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Il giocatore più scorretto di tutto il Sudamerica
30 ott 2024
Cioè Deyverson: attaccante dell'Atlético Mineiro, giullare del calcio brasiliano.
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12 min
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IMAGO / TheNews2
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Metti su l’acqua per la tisana al finocchio, abbassa le luci, fai partire una playlist rilassante. Ora comincia a pensare intensamente a un calciatore che detesti, che detesti non di per sé, ma perché hai l’impressione che sia lui, per primo, a detestarti. Quel tipo di calciatore che contro la tua squadra si trasforma, diventa un fenomeno, diventa l’essere umano più irritante sulla terra, più provocatorio, più dissacrante, più scorretto, più cattivo.

Ogni tifoso sudamericano che, in limine alla Copa Libertadores, si concentra su questo piccolo ma essenziale esercizio stilistico vede sempre materializzarsi, sulle pareti scintillanti delle retine, la figura – con quei capelli platinati, quel sorriso paraculo, quello sguardo furbetto – di Deyverson Brum Silva Acosta.

Sì, Brum. Esattamente, Deyverson.

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Su X, già dai tempi in cui si chiamava ancora Twitter, c’è tutto un culto sotterraneo, intimo e irriverente, che sublima la figura di Deyverson, che la eleva al Pantheon dei giocatori più scorretti, e per questo antipatici, e per questo però anche più pieni di A U R A, dell’intero Sudamerica, probabilmente del mondo. Affondare però con i piedi nelle sabbie mobili della deyversonmania significa anche trascorrere molto tempo a osservare un uomo – solo contingentemente brasiliano, solo contingentemente calciatore – che sarebbe il perfetto oggetto di studio di una spedizione antropologica che ha come missione quella di capire com’è, e quando accade, che la scorrettezza sfocia nel divertente; e questo qualcosa di divertente, caricato di sguaiatezza, diventa farsa. Quando il talento sfocia nel ridicolo; oppure il talento che ci vuole, per essere ridicolo.

Deyverson è quel tipo di personaggio che porta a scrivere: "Deyverson è il brasiliano definitivo. Non conosce altra calzatura che non siano gli scarpini, o le infradito. È quello che non mangia mai con le posate, e che prega Gesù mentre tradisce la moglie con un travestito". Certo, è una definizione impregnata di machismo e transfobia, con una vena anche un po’ razzista. E forse restituisce di Deyverson solo un aspetto, quello di villain però con una malizia ingenua, da sciocco e ipocrita provinciale. Altri lo definiscono semplicemente un buffone. Deyverson, però, è un buffone diverso da tutti gli altri.

È un buffone talentuoso, e forte. Talentuoso e forte nell’essere buffone tanto quanto nel giocare a calcio. Ed è un buffone che sa essere decisivo.

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Nella semifinale di andata della Copa Libertadores, all’Arena MRV di Belo Horizonte, Deyverson ha contribuito con una doppietta alla demolizione del River Plate da parte del suo Atletico Mineiro. Quello qua sopra è il primo dei due gol, che si apprezza meglio nella visuale da bordocampo. Sul lancio che proviene dalla trequarti si avventano le due punte del Galo: Hulk e Deyverson. Due giocatori totalmente diversi, direi radicalmente opposti nel fisico e nella maniera di interpretare il futebol, e ovviamente nelle parabole di carriera. Oltre che nel range di simpatia, per il quale azzarderei questo paragone: Hulk sta a Deyverson come Maurizio Crozza sta a Giorgio Montanini.

Hulk carica come fosse un tight end nel football americano: si scontra con l’avversario con la stessa impassibilità del parabrezza di fronte ai moscerini, o delle palle demolitrici di fronte ai palazzi da abbattere. La palla schizza allora verso Deyverson che con due tocchi di sinistro controlla, salta il portiere, e ha bisogno giusto di un terzo, d’esterno, per appoggiare la palla in rete. Se vi concentrate sul suo volto dopo il secondo tocco, quello con cui manda fuori giri il portiere, non vi sfuggirà che sta ridendo. Il secondo gol, meno appariscente ma forse più eloquente di cosa sia Deyverson per questa squadra – il lampo che squarcia il cielo dopo l’assembramento di nuvoloni, oppure il colpo di grazia del matador dopo una faeda estenuante – è questo:

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Le cose più belle nella serata trionfale contro il River Plate, Deyverson, in realtà, le ha fatte – come gli capita spesso – lontane dalla porta, lontane dalla pericolosità, lontane, addirittura, dal gioco. O meglio: nel gioco parallelo che lui stesso mette in scena, da unico partecipante, una declinazione da stand-up comedy, durante il gioco che stanno osservando tutti, quello principale, in cui ci si aspetta che ventidue ragazzi, o uomini, giochino al calcio. Quello di Deyverson è avanspettacolo, gag à la Buster Keaton, escapologia e prestidigitazione.

Per capire cosa intendo, perché Deyverson è una specie di Mago Forrest, guardiamo questa scena: González Pirez ha commesso fallo. Deyverson lo guarda da terra, gli tende una mano per farsi aiutare a rialzarsi, poi cambia mano all’improvviso: i riverplatensi rimangono spiazzati, ammazza che simpaticone, ma non è ancora niente rispetto a quello che Deyverson fa subito dopo.

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Finta di accelerare la battuta della punizione, e quando Nacho Fernández cambia direzione per seguire la potenziale traiettoria della palla, ecco: Deyverson si blocca il piede dietro la schiena, come si fa quando si fa stretching. E poi niente: se ne va, lascia la punizione a un compagno.

Cosa avresti pensato, se qualcuno lo avesse fatto durante la tua partita di calcetto? Che l’avversario fosse un buffone? Un pagliaccio? Che ti stesse provocando? Ecco: Deyverson è la risposta a tutte queste domande, tutte insieme.

In occasione della semifinale di ritorno, a Buenos Aires, con molti occhi puntati su di sé e un’atmosfera incandescente, Deyverson non ha cambiato il suo modo di essere – testimonianza del fatto, semmai ce ne sia bisogno, che non recita una parte. Alcuni autobus che trasportavano i tifosi del Galo sono stati oggetto di una sassaiola, e quando la polizia si è rifiutata di scortare l’autobus della squadra Deyverson gli ha dato dei cagasotto. Dal finestrino spuntava, dentro una busta di plastica, una maglia del Boca Juniors: in fondo, anche in tempi non sospetti, Deyverson ha dichiarato di amare particolarmente gli "xéneizes", ma è ovvio che in questo contesto la sua era una vera provocazione. Chissà se ha indossato quella maglia, sotto alla divisa da gioco. Chissà, se avesse segnato, se avrebbe avuto il coraggio di mostrarla agli ottantamila di un Monumental che somigliava, letteralmente, alle porte dell’inferno.

Quando è stato sostituito, dopo una partita non brillantissima, ha indossato un paio di tappi per le orecchie.

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Poi ha mimato il gesto della gallina, fatto linguacce, tirato una riga sul suo petto che evocava la banda orizzontale della maglia del Boca. Un gesto che ha reiterato più volte, anche al termine della partita.

Deyverson è fatto così: è quello che esulta come un pazzo davanti alla tua panchina dopo aver conquistato una rimessa laterale, quello che dopo l’ennesimo fallo si inginocchia di fronte all’arbitro e chiede «por favor» se può ammonire il rivale recidivo, e poi scatta per andarsi a intromettere in una rissa pochi metri più in là; che sussurra vai a capire cosa all’orecchio dell’avversario, e che per via dello spintone che riceve in risposta vola a terra; è quello che le promette, ma in fondo, poi, non le dà mai.

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Sono tutte ottime motivazioni per odiare Deyverson, cioè uno che ha fatto della farsa il suo principale talento, e che ha trattato il talento in maniera farsesca? Forse no, eppure forse sì.

Bisognerebbe capire cosa abbia fatto di così inaccettabile da guadagnarsi questa nomea da buffone: io credo che se c’è un momento che può essere considerato palingenetico dell’odio ecumenico nei confronti di Deyverson, quel momento è la vittoria back-to-back della Libertadores 2021, nella quale è pure stato votato come miglior giocatore della competizione. In quella finale, contro il Flamengo, è entrato in campo all’inizio dei supplementari (i 90 minuti erano terminati sull’1-1). Quattro minuti più tardi ha approfittato di un tentennamento di Andreas Pereira, platinato come lui, e ha messo a segno il gol decisivo. Cinque minuti per entrare nella gloria.

