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Il rumore della traversa
23 mar 2018
La storia da calciatore di Luigi Di Biagio e la Nazionale italiana si è consumata nell'arco di due calci di rigore.
(articolo)
20 min
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“Un rigore ha bisogno di tutti gli ingredienti che compongono il calcio (campo, pallone, porta, giocatori, arbitro), tuttavia le sue leggi non sono quelle del gioco. È un’azione primaria che non esprime ma semmai mutila il calcio e che, ciò malgrado, non riduce ma concentra le emozioni. La lotta fra comunità si trasforma in un combattimento a due. Uno contro uno. Il duello”.

Jorge Valdano, Il sogno di Futbolandia

Gigi si avvicina all’area con lo sguardo di chi non pensa di poter sbagliare. A 27 anni sta vivendo il momento migliore della sua carriera, iniziata sui campi di un oratorio di Testaccio. «Ci stavo dalla mattina alla sera, fin da quando avevo cinque anni. Giocavo a qualsiasi cosa, basket compreso. A calcio mi mettevano davanti perché avevo un bel tiro, una bella “pigna”, come si dice, chissà perché, a Roma». Di Biagio sta per spazzare via alcuni dei luoghi comuni sull’esecuzione di un calcio di rigore, e non in senso positivo, ma non può averne il più vago sentore. Dalla sua ha la tranquillità dello specialista abbinata a quella di un giocatore in stato di grazia. Con la maglia della Roma Zdenek Zeman lo ha definitivamente restituito al grande calcio, dopo averlo riscoperto con la maglia del Foggia. Cesare Maldini, chiamato sulla panchina azzurra in seguito al turbolento rientro a Milanello di Arrigo Sacchi, si fida di lui. Delle sue doti da regista, del suo calcio secco e potente da fuori area, di quell’indiscutibile senso del tempo sullo stacco, che lo rende minaccia per le difese avversarie sulle palle inattive nonostante una stazza tutt’altro che imponente.

Piazza la palla sul dischetto. Segnare significherebbe andare avanti a oltranza, sbagliare vorrebbe dire eliminazione. L’Italia è reduce da due Mondiali funestati dagli errori dagli undici metri.

I sogni infranti di Italia ’90 e delle notti magiche non portano alla mente tanto i volti tristi di Donadoni e Serena quanto l’uscita disgraziata di Walter Zenga su Caniggia, la finale persa con il Brasile ha invece come icona la sagoma in controluce di Roberto Baggio, mani sui fianchi e sguardo perso nel vuoto. Nell’immaginario collettivo, il Divin Codino è riuscito a restare una figura quasi mistica, nonostante - e forse anche grazie a - quell’errore. Si era arrivati all’ultimo atto di Usa ’94 sulle sue spalle - Nigeria, Spagna, Bulgaria – e il velo di mistero sulle condizioni fisiche aveva quasi attutito la responsabilità, peraltro da condividere con Baresi e Massaro. Ma l’ultimo errore ha sempre un peso diverso, e il fatto che non fosse comunque un rigore decisivo fino in fondo, visto che al Brasile sarebbe bastato segnare il successivo per alzare la Coppa al cielo di Pasadena, è passato spesso in secondo piano.

Prima di Di Biagio avevano già sbagliato Lizarazu e Albertini, ma il suo era l’ultimo rigore, di una serie in cui gli azzurri si stavano giocando l’accesso alle semifinali dei Mondiali contro i padroni di casa. «Dovevo essere il terzo, poi all’ultimo il mister mi disse che avrei tirato per ultimo. La cosa non mi ha scosso. Terzo o quinto, per me, era uguale».

