• Per abbonati
Daniele Manusia

Diario Italia – Perché non sappiamo perdere?

Forse abbiamo un problema con la sconfitta.

Caro diario, permettimi di partire da un ricordo.

 

Era l’estate del 2006, il giorno dopo la finale della Coppa del Mondo, e stavamo guidando una macchina con targa italiana sulla circonvallazione che separa il centro di Parigi dalle sue periferie. A un certo punto un camion ci suona e ci dice qualcosa che non capiamo, ma in modo aggressivo (comunque solo leggermente più aggressivo rispetto dei camerieri che mi chiedevano se volevo altro, dopo il caffè che ci avevo messo un’ora a bere provando a studiare). Ricordo che successe solo questo, oltre a una macchina che la sera stessa della finale si accostò al marciapiede su cui camminavo con degli amici per chiederci se fossimo italiani: “espanol”, ho avuto la prontezza di rispondere, e se ne sono andati. 

 

___STEADY_PAYWALL___

 

Certo, il clima non era dei migliori, in Francia. Avevano perso una finale ai rigori, con la leggenda di Zidane uscita dal campo dopo aver fatto una cosa tanto assurda da rimanere nella storia del calcio, pur avendo poco a che fare col calcio. Tutti quelli che erano intorno a Zidane, istituzioni comprese, hanno provato a giustificarlo. Alla fine sembrava che la finale l’avessero vinta loro, solo che in qualche modo gli italiani erano riusciti a convincere il resto del mondo che l’avessero persa. Era stata compiuta un’ingiustizia, il cui fantasma se ne sarebbe andato dopo molti anni. 

 

Ricordo ancora che il mio amico, quello che guidava l’automobile quel giorno, dopo che il camion fermo come noi nel traffico aveva cominciato a suonare il clacson, di tanto in tanto, per darci fastidio più che per minacciarci, con ironica calma ha commentato: “Noi non sappiamo vincere, per carità, facciamo casino, esageriamo. Ma loro non sanno perdere”. 

 

Il sottinteso, in quello che stava dicendo il mio amico, era che, a parti invertite, noi avremmo preso meglio quella sconfitta. L’Italia veniva dalla delusione di Euro 2000, in cui proprio la Francia ci aveva battuto con un gol nei minuti di recupero e poi con il golden gol di Trezeguet; dalla truffa subita in Corea nel 2002 e dal biscotto svedese-danese del 2004. Non avevamo preso bene nessuna di quelle sconfitte, ci eravamo agitati e avevamo accusato tutto e tutti, allenatori, giocatori, avversari, arbitri, e il calcio italiano aveva seri problemi (l’anno del Mondiale è lo stesso di Calciopoli), ma avevo fatto caso al nostro modo di vivere le sconfitte prima che quel mio amico dicesse quella cosa. Non era vero, se noi avessimo perso una finale in quel modo avremmo fatto fuoco e fiamme, eppure nella vittoria ci sembrava più facile accettare un’ipotetica sconfitta. O magari era solo che eravamo giovani.

 

Quasi venti anni dopo veniamo da due Mondiali saltati con in mezzo un Europeo vinto non certo perché la nostra rosa era la migliore in assoluto. La Serie A non è più il campionato più ambito e ricco da un pezzo, e da un pezzo ormai ci diciamo che i campioni, per una ragione o per un’altra, non nascono più all’interno dei nostri confini. Come prendiamo le sconfitte, adesso che sono diventate una specie di nuova normalità? 

 

Siamo ancora in grado di scrollarcele di dosso con quel senso di superiorità – almeno calcistico – che avevamo fino a un paio di decenni fa? Non è detto che fosse meglio, anzi, l’incapacità di rinnovarci che ogni tanto viene fuori è probabilmente legata a quell’idea di essere il popolo eletto dal dio del calcio, una delle nazioni che per destino (confuso con la storia), o per statistica (siamo pur sempre una cinquantina di milioni) deve produrre calciatori migliori di, che ne so, la Svizzera.