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A questo punto, gli unici che possono odiarlo, diciamocelo, sono i tifosi del Flamengo.

Poi, però, durante il recupero, eccolo protagonista della madre di tutte le teatralate: si libera, sorridente come solo chi sta per portare una coppa a casa, dalla morsa di un giocatore del Flamengo, e mentre irriverente ride verso un altro l’arbitro gli dà una pacca sulla spalla per allontanarlo dai prodromi di una rissa. E lui, che fa?

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La verità è che questo ragazzo con la faccia simpatica la misura l’aveva già piuttosto colmata: nel corso di quella stessa Libertadores, Deyverson aveva subito falli rialzatosi dai quali aveva aizzato la folla, era rovinato a terra come colpito da un colpo di fucile dopo spallate innocue o semplici gesti, era rotolato a terra svariati secondi dopo aver subito un fallo (e chiesto a gran voce una verifica al VAR), aveva esultato con balletti che sembravano challenge su TikTok. Quanto in là ci si può spingere, oltre i limiti della decenza, della rispettabilità, per non fare la fine di quello che prima viene additato come pagliaccio e subito dopo perseguitato per tutto il campo? A pensarci bene non è strepitoso che Deyverson sia ancora là, a correre sulle sue gambe in una semifinale di Libertadores?

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A quel punto, fresco campione continentale, Deyverson deve aver capito che c’era bisogno di una scelta che spaccasse la sua carriera, di un brand washing. Tornare in Europa non era una soluzione – in Europa, in fondo, Deyverson non è mai stato un calciatore strepitoso: dopo due stagioni incoraggianti nel Benelenses è finito per essere una meteora a Colonia, al Galatasaray, a Valencia sponda Levante, al Getafe (esperienza che ci lascia giusto un momento davvero memorabile, in cui non si capisce se finga un infortunio durante un’esultanza solo per attirare l’attenzione o se si sia davvero fatto male dopo aver mostrato al pubblico il puma tatuato sulla coscia), all’Alavés.

L’opportunità per ripulire la sua immagine gliel’ha data il Cuiabá, la squadra della capitale del Mato Grosso appena promossa nel massimo campionato brasiliano, che nel 2022 lo ha messo sotto contratto. Il biennio con i "dorados" è stato qualcosa a metà strada tra un lungo, lunghissimo farewell tour in cui, a ogni replica, tutti si aspettavano una sua uscita pazzissima (come il pubblico di Nando Martellone attendeva la deflagrazione di un «bucio de culo») e Roberto Baggio a Brescia.

Al Cuiabá, Deyverson ha imparato a ridere di se stesso, quando in un costante abbattimento della quarta parete è diventato qualcosa di parodiabile; a elogiare e consolare un portiere dopo avergli segnato un rigore contro, a chiamare l’applauso del pubblico per una giocata del difensore avversario che gli ha evitato di andare verso la porta. Ha chiesto scusa ai tifosi del Flamengo per il gol con cui gli ha rubato sotto gli occhi la Libertadores (ma secondo me qua li stava un po’ prendendo in giro), ma ha anche continuato a fare lo showman, come in questa partita contro il Mixto, nel derby cittadino, in cui il campo era allagato e lui ha pensato bene prima di far finta di nuotare in una pozzanghera e poi di dare una mano a rendere il campo praticabile.

In un’intervista ha detto «normalmente dicono di me che sono un tipo che fa folklore, che si butta a terra, però a parte quello ho dimostrato in campo cosa significhi giocare, il buon calcio, fare gol». In un’altra: «quando mi chiedono se preferirei essere più un uomo che fa ridere o un grande calciatore la mia risposta è sempre la stessa: per me l’una non esclude l’altra».