Un rigore sbagliato è anche una questione di rumori. Riascoltare i due tonfi che si susseguono a brevissimo giro di posta è una ferita per tutti i tifosi azzurri. Il destro di Luigi Di Biagio che prende il pallone in maniera netta, pulita. Troppo pulita. E poi la traversa, un suono più metallico, le speranze dell’Italia calcistica spente all’improvviso. Il boato di Saint-Denis è il sottofondo assordante e fastidioso, una lama che entra nella carne già lacerata del numero 14 azzurro. Probabilmente c’è anche un quarto rumore, impercettibile se non per i diretti protagonisti. È quello di Di Biagio che si accascia, con le mani sul viso e l’onta del fallimento che arriva quando meno te lo aspetti. «Ho un vuoto. Non ricordo niente. Solo il botto della traversa e quel tremendo boato. Ci credo, erano tutti francesi».

Qualche minuto prima, Roberto Baggio aveva allontanato l’incubo di Usa ’94 trasformando il primo della serie. Il dito portato alle labbra ma senza arroganza, con la testa bassa. Di Biagio avrà la stessa possibilità di riscatto due anni più tardi, realizzando dal dischetto nella serie contro l’Olanda, al termine di una delle partite più iconiche – e agoniche – della storia del nostro calcio. Un riscatto riconosciuto solo in parte, perché calciare un rigore è un atto di profonda solitudine e di spaventosa ingiustizia. Chi segna fa il suo, chi sbaglia diventa un inetto.

Francia 1998, il dolore

Per arrivare a vestire la maglia della Nazionale, Di Biagio aveva compiuto tutti gli step necessari. Non è un predestinato eppure si affaccia in Serie A otto giorni dopo il suo diciottesimo compleanno. È un regalo di Beppe Materazzi, tecnico della Lazio neopromossa. Lo lancia in una partita di fine stagione, contro la Juventus, a gara in corso. «Mancavano sette minuti alla fine. Io ero teso, ovviamente. Il mister mi guardò e disse, semplicemente, la parola che per me è la chiave per interpretare bene il calcio: “Divertiti”. E basta. Così tutto cominciò».

Neanche il tempo di prenderci gusto che la Lazio lo cede al Monza. Un addio inatteso, amaro, che forma l’uomo prima che il calciatore. Tre anni tra Serie B e C1, poi la chiamata di Zdenek Zeman a Foggia. C’è una squadra da rifondare, e non per i pessimi risultati. La gioielleria di Zemanlandia è stata saccheggiata, per il tecnico boemo si può costruire il centrocampo attorno al prodotto del vivaio laziale. Dura tre stagioni anche il suo ciclo rossonero, che si apre con il primo gol in A alla sesta giornata – capolavoro contro il Genoa – e si chiude con l’amarezza della retrocessione in B nel 1994-95 agli ordini di Catuzzi. Quindi la Roma: prima Mazzone e qualche ruggine con ambiente e tecnico, poi Carlos Bianchi e la parentesi Liedholm, infine la possibilità di riabbracciare Zeman.

Anche il boemo era stato scaricato dalla Lazio e i due ripartono insieme: la prima stagione in giallorosso con il vecchio maestro, condita da 7 reti in 30 presenze, lo proietta verso il Mondiale. Cesare Maldini lo conosce bene, lo ha allenato anche ai Giochi del Mediterraneo del 1993, periodo in cui Di Biagio doveva sposarsi. «Mi disse: “Non ci sono problemi: giochi, ti sposi e torni”». La prima maglia azzurra che conta è quella del 28 gennaio 1998, in amichevole, contro la Slovacchia, anche se anni prima era arrivata una convocazione da parte di Arrigo Sacchi, senza però scendere in campo. Alla vigilia del Mondiale, la presenza di Di Biagio nell’undici titolare non è uno dei temi caldi. C’è chi rinfaccia a Maldini l’ingratitudine nei confronti di Casiraghi, che aveva segnato il gol decisivo per la qualificazione nello spareggio con la Russia, e chi si dispera per l’infortunio di Peruzzi, andato ko nel percorso di preparazione.