 

Come abbiamo preso un Europeo con due partite orribili, una bruttina e una brutta solo a metà? E cosa ci dice sul clima che si respira in Italia quando si parla di calcio, sulla cultura sportiva a cui contribuiamo ogni giorno? Che senso ha prendersela con Spalletti o con i singoli giocatori se il problema, come più o meno dicono tutti, è sistemico? 

 

Eppure è quello che è stato fatto. Libero ha invitato le “pippe azzurre” ad andare a zappare e, nell’editoriale di Sechi, inizia dicendo che «il calcio è una cosa seria e l’eliminazione della nostra Nazionale dal campionato europeo è una sconfitta che va oltre i cancelli dello stadio». Ma come, il calcio non era la cosa “più seria delle cose meno serie”? No, adesso il calcio è una cosa seria e basta. Sechi più avanti elenca altri sportivi, loro sì modelli: Sinner, Jacobs, Tamberi, Iapichino. Esempi di “umiltà e fatica”, che «non ci inondano di dichiarazioni senza senso, non hanno la tracotanza di chi si sente ricco e in realtà mostra una povertà di spirito agghiacciante». Sarà, forse, anche, che hanno anche meno pressioni e meno sguardi? L’analisi di Sechi è semplice: «il nostro calcio è pieno di palloni gonfiati»».

 

Voi direte, è Libero. Ma quasi tutti, però, hanno tirato in ballo Spalletti e/o i giocatori. Infierendo senza pietà, forse con l’idea di finire dei soldati rimasti feriti su un campo di battaglia, come gesto di pietà. Fabio Capello, intervistato dalla Gazzetta, ha parlato della “presunzione” di Spalletti: perché secondo lui ha ragionato da allenatore di club, cosa che si è vista quando contro la Spagna, contro i più forti esterni dell’Europeo, ha messo la difesa a 4. «Ha mandato in campo una squadra dicendosi: ‘noi siamo noi, loro sono loro, vediamo chi è meglio”». 

 

Per Roncone, sul Corriere della Sera, Spalletti è stato troppo “visionario”, confondendo le idee anzitutto ai poveri giornalisti inviati: «Lui ha cominciato a spiegarci il suo “calcio perimetrale”, che poi doveva diventare “relazionale”. Noi cronisti, francamente, ci abbiamo capito poco. Il guaio, enorme, è che non l’hanno capito nemmeno i suoi calciatori». L’analisi di Roncone tocca anche i calciatori, con giudizi lapidari: “Di Lorenzo, imbarazzante”, “Scamacca, irritante”, “Barella (male male)”. Anche Zaccagni, esaltato troppo dopo il gol alla Croazia, descritto come «un incrocio tra Bruno Conti e Claudio Sala», alla fine si è dimostrato essere «solo Zaccagni». Fagioli, poi, aveva addosso “il tanfo di una squalifica”. Roncone parla di “problemi di autostima”, “claustrofobia”, sembra avere persino pietà per quei giocatori a cui poi, però, si rivolge così nel finale: «Con le cuffie alle orecchie e i loro nécessaire pieni di oli giapponesi e cremine antirughe. Solo una cosa, ragazzi: in vacanza — quando sarete alle Maldive e a Porto Cervo — ripensateci. E un po’ di vergogna, comunque, provatela».

 

“Una vergogna” è stato anche il titolo del Corriere dello Sport, il giorno dopo la sconfitta con la Svizzera. Lorenzo Vendemiale su Il Fatto Quotidiano ha scritto che nonostante il calcio italiano sia “derelitto”, si aspettava che la nazionale italiana fosse più forte di quella svizzera, confrontando uno a uno, tipo figurine, i singoli giocatori (Chiesa con Ndoye, Barella con Freuler etc.). Non si è vista neanche “la mano dell’allenatore”, per Vendemiale i giocatori italiani erano “messi in campo a casaccio” oppure “buttati in campo alla rinfusa”. Come si fa a mettere i giocatori in campo a casaccio, a far entrare Raspadori o El Shaarawy in campo alla rinfusa? Sandro Sabatini, a proposito di descrizioni difficili da capire, per dire che anche i singoli giocatori hanno deluso ha parlato di «Chiesa che doveva essere il nostro Sinner (ma non lo è stato e Sinner a Wimbledon ci va e non giocherà come Chiesa)».

