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Daniele Manusia

Diario Italia: vs Albania

Come arriviamo, emotivamente, all'esordio con l'Albania?

«Caro diario, ci rivediamo al prossimo torneo internazionale. Con lo stesso spirito, mi raccomando». Questo lo scrivevo tre anni fa, dopo che l’Italia aveva vinto l’Europeo battendo l’Inghilterra a Wembley, ai rigori, dopo aver recuperato uno svantaggio arrivato al secondo minuto. Ma che spirito era, quello? Quante cose sono cambiate? 

 

Per chi non conosce questa rubrica: prima di ogni partita confesserò le mie speranze e le mie paure, ragionerò a voce alta sull’Italia  in questo Europeo. Cercherò di essere più breve rispetto agli scorsi anni, ma non posso promettervi niente, dipende anche un po’ da come va il torneo. Quindi, dove eravamo?

 

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Tre anni fa venivamo dalla pandemia, anzi era ancora pienamente nei nostri pensieri, e l’Italia di Mancini veniva da una ventina di risultati utili consecutivi. Non eravamo fomentati, quanto moderatamente ottimisti. Non ci aspettavamo niente, non sapevamo quale fosse il vero limite di quella squadra. Alla fine abbiamo scoperto che, almeno in quel torneo, i propri limiti l’Italia è stata in grado di spostarli sempre un pezzettino più avanti, adattandosi alle circostanze, agli avversari, soffrendo quando era il caso di soffrire (Spagna), buttandola in caciara (Austria), restando coi piedi per terra il più possibile (Inghilterra). 

 

Qualche elemento di quella squadra – nove, per la precisione – è ancora lì. Abbiamo cambiato allenatore e, proprio come tre anni fa, arriviamo all’Europeo dopo aver guardato il Mondiale da spettatori. Anche stavolta, in un certo senso, non conosciamo il reale valore, il livello, di questa squadra. Sulla Gazzetta Luigi Garlando ha scritto che l’Italia è una Nazionale giovane che punta alla prossima Coppa del Mondo, che se arrivassimo ai quarti sarebbe già bello: «Non chiediamo la luna». Sarà, a me non sembra così giovane, come squadra, non più giovane delle altre almeno (solo 5 giocatori sono nati dal 2000 in poi), semmai direi inesperta. 

 

Anche Arrigo Sacchi, nella sua colonna, ha scritto: «Non carichiamoli di troppe responsabilità». E insomma mi sembra che si guardi questa squadra con un po’ di paternalismo, come si fa con i bambini che si etichettano come problematici: poverini, più di questo non possono fare. Ma non era proprio il contrario, che avevamo imparato nel 2021? E l’assurdità della mancata qualificazione al Mondiale successivo non conferma, in modo magari perverso, proprio il fatto che tutto ci è possibile nel bene e nel male? 

 

Allora, se proseguo su questa linea di ragionamento, capisco, forse, perché Luciano Spalletti ha riempito il ritiro di regole disciplinari e comandamenti tattici. Per provare a responsabilizzare il gruppo, a ricordargli che lo spirito di squadra e le motivazioni cambiano tutto in un torneo così breve. Che dipende da loro, insomma, non dal loro valore astratto. Non si aspetta che li leggano o che li imparino a memoria, ma che sappiano che ci sono, che hanno princìpi in comune, che non sono ognuno per sé. 

 

È un undici molto diverso da quello che ho in testa io – in fin dei conti non lo ha capito nessuno come giocheremo – ma comunque non mi sembra affatto male. 

 

Oltretutto mi pare chiaro che se queste cose escono dall’intimità del gruppo-squadra, mentre invece non sappiamo neanche se giocheremo con la difesa a 4 o quella a 3, è una scelta precisa di Spalletti. Non sono “dubbi”, come sto leggendo un po’ dappertutto in giro, ma segreti. Credo che Spalletti abbia le idee più chiare di quello che pensiamo, e lo si è visto già dalle convocazioni. A posteriori: ha senso aver portato Raspadori come possibile terzo centravanti (dopo Scamacca e Retegui) ma anche come possibile trequartista di destra, rispetto a Orsolini che gioca con i piedi sulla linea laterale (per quanto io preferisca Orsolini, in un paragone diretto in questo momento storico). 

 

Ha senso aver portato quattro esterni, due più maturi e di controllo, per così dire (Dimarco e Darmian) e due più dinamici (Cambiaso e Bellanova), due trequartisti che garantiscono verticalità (Chiesa a sinistra e Frattesi a destra) e due che preferiscono il palleggio (Zaccagni e Pellegrini). Così come ha senso aver portato Fagioli per palleggiare vicino a Jorginho in caso di assenza di Barella (che per la partita con l’Albania sembra aver recuperato, mentre è Fagioli ad essersi infortunato). A me sembra che Spalletti sia consapevole che possono esserci diversi modi in cui questa Italia giocherà, e che voglia scegliere volta per volta, forse persino momento per momento, all’interno della partita, come giocare.

 

Ecco forse questo è un punto di contatto con Roberto Mancini nello scorso europeo. La sua presenza. L’idea che l’allenatore, per una Nazionale, sia più importante che in un club. La Nazionale è un scultura senza dettagli definiti, non c’è tempo, ma la forma da dargli, le curve, gli spigoli o le rotondità, quello sta all’allenatore. Spalletti non si nasconde dietro la rosa né dietro un giocatore in particolare. Lui c’è, è pronto, più di quanto immaginiamo. 

 

Questo mi dà speranza. Certo, i tacchi di Scamacca, la voglia pazza di gente come Frattesi e Chiesa di giocare a calcio, Calafiori si allena anche a centrocampo, i piedi sinistri di Bastoni e Dimarco. Tutte cose che mi fomentano. Persino le seconde linee, persino Retegui mi dà emozione quando si muove a bordocampo. Ci credo. Ecco, ci credo.

 

Forse troppo, ne sono consapevole, ma c’è una differenza rispetto a tre anni fa: adesso so che è possibile. Perché se lo è stato tre anni fa, può esserlo anche stavolta. Tra qualche ora, domani, magari avrò ricalibrato le mie idee. 

 

L’Albania ci proverà, se gliene daremo la possibilità, come ci provano le squadre della parte destra della classifica di Serie A quando giocano con quelle di sinistra, e spesso le battono anche. Chissà magari faccio questo paragone perché l’Albania ha alcuni giocatori che vengono proprio da quel tipo di club, giocatori che magari mi piacciono molto come Ramadami o Bajrami, ma penso ci sia una differenza tra questa Italia e l’Albania e che quella differenza andrà dimostrata, concretizzata, con una bella prestazione.

 

Io sono fatto così, prima che le cose iniziano. Sono curioso di vedere cosa c’è dietro quella porta socchiusa e per qualche ragione se provo a usare l’immaginazione non vedo mostri ma, che ne so, una fetta di torta che qualcuno ha lasciato sul tavolo. Alla fine dello scorso Europeo ho scritto che l’Inghilterra ci aveva lasciato la coppa e che noi ce l’eravamo presa. Speriamo davvero che lo spirito sia lo stesso. Tra poco, inizieremo a capirlo.

 

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).