di finale.

Il vento spira tutto a favore dei colchoneros, che rispetto al 2014 ha perso gli spigoli di Miranda e Diego Costa ma è enormemente cresciuto in tecnica e freschezza, con il folletto Griezmann acceso dal giovane Saul Niguez, che al Bayern ha segnato uno dei gol più belli dell'edizione. Per intensità ed emozioni, le due semifinali sono sembrate appartenere a due sport diversi: Real Madrid-Manchester City è parsa la réclame della valeriana, mentre il duello ideologico tra Guardiola e Simeone ha infiammato l'Europa per due settimane: alla fine ha prevalso il cholismo, ben riassunto in questi pochi secondi di furore agonistico persino contro il suo stesso team manager.

Milano è invasa di madrileni, con i tifosi dell'Atletico in grande maggioranza. Reduce dalla festa del Leicester, Andrea Bocelli dà il benvenuto alle squadre in campo gorgheggiando l'inno della Champions in italiano: «Loro sono, loro sono i maestri!». Simeone avverte evidentemente l'inedita pressione del favorito tanto da presentarsi addirittura con l'anticaglia Fernando Torres, che proprio a San Siro, appena un anno prima, era sembrato un ferrovecchio umiliato e smarrito nel Milan di Inzaghi. E proprio questa pressione, resa ancora più acuta dal ricordo traumatico di due anni prima, rende la partita molto grigia, condizionata dall'ansia da prestazione dell'Atletico cui si oppone un Real sornione fino all'ammicionamento, che fiuta l'odore del sangue e punisce banalmente con il solito calcio piazzato girato in rete dal solito Sergio Ramos, probabilmente in fuorigioco.

È la finale di due anni prima, al contrario: avanti 1-0 senza troppo merito, il Real fa l'Atletico e regala all'avversario il possesso palla, serrando i ranghi, abbassandosi di 20 metri e sporcando ogni linea di passaggio immaginabile. Nell'intervallo Simeone intuisce che così non si può andare avanti e sostituisce il modesto Augusto Fernandez con il belga Ferreira-Carrasco, passando al 4-3-3 e scuotendo almeno un po' la pozzanghera stagnante in cui si è impantanata la partita.

L'Atletico ha subito la grande occasione, causata da una sciocchezza di Pepe che sgambetta Torres in piena area: ma Griezmann, roso dalla tensione, si fa distrarre dal balletto di Navas e centra la traversa. Poi null'altro da segnalare fino al 70', quando le squadre si allungano, il Real si mangia un paio di contropiedi in modo indecoroso e un minuto dopo incassa il pareggio proprio di Carrasco, su bell'assist di Juanfran. Ma il peggio deve ancora venire: come appagato per averla sfangata, l'Atletico decide di accontentarsi di portarla ai rigori e il Real, ancora più inaccettabilmente, gli dà corda a causa della serata no delle sue tante stelle, in un lungo e sfinente no-contest di oltre 40 minuti (supplementari compresi).

I primi sette rigoristi vanno tutti a segno, spiazzando il portiere per ben sei volte. Poi tocca a Juanfran ed è ancora una volta questione di centimetri: Navas la tocca con le unghie mandando la palla a sbattere sul palo, stendendo un tappeto rosso per l'ultimo penalty di Cristiano Ronaldo, notoriamente l'ultimo a farsi delle preoccupazioni. L'Undecima del Real coincide con lo smacco più grande della carriera di Simeone, tradito proprio sul terreno dei nervi, dove sembrava imbattibile: il Cholo scompare nel tunnel di San Siro aggiustandosi istericamente il nodo della cravatta e la camicia nei pantaloni.


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