 

Non c’è traccia dell’umana compassione che, pur senza essere mai indulgente, Gianni Brera mostrava nei momenti più difficili. Stefano Barigelli, direttore della Gazzetta dello Sport, ha parlato di squadra “senza onore” e “senza scuse”. Giovanni Malagò, presidente del Coni, ha detto che gli pareva di guardare “Scherzi a parte”, invece di un ottavo di finale dell’Europeo. Nelle pagelle della partita sul Corriere della Sera, Tomaselli ha dato 3 a Luciano Spalletti colpevole si aver svuotato la nazionale di “qualsiasi significato tattico, tecnico e morale”. Anche il Ministro dello sport, Abodi, ha detto prima che lo sport deve insegnare a perdere, ma che all’Italia è mancata una “reazione”, che i giocatori “non sono stati in grado di tirar fuori quella forza morale che la maglia azzurra deve saper inspirare” (che, messa così, verrebbe da pensare che magari è la maglia azzurra ad essere difettosa).

 

Viene quasi da rivalutare Briatore, che dice di averne parlato con Allegri e di aver capito (ma vatti a fidare) che il problema era che la nazionale ha “scimmiottato” altre nazionali, cioè è stata troppo poco italiana; o Cassano che si è dispiaciuto almeno per Spalletti che di più non poteva fare “perché poi nella realtà quei mezzi giocatori che dicono che sono buoni, che dovrebbero venir fuori, e invece facciamo cagare”. Bucciantini, almeno, ha detto di ripartire da Galileo Galilei e da Gadda, che insomma perché no.

 

Qualche analisi più complessa c’è stata, certo, tipo Paolo Condò che sulla Repubblica ha dipinto il contesto dei rapporti complicati tra Lega e FIGC e dei “troppi personalismi” che rendono difficile muoversi e riformare il calcio italiano. Angelo Carotenuto, su Domani, ha risposto implicitamente a Roncone parlando di un “calcio italiano si sente al di sopra dello studio e dell’analisi. È il regno dei conservatori. Chi si sforza di parlare la lingua dell’innovazione, passa per mezzo matto. A Spalletti basta dire «calcio perimetrale», per esempio”.

 

Ma la maggior parte dei commenti (ho evitato di scavare nei social o di citare Fabrizio Corona) non è minimamente autocritico o approfondito. C’è al tempo stesso la pretesa di potersi allontanare dai fatti, come se non ci fosse neanche bisogno di parlare della sconfitta in sé, o delle sconfitte, e da quelle poi risalire a cosa non ha funzionato, distinguendo i vari piani (tattico, tecnico, programmatico, valoriale), saltando a piedi pari fino a dare un giudizio tanto sommario quanto astratto. 

 

Da dove viene l’esigenza di giudicare in questo modo cinico un fallimento, per quanto grande? Come si fa a far sparire l’avversario, ad esempio; come si fa a non voler capire cosa è andato storto, cosa si è sbagliato, così da poter evitare di compiere gli stessi errori in seguito? Tutti i giornali accusano Spalletti di aver parlato troppo di Playstation, di aver fatto pubblicità ingannevole con i suoi “comandamenti”, ed è vero che quando qualcuno ha provato a spostare il discorso sul piano tattico lui si è innervosito. Ma lo ha fatto anche perché quello che ci si aspettava da lui, che si aspetta da tutti i commissari tecnici della nazionale, è che siano prima di tutto delle figure paterne, non solo per i calciatori ma anche per i tifosi.