Nella piena tradizione pre-mondiale italiana, la sconfitta in amichevole con la Svezia, firmata da una zuccata di Kennet Andersson, semina il panico. Il c.t. sceglie un’Italia abbottonata per l’esordio contro il Cile, Di Biagio non c’è. Si pensa a una passeggiata senza aver fatto i conti con Marcelo Salas. La perla con cui il Matador porta sul 2-1 la Roja fa impazzire Pedro Carcuro, storico telecronista cileno, e getta nello sconforto gli italiani, salvati solamente da un rigore furbescamente guadagnato e poi trasformato col brivido da Roberto Baggio.

Per la seconda partita, quella con il Camerun, Maldini pensa a Di Biagio, utilizzato solamente a gara in corso contro il Cile. La stampa cerca di abbozzare un dualismo con Roberto Di Matteo, non contenta dell’elefante nella stanza rappresentato da Baggio e Del Piero. «Non scherziamo, rispetto a Roberto e Alex noi siamo semplici lavoratori», si schernisce Gigi. «Zeman mi ha telefonato in ritiro prima della partita con il Cile, mi auguro di non averlo deluso. Petruzzi mi chiama tutti i giorni e mi dice: “Gigi, sei sempre amico mio?”, come se il fatto di partecipare ai Mondiali mi avesse cambiato». Insieme hanno scritto una pagina intramontabile della televisione italiana, facendo da complici nello scherzo a un non ancora sposato Francesco Totti, ordito da Scherzi a parte.

Di Biagio e Petruzzi parlano a voce bassa mentre un imberbe Totti cade nella rete, regalando un paio di uscite epiche. Clamoroso il timing della battuta con cui provoca la pudica Cristiana a 1:55.

Sogna il tricolore con la maglia della Roma e indica in Lothar Matthäus, che in Francia sta vivendo il suo quinto Mondiale da calciatore nel nuovo ruolo di difensore centrale, il suo modello. Di Biagio, ovviamente, non può ancora immaginare che finirà per vivere la stessa parabola tattica del fuoriclasse tedesco, chiudendo la carriera tra Brescia e Ascoli in una posizione profondamente diversa da quella degli esordi all’oratorio dei salesiani. «Lothar è sempre stato il mio idolo. Mi piace la sua autorità, come si muove in campo, come carica i compagni. Ho appena firmato un contratto fino al 2002, voglio vincere uno scudetto con la Roma».

Il trasferimento all’Inter gli negherà questa gioia. Ma con il Camerun scende in campo e segna il gol numero 100 per l’Italia nella storia dei Mondiali con uno dei pezzi forti del suo bagaglio tecnico, l’inserimento in area per il colpo di testa. Nella stessa partita, rischia anche di salutare il torneo per un intervento folle di Raymond Kalla. «La sua è stata un’entrata da criminale. Magari non voleva rompermi la gamba, ma avrebbe potuto farlo e per qualche minuto ho avuto paura di essermi spaccato sul serio. Non porto rancore a Kalla perché fortunatamente il danno è di modesta entità ma non posso concepire che alcuni giornali italiani abbiano giudicato esagerata l’espulsione. Pare che non ci siano danni gravi al muscolo ma avverto ancora dolore».

Paura a parte, non può fare a meno di vivere il momento: in una Nazionale che si appoggia ai gol di Vieri e alle giocate di Baggio, Di Biagio si ritaglia via via un ruolo importantissimo, è forse all’apice della sua carriera anche dal punto di vista fisico e Maldini gli affida la regia, snaturando Albertini pur di sfruttare Gigi al meglio. E nelle sue parole, nell’arco del Mondiale, c’è sempre un pizzico di rammarico per la mancata considerazione precedente. «A livello tecnico sono sempre stato un buon centrocampista, spero di continuare a esserlo. Non avendo vent’anni, non credo che l’Italia mi abbia scoperto al Mondiale».

