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Il derby del Río de la Plata
17 giu 2015
Un gol di Agüero piega l'Uruguay in un clásico teso e ruvido. L'Argentina può essersi sbloccata?
(articolo)
8 min
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Il Río de la Plata è conosciuto come el río más ancho del mundo, il fiume più largo del mondo: sulle sue rive si specchiano, l’una dirimpetto all’altra, Argentina e Uruguay. L’asticella della competizione tra le due nazioni rioplatensi è discretamente elevata da sempre e su un po’ tutti i fronti: si contendono i natali di Gardel, del tango, del dulce de leche. E il primato calcistico, praticamente da quando il fútbol esiste.

La prima partita internazionale disputata dalle due Nazionali è una partita tra le due Nazionali, che si sono sfidate per aggiudicarsi giochi olimpici, Mondiale (il primo), Copa América (la prima, quella del 1916, della quale l’anno prossimo ricade il Centenario).

Il bilancio tra Albiceleste e Celeste in Copa América, in limine alla sfida di ieri sera, era di una parità così equilibrata da ricordare il Río de la Plata in giorni in cui non tira un alito di vento e la corrente spinge sorniona l’acqua lungo il corso del fiume: tredici vittorie ciascuna, quattro pareggi.

Il signore all’estrema sinistra è José Nasazzi, secondo me il più forte terzino sinistro che la storia del calcio mondiale abbia avuto.

Specchiarsi #1

La specularità tra le due Nazionali è stata in primis tattica: el Tata Martino e el Maestro Tabárez hanno schierato le loro formazioni con un 4-2-3-1 praticamente identico nelle intenzioni e nei principi di base, qualcosa di simile a due crew di b-boy che stanno per sfidarsi in una dance battle in cui sanno che per prevalere l’uno sull’altro ci sarà bisogno del coupe de theatre dei singoli, perché freeze e headspin sono nel repertorio di entrambe le contendenti.

L’Argentina è scesa in campo con Romero tra i pali difeso da una coppia di centrali solida e quadrata come quella composta da Garay e Otamendi, tra i quali el jefecito Mascherano si è sovente abbassato, magistrale interprete della salida lavolpiana, con la godibile prevedibilità di Maracaibo mare forza nove in una serata estiva in riva al mare, permettendo ai laterali difensivi di spingersi in attacco: Marco Rojo a sinistra e sulla destra Zabaleta, preferito a Facundo Roncaglia, che quando viene impiegato sulla banda lateral si trasforma in qualcosa di molto poetico e surreale, mi ricorda alcune poesie destabilizzanti di Rodolfo Wilcock.

Al fianco di Mascherano il laziale Biglia ha preso il posto di Banega, garantendo una geometria più ordinata, più trigonometria e meno impeto, necessario bilanciamento al quartetto offensivo formato dal flaco Pastore, dal fideo Di María e Leo Messi subito alle spalle del Kun Agüero.

Ma perché OWT non ha convocato Laxalt e Nico López? Non sono bellissimi insieme?

La formazione uruguaya era esattamente sovrapponibile a quella avversaria: voglio dire che se avessimo disegnato i volti dell’undici argentino su un foglio di carta velina e l’avessimo sovrapposto all’undici uruguaiano avremmo notato numerosi punti di contatto, ma anche le sbavature tipiche della mano incerta, o di chi ha meno talento nel disegno.

Soprattutto la mediana alta e l’attacco somigliavano a una claque di cosplayers dell’attacco argentino: Cebolla Rodriguéz nei pantaloni troppo a sigaretta di Di María, il giovane e interessante Rolán intabarrato in una delle giacche dal taglio elegante di Pastore e Lodeiro nella parte (con un risultato che avrebbe strappato un’espressione di disgusto, «non gli somiglia per niente», agli spettatori del parterre del Teatro Colón di Baires) di Messi. Ah, e Cavani a fare il Kun, anche se sarebbe pronto a sostenere il contrario.

Specchiarsi #2

Il fatto, in buona sostanza, è che tutti puntano talmente tanto sull’immagine di Leo che alza la Coppa da aver creato questa specie di campo magnetico intorno a Messi, che non lo fortifica né indebolisce, ma semplicemente lo fa fluttuare in quel limbo fascinoso in cui gli eventi che succedono e le contingenze del mondo semplicemente scorrono, panta rei, come le acque del Río de la Plata, panta Rio. L’immagine di Messi fluttuante in realtà è di Jorge Valdano, che ieri sera ha accompagnato come commentatore la telecronaca messicana, e confesso d’aver tradito la TVN, la tv nazionale cilena che sta coprendo mediaticamente tutta la competizione, solo ed esclusivamente per la presenza di Valdano, della sua letterarietà, della sua voce roca da storyteller blues.

Ovviamente Messi, oltre che nella lista delle high expectations, è anche al centro delle critiche, come potrebbe non esserlo, soprattutto in patria, dove ad esempio l’ultimo caso è quello che i giornalisti hanno sollevato per averlo beccato a confabulare (immagini e audio lasciano poco spazio all’immaginazione, in effetti) con Di María, confabulare e ridacchiare mentre tornavano in campo per disputare il secondo tempo contro il Paraguay: erano in vantaggio 2-0 e sembra si stessero facendo beffe del discorso motivazionale che el Tata aveva tenuto negli spogliatoi. A conti fatti, poco motivazionale visto che l’Albiceleste ha praticamente consegnato le chiavi della ripresa agli avversari guaraní, permettendo loro di acciuffare un pareggio insperato.

