Una stagione NBA è composta da una miriade di storie diverse contenute una dentro l’altra, come una matrioska. Giovani che fanno il salto di qualità, giocatori che aggiungono elementi al proprio gioco, gregari indispensabili per il rendimento della propria squadra: seguire tutti gli intrecci narrativi di una regular season è un esercizio impossibile, soprattutto in un periodo storico come questo tanto intriso di talento.
Ma il fatto che molte di queste storie non riescano a finire nel Grande Occhio che filtra gli highlights di Sports Center non significa che esse siano meno importanti. Ecco perché abbiamo pensato, in conclusione di questa regular season, di elencare 10 giocatori interessanti e/o dal futuro intrigante, che magari non avete avuto modo di seguire durante gli ultimi mesi ma che sicuramente hanno contribuito (o contribuiranno) a rendere la NBA quella lega speciale per cui vale la pena dormire qualche ora in meno la notte.
Showtime!
Miles Bridges
Bridges rappresenta questa categoria meglio di tanti altri giocatori. Chiunque abbia seguito la stagione NBA o possieda un account Twitter ha visto almeno una delle sue clamorose schiacciate, ma in