Gli azzurri battono l’Austria e vanno agli ottavi, pur perdendo Nesta per un’entrata killer di Pfeifenberger. Contro la Norvegia è suo l’assist per l’1-0 di Vieri, in una partita finita anche nelle pieghe di Così è la vita grazie al racconto di Riccardo Cucchi. Di Biagio vola sulle ali dell’entusiasmo, è uno dei punti fermi della Nazionale e ringrazia Zeman praticamente in ogni intervista. «La preparazione di Zeman ha effetti positivi anche adesso, quando qualcuno comincia a tirare il fiato. I carichi di lavoro sopportati in passato sembrano un ricordo. Un ricordo che ci fa volare. Se non fosse venuto Zeman sarei dovuto andarmene da Roma, io gioco meglio nella Roma che qui. Ma qui sono più preciso e certe cose, adesso, le faccio grazie a quello che ho fatto con Zeman. La Francia deve stare attenta, dai quarti in poi sono tutti uguali e non ci saranno favori da nessuno».

Vent’anni più tardi è rimasta solo la fotografia di quel rigore sbagliato, ed è più difficile ricordare invece il contesto. Per la stampa Di Biagio è il leader neanche troppo nascosto della Nazionale, l’artefice della crescita azzurra. Il dualismo con Di Matteo si è trasformato e ora il penalizzato sembra essere Albertini: la Francia presenterà il conto a entrambi. «Demetrio sta soffrendo e mi dispiace. Dopo essere stato uno dei punti fissi di questa squadra sta vivendo un Mondiale strano, dove rischia di non giocare o di farlo in una posizione che non è la sua». Quel sottofondo di malcontento permane, nonostante tutto. «La mia maglia della Nazionale a Roma va a ruba? Due anni fa avevo problemi a passeggiare per strada».

A Roma vengono allestiti due maxischermi per i quarti di finale: allo Stadio dei Marmi e al Palazzetto dello Sport. La partita con la Francia è dura, spigolosa. Nel supplementare, Baggio conferma la sua leggenda anche nell’imperfezione con quello che, secondo alcuni, è il più bel non gol della storia dei Mondiali. Si va ai rigori, fino al tiro di Di Biagio. Diventa una questione di rumori.

I rigori non sono una scienza esatta. Rivedendo il penalty di Costacurta pare inspiegabile l’esito positivo: la rincorsa praticamente sulla stessa linea del pallone, calciato in maniera non pulitissima. Il contrario dell’esecuzione di Di Biagio, che rimane a terra tramortito mentre tutti intorno fanno rumore.

Nei racconti delle ore successive, gli aneddoti si sprecano. Nell’allenamento della vigilia, Di Biagio - si racconta - aveva segnato tre serie consecutive di rigori contro Pagliuca. In sala stampa si presenta la controfigura del centrocampista brillante dei quindici giorni precedenti. «In quel momento avrei voluto sparire. Sono partito tranquillo, volevo calciare forte e centrale, l’esecuzione più facile. Quando ho sistemato la palla sul dischetto ero convinto di scaraventare il pallone in rete. Invece…».

Il grande Mondiale giocato fino a quel momento viene improvvisamente dimenticato. Di Biagio è il simbolo della sconfitta contro gli odiati francesi, lanciati verso la vittoria finale. Nelle interviste di fine carriera, non c’è giornalista che non torni su quell’episodio. Ogni volta, l’ex centrocampista aggiunge qualche dettaglio in più, come se dovesse ricostruire qualcosa di cui davvero non ricorda tutti i particolari fino in fondo. Pezzi di flashback che vanno a formare un puzzle ancora incompleto a distanza di vent’anni. «Quelle immagini erano trasmesse da ogni telegiornale, continuavano a girare. Ho rivisto tutto in modo davvero consapevole solo sei mesi dopo. Ho potuto rivedere tutti i dettagli. Da quel giorno avrò rivisto il mio rigore migliaia di volte. Al termine della partita ricordo solo un grande silenzio, la sensazione che quel Mondiale lo si potesse vincere davvero. Eravamo quasi certi che, se avessimo superato la Francia, saremmo potuti andare in finale. E vedendo come il Brasile giocò la finale, dopo il malore di Ronaldo, il rammarico aumentò».