Ma a specchiarsi, quel tipo di specchiarsi alla Narciso nell’acqua di fonte, sono soprattutto i suoi compagni di reparto: Agüero in primis, magnitudo 8 nella Scala Richter dell’Egoismo, dove i Thenardier de I Miserabili sono la magnitudo 7.5 e Ibra la 9. Ho contato almeno quattro occasioni in cui, con Pastore libero, si è deliberatamente disinteressato del compagno. Ok l’egotismo del centravanti, ma dove si trova la sottile linea rossa che divide la fame agonistica dall’essere stronzi? E poi un abulico Pastore, praticamente scomparso nel secondo tempo di Argentina - Paraguay, e Di María, semplicemente mai, neppure per un istante, ai livelli stratosferici di Brasile 2014.

Sì, ci sono stati momenti in cui osservare Di María con la Selección non era noioso.

Specchiarsi #3

L’Argentina, per continuare a sperare in una Copa América distesa, aveva un risultato a disposizione, che era portare a casa i tre punti. Dopo il pari con il Paraguay, e la vittoria dell’Albirroja contro la Giamaica (il gol rischia di passare alla storia come il più simpatico e involontario della competizione, e a calcio tedesco avrebbe mandato in tilt i conteggi) perdere contro l’Uruguay avrebbe significato dover puntare a un piazzamento da migliore terza, che è un po’ come trovarsi in seconda fila quando punti a diventare la vedette del Bolshoi.

Tiro in ballo la danza classica perché il primo flash che mi è sopraggiunto quando ho visto Javier Pastore liberarsi con una giravolta di Pereira, per poi appoggiare d’esterno a Zabaleta che ha crossato per il colpo di testa vincente del Kun Agüero, è stata l’istantanea di una ballerina che smette di osservarsi nella parete di specchi della palestra e s’abbandona all’istinto, riscattando un intero pomeriggio di mestizia e rassegnazione per un allenamento storto. Poi più tardi ho anche pensato al meccanismo di scambio con il quale il capostazione devia il corso dei treni su un binario diverso.

Ridimensionarsi (o del sovvertire l’immaginario)

Quando Árevalo Ríos, con la sola imposizione della sua prestanza fisica, ha frenato l’ennesimo tentativo di apilada di Messi (l’apilada è quel mirabile e presuntuoso tipo di giocata che consiste nell’impilare avversari dietro di sé, incartarli in una serie di dribbling, gesto tecnico prerogativa di visionari, folli e fuoriclasse) si è verificata un’epifania: Leo ha, in una certa maniera coerente con l’essere Messi, reagito. Avevo già notato contro il Paraguay una specie di versione coatta de la pulga inveire contro il rivale, sbraitargli a mezza bocca un irrispettoso la concha de tu madre. Il fatto è che da Messi ci aspettiamo mirabilie venusiane, performance cristiche nel senso letterale del termine, da incensati, da eletti, e forse dovremmo scendere a patti che il Messi riottoso ci manda in cortocircuito le relazioni tra és e io.

Non esiste clàsico senza qualche ruvidezza, e la sfida tra rioplatensi di ieri non ha fatto eccezione: se il pubblico s’aspettava la garra uruguaya l’ha avuta, se anelava all’agonismo ecumenico di Mascherano non è rimasto deluso: in più si è trovato nella fortunata posizione di assistere all’espulsione del Tata, non proprio il tipo di allenatore che siamo abituati a veder allontanare dal campo, e a una scoattata che ci saremmo attesi da Ice Cube, non da Messi.

È stata una partita tesa, in cui l’Argentina ha cercato di non ripetere l’errore della sfida contro il Paraguay, ovvero quello di cedere un tempo all’avversario, e si è limitata a lasciare alla Celeste la piena iniziativa solo nell’ultimo quarto d’ora: un tirare i remi in barca che se non è risultato fatal poco ci è mancato. Forse Martino dovrebbe lavorare di più sulla concentrazione del suo undici, e sulla tenuta più psicologica che atletica.

L’Uruguay, dalla sua, dopo la vittoria contro la Giamaica ha perso un’occasione propizia per sovvertire l’immaginario, mettere i dirimpettai nella difficile situazione di dover vincere contro la Giamaica e mettere il proprio destino nelle mani di Uruguay e Paraguay. È stata una partita dura, come ogni partita di Copa América, come ogni derby, come la somma algebrica delle due cose.

Ma soprattutto è stata una partita nervosa, e quindi brutta, e trovo paradossale—ma anche significativo—che si sia giocata a La Serena, una specie di paradiso per le vacanze estive cilene, ma in inverno, all’interno di uno stadio da quindicimila posti in cui, ogni domenica, gioca una squadra che milita nella Serie B cilena.

Ottantacinque anni fa Uruguay e Argentina si disputavano la finale della prima Coppa del Mondo nello Stadio Centenario, centomila posti a sedere. Oggi, per sperare di avanzare in Copa América, devono vincere—e non sarà facile, perché nessuna partita in Copa América è facile—contro Paraguay e Giamaica. Magari è un segno dei tempi, magari no.

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