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Deyverson a Cuiabá è stato più amato o detestato? Impossibile dirlo. Certo, ha segnato molto, ha spesso trascinato i suoi a successi insperati – palesemente fuori dimensione per la squadra, li ha condotti a una salvezza, ma ha anche celebrato il titolo in Supercoppa brasiliana del Palmeiras, e i tifosi non l’hanno presa benissimo, ecco. Lo hanno accusato di essere alla costante ricerca di altri ingaggi (ed era vero), di sentirsi al di sopra della squadra (e forse era vero anche questo), di non essere proprio un esempio di professionalità.

Chiamato a testimoniare di fronte alla Corte Suprema di Giustizia Sportiva nel ricorso a fronte di una squalifica per sei giornate, ha partecipato alla call direttamente dal letto.

Lo hanno accusato di pensare più ai video TikTok con la compagna Karina che al campo. In campo non si è mai tirato indietro, però. E neppure su TikTok.

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Lei ha raccontato che Deyverson si è presentato al loro primo appuntamento vestito con una maglia piena di paillettes, un paio di pantaloncini neri e delle scarpe arancioni, e la prima cosa che ha fatto quando lei è salita in macchina è stata scoreggiare. Lui invece ha risposto che deve tutto a Karina che lo guarda sempre dall’alto. «Non nel senso che è morta», ha specificato, «ma nel senso che è sugli spalti».

Forse è stata Karina a motivarlo, a fargli capire che a Cuiabá era sprecato, che avrebbe potuto ancora dire la sua, che avrebbe potuto smentire tutti quelli che dicevano fosse solo un pagliaccio, beh, facendo il pagliaccio, ma in maniera ancora più eclatante e decisiva.

L’Atletico Mineiro lo ha ingaggiato ad agosto, lo ha presentato in limine all’inizio della fase a eliminazione diretta della Libertadores. Era avvenuta la stessa cosa, dieci anni prima, con Ronaldinho. Lui, Deyverson, si è messo a piangere per la commozione in conferenza stampa.

Il fatto è che Deyverson, in fondo, sembra essere davvero un bravo ragazzo. L’animo da trickster ce l’ha nel destino (in fondo il suo nome ha il suono molto simile a Diversão, che in portoghese significa “divertimento”): è un Neymar che non è arrivato a essere Neymar ma ne è rimasto una versione spicciola, dozzinale, pezzotta, come le imitazioni dei pupazzi della Disney che trovi alle fiere di paese o nelle insegne delle pizzerie.

Deyverson rappresenta quel che resta dell’idea romantica che hanno, in Brasile, del calcio brasiliano: l’irriverenza, la fame di affermazione, l’ambizione. Il divertimento. La capacità di sdrammatizzare, di sbalordirsi e allo stesso tempo giocare la parte di chi la sa lunga, di chiedere un cambio innecessario per un avversario, di scambiarsi con il rivale cenni di un’intesa un po’ cringe all’interno dell’area, insomma di non prendersi troppo sul serio, che diventa in fondo anche un’arma, l’arma della leggerezza, grazie alla quale il peso della responsabilità si fa meno gravoso.

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L’apporto di Deyverson al futebol è sempre stato quella capacità di trasportarlo, per certi versi, in un mondo di finzione in cui somiglia al wrestling. In cui, nel giro di un minuto, come in quella famosa frase di Ezra Pound, c’è tempo per scelte e ripensamenti che potranno cambiare nel giro di un minuto stesso. Ma anche in cui, alla fine, il trionfatore è sempre lui, un po’ cattivo un po’ paraculo, con i suoi colpi di genio, con quel suo sorriso assassino, con quella maniera di giocare – di amare il calcio. «Cara coppa», dice a una riproduzione della Libertadores, di fronte a una giornalista, con buon piglio attoriale, «eccoci ancora una volta qua a vivere questa storia d’amore». «Non abbandonarmi», chiude la dichiarazione, «e io non ti abbandonerò».

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Che sembra poi, alla fine, anche un appello al gioco del calcio, e a chiunque sia entrato a far parte, in una maniera o nell’altra, del suo culto intimo.

Ora chiediti perché, pur detestando Deyverson, ecco: non riesci davvero ad odiarlo.

Anzi: non senti già anche tu di esserne in qualche modo malsano affascinato, attratto, succube?

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