Forse è stata davvero la troppa sicurezza a tradirlo, in un ribaltamento delle convinzioni sui rigoristi che sbagliano perché pensano troppo al modo di calciare. «Per me era stato un Mondiale da incorniciare fino a quel momento. Decisi che avrei tirato forte, centrale e sotto la traversa. Invece l’ho presa, la traversa. Volevo tirare forte, in modo da non fargliela vedere proprio (la palla a Barthez)».

Nel 2016, in una lunga intervista concessa a Walter Veltroni sulle pagine del Corriere dello Sport, Di Biagio ha fornito una chiave di lettura in più. «Vorrei che ogni bambino innamorato di calcio provasse quello che ho vissuto in quei cinquanta passi dal centrocampo al dischetto del rigore. Vorrei che ciascuno provasse quella sensazione di orgoglio, quell’adrenalina, responsabilità, che si sente in momenti così. Ero tranquillo, sicuro di segnare. Stavo bene fisicamente e mentalmente. Calciai con tutta la forza che avevo, dritto per dritto. Ma calciai troppo bene. Se l’avessi sporcato un po’, quel tiro… Ad Albertini, che aveva sbagliato prima di me, dico sempre che mi deve una cena perché nessuno si ricorda del suo errore. Il mio invece sembra indelebile».

Olanda 2000, l’espiazione

La ricostruzione di Gigi Di Biagio inizia qualche ora dopo quel rigore maledetto. «Tre giorni dopo volai in Colombia perché avevo adottato una bambina. La vita fu più forte di tutto il resto». La piccola Rebecca, sognata a lungo, è la pietra da cui ricominciare. Racconta qualche mese dopo: «Parlarne prima non avrebbe avuto senso, parlarne adesso significa invitare quelli che possono a muoversi in fretta perché ci sono tanti bambini in attesa di genitori. La mia piccola ci è stata affidata che aveva trentotto giorni, adesso ha quasi tre mesi e la sentiamo assolutamente nostra, al punto che né io, né mia moglie abbiamo voluto conoscerne la storia. Le emozioni di questo genere devono restare private, ne ho parlato solo per spingere i dubbiosi a lanciarsi: spero che il mio esempio possa indicare a molti la via giusta».

Poi torna a Roma, ad accoglierlo c’è uno Zdenek Zeman diventato improvvisamente ingombrante per la celebre intervista a L’Espresso, sul calcio in mano ai farmacisti e gli attacchi alla Juventus. Gigi dribbla le domande scomode, pensa al campo e a una Nazionale affidata a Dino Zoff. «Credo di poter rimuovere quell’errore con la Francia, me lo dice anche il fatto di essere di nuovo qui a parlarne. Zoff dovrà formare un gruppo e io ci sono, almeno per ora».

Nel biennio che porta a Euro 2000, Di Biagio perde la centralità faticosamente conquistata con Maldini, pur rimanendo costantemente nell’elenco dei convocati del nuovo commissario tecnico. Cambia anche maglia, scaricato a fine mercato nell’estate del 1999 da Fabio Capello, scelto da Franco Sensi al posto dell’amato Zeman. Una situazione particolare: Don Fabio lo blinda nei primi mesi di mercato, facendo sfumare un’offerta faraonica del Chelsea, e poi lo ritiene di troppo una volta messe le mani su Assunçao. «Mi sono reso conto che sono due giocatori dalle caratteristiche molto simili. Sono contento per Gigi che potrà giocare titolare in una grande squadra come l’Inter, a noi dovrebbe arrivare in cambio un giovane di sicuro avvenire come Cristiano Zanetti».