 

E in che modo i giornali hanno provato ad andare oltre spostando il discorso su questioni più pratiche, più di campo? Qualcuno ha analizzato le ragioni della sconfitta, al di là delle prestazioni dei singoli giocatori o criticando le scelte di formazione di Spalletti, dicendo anche perché secondo loro avrebbe dovuto giocare a 3 o perché sarebbe stato meglio un giocatore invece di un altro – cosa avrebbe dato, ad esempio, di diverso Zaccagni rispetto a El Sharaawy?

 

Non è un problema linguistico, di retorica, ma di pensiero. Si direbbe che tanto meno siano gli argomenti a disposizione per criticare nel merito Spalletti, tanto più severo e lapidario sia il giudizio, perché si scrive con quello che si ha a disposizione e se non si sa cosa sia il calcio “relazionale” basta farsene beffe per togliere l’argomento dal tavolo. 

 

In compenso si può sempre ricorrere ai luoghi comuni: gli stranieri in Serie A che bloccherebbero lo sviluppo di giocatori italiani (contro qualsiasi statistica che ci confronta ai campionati degli altri paesi europei); i giovani non giocano più a calcio, preferiscono i videogiochi, e se ci giocano e sono bravi non hanno spazio in prima squadra (al tempo stesso, non sono buoni abbastanza da farsi spazio). Qualcuno parla del difficile percorso che devono intraprendere i figli di stranieri nati in Italia per avere la cittadinanza, come se il discorso sui diritti vada messo a servizio dello scopo supremo di avere un giorno anche noi il nostro Lamine Yamal.  Così complichiamo l’argomento al punto da renderlo un rebus irrisolvibile.

 

Certo, la nazionale è il riflesso, se non la conseguenza diretta, del modo in cui il calcio viene gestito in un determinato paese, dei suoi investimenti, delle sue strutture, del suo modo di selezionare e di allenare. Anche delle sue idee tattiche. Se sono anni che passiamo a discutere di questioni di lana caprina – il calcio è semplice o complesso? Il possesso palla è inutile o per vincere devo per forza fare più di due passaggi di fila? La costruzione dal basso è parte del complotto LBGT e del politicamente corretto o solo una moda passeggera che ha rincoglionito gli allenatori? – certo che poi è difficile capire perché la Svizzera ci ha distrutto. 

 

Forse l’Italia di Spalletti non ha avuto un’identità tattica chiara anche perché ci sentiamo superiori a questo tipo di cose, perché ci sembra tutto esagerato, solo noi abbiamo il buon senso di marcare a uomo ma non troppo (altrimenti diventa rischioso e richiede troppo allenamento, non è adatto ai campioni etc.); fare catenaccio ma senza soffrire troppo, farlo per il piacere di farlo, per tradizione; e poi essere semplicemente forti con il pallone, in grado di uscire dal pressing senza fare possesso palla (sempre sterile, o quasi sempre), arrivando dall’altra parte con pochi passaggi, due, tre al massimo, meglio ancora direttamente da una palla lunga dalla difesa o dal portiere; dribblando ma, anche qui, nella giusta misura, senza perdere troppi palloni, che se c’è una cosa che non ci piace sono i giocatori che perdono palla per dribblare.

 

Forse se l’Italia di Spalletti ha perso così male è anche perché non abbiamo una cultura della sconfitta. Non sappiamo che farcene e, a pensarci bene, non ci riguarda. Anche questa sconfitta, questo Europeo, non è roba nostra. È roba di Spalletti e dei giocatori, al limite di Gravina. 

 

Non si sa esattamente chi abbia coniato il detto “si gioca come si vive” (forse Valdano), ma il significato è che nel gioco del calcio si specchia la profondità di chi lo gioca, chissà magari anche di una nazione. Va da sé che non serve prendersela con lo specchio per l’immagine che ci rimanda. Ma è quello che stiamo facendo in questi giorni, rompiamo lo specchio sperando di sembrare più in forma e più belli nel prossimo che compreremo. 

 

Perché non c’è modo migliore per prendere una sconfitta che non prenderla affatto, in Italia.

 

Tags :

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).