In nerazzurro ritrova Bobo Vieri, strappato alla Lazio a suon di miliardi: l’intesa è quella di sempre, contro il Verona Di Biagio scende in campo a match in corso dopo essere arrivato a Milano da sole 48 ore e serve l’assist per la prima tripletta interista del centravanti. «Solo fortuna. Se Bobo non avesse segnato, nessuno avrebbe dato importanza a quel pallone. Ne faccio tanti di lanci del genere, ma se la palla non va dentro non vengono evidenziati». Alla seconda di campionato c’è subito la Roma e Di Biagio torna ad accendersi emotivamente. «I tifosi sono arrabbiati perché sono venuto via, fino a ieri non era così. Intendiamoci, ci sono state anche tante persone che in questi anni mi hanno voluto bene e continuano a volermene. Ma adesso chi non ha creduto in me probabilmente si mangia le mani. Ho giocato otto anni nelle giovanili della Lazio e ho pagato questo passato. Quando le cose andavano bene era tutto normale, quando andavano male ero il primo a essere criticato e spesso diventavo il capro espiatorio». Finisce 0-0, la stagione prosegue bene a livello personale e Di Biagio fa parte della spedizione per l’Europeo.

Assiste dalla panchina alle prime due sfide, reduce da qualche problema muscolare di troppo, ed entra in campo dall’inizio soltanto contro la Svezia, in una partita usata da Zoff per far rifiatare i titolari a qualificazione già acquisita. Apre le marcature con il solito colpo di testa su palla inattiva, manda un bacio al cielo, abbraccia Del Piero. «Ho mandato un bacio verso l'alto, ma non voglio mischiare calcio e religione». Anche in un momento del genere, a distanza di due anni, deve rispondere a domande sul rigore di Italia-Francia e sul riscatto arrivato con il gol. «Acqua passata. Quell’episodio resta nella storia del calcio italiano ma a me non è passato neanche per la testa».

A riaprirgli le porte della formazione titolare è Gheorghe Hagi. Un suo intervento durissimo fa fuori Antonio Conte, Zoff si affida a Di Biagio già nei 35 minuti rimanenti di Italia-Romania e poi gli riserva una maglia per la semifinale con l’Olanda padrona di casa. Stavolta l’uomo forte del centrocampo azzurro è Albertini: «Ho caratteristiche tali da poter coesistere tranquillamente con Demetrio e spesso mi sono augurato di poter fare coppia con lui in campo». Puntuale come solo la morte e le tasse sanno essere, arriva la domanda sui rigori: secondo gli insider, Di Biagio non li prova più in allenamento. «Certo, e ho un ottimo motivo per comportarmi così. Vorrei restarne fuori, stavolta, ma sapete com’è, è una questione di tensione nervosa, quello che senti al momento. Non puoi mai stabilire prima i cinque rigoristi perché poi capita che uno ha preso una botta, o non se la sente. E allora è meglio fare l'appello sul campo. Il mio augurio è di non arrivarci a questa lotteria ma poi magari capita che vado a calciarlo. Adesso dico no, ma poi una volta in campo potrei sentirmela di tirare».

L’Italia gioca una partita epica, talmente assurda da rendere l’epilogo ai rigori un sollievo. Un paradosso, vista la storia recente degli azzurri. Eppure, dopo 120 minuti di agonia, con due penalty sbagliati dagli olandesi e la capacità dei ragazzi di Zoff di tenere botta in 10 contro 11 dal 34’ per l’espulsione di Zambrotta, c’è ottimismo. Il c.t. deve fare la conta dei superstiti. Le sostituzioni gli hanno tolto tre possibili rigoristi come Inzaghi, Albertini e Fiore. Di Biagio non vuole tirare. Zoff si avvicina, non ha il coraggio di chiedere. Lo sguardo dei due si incrocia. «Avevo una paura dannata di sbagliare, il pensiero di Parigi aveva ripreso a tormentarmi. Zoff è venuto da me in silenzio, mi guardava e non diceva niente, poi girava lo sguardo tutto attorno e lo posava nuovamente su di me». Zoff, Di Biagio, il dischetto in lontananza. È uno stallo alla messicana ma senza pistole. Gigi è il primo a muoversi. «Ho visto i compagni ko per crampi e ho capito, c’era bisogno di me. Ho chiesto di tirare subito, quando ho cominciato a camminare verso van der Sar un po’ mi facevo coraggio, un po’ tremavo per la fifa. Quando ho visto il pallone dentro ho provato una gioia indicibile e ci tengo a dedicarla a mia moglie: soltanto lei sa cosa ho passato due anni fa».

Dopo il rigore perfetto di Di Biagio tocca a Pessotto, che non sbaglia. I calciatori olandesi, in preda a una maledizione, dopo i due penalty in partita sprecano anche i primi due della serie. Di Biagio è sollevato per aver segnato il suo, vede Totti andare sul dischetto e gela i compagni, da Delvecchio a Maldini, preannunciando il cucchiaio del capitano romanista. Il rantolo di Bruno Pizzul dopo l’esecuzione del rigore è l’emblema dello scampato pericolo. Dietro l’angolo c’è la delusione cocente con la Francia, il gol di Wiltord all’ultimo respiro che ci toglie un Europeo già vinto, un commissario tecnico che si dimette per le critiche di Silvio Berlusconi sulla mancata marcatura a uomo di Zidane. Per Di Biagio è comunque il torneo – e il rigore – della rinascita, del riscatto azzurro: «Eppure c’è una piccola cosa che mi dà fastidio, lo dico senza alcuna vena polemica. Sarò sempre ricordato per l’errore del 1998, e pochi ricordano il rigore di due anni dopo. Ma è normale che sia così, lo capisco».

La folle serie di rigori di Italia-Olanda. Degna di nota la smorfia di disgusto di Rijkaard a 3’18”.

Archiviata l’esperienza da calciatore, Di Biagio è diventato commissario tecnico quasi per caso. «Albertini, forse per non pagarmi quella famosa cena, mi disse che in Federazione stavano ristrutturando il settore giovanile. Cominciai facendo l’osservatore per l’Under 21 di Ciro Ferrara, poi mi chiesero di allenare l’Under 20. Ero incerto, poi accettai».

Da quando è in panchina, la sua carriera è stranamente intrecciata con quella di un altro ex calciatore passato alla storia per un rigore decisivo sbagliato. È Gareth Southgate, ipnotizzato da Andreas Köpke nella semifinale di Euro 1996 e poi irriso, insieme a tutta l’Inghilterra, dalla posa provocatoria di Andy Möller. Il torneo del Football’s coming home, l’ennesima eliminazione bruciante patita dall’Inghilterra ai rigori, non l’ultima di una tradizione da incubo. Southgate sa cos’ha provato Di Biagio, è stato bersagliato in maniera peggiore. C’è addirittura una canzone a lui dedicata, in cui il verso "Southgate’s going home – Oh no, he’s missed the bus" è forse il più affettuoso dell’intero brano.

Si sono incrociati agli Europei Under 21 del 2015: Di Biagio ha battuto l’Inghilterra di Southgate per 3-1 nell’ultimo match del girone ma entrambi sono andati a casa dopo i 90 minuti giocati a Olomouc. Catapultato sulla panchina dei Tre Leoni dopo lo scandalo Allardyce come c.t. ad interim nel settembre del 2016, si è guadagnato la conferma e un bel quadriennale. Si troveranno nuovamente nella seconda amichevole che Gigi Di Biagio affronterà alla guida della Nazionale maggiore. Da c.t. dell’Under 21, l’ex centrocampista di Roma e Inter non ha convinto: in ordine di tempo, l’ultimo ad attaccarlo senza mezzi termini è stato Claudio Gentile, che con la Figc non ha certamente buoni rapporti. Al di là di tutto, Di Biagio proverà a emulare Southgate, per affrancarsi da quel destino di icona tragica che la traversa dello Stade de France gli ha riservato quasi vent’anni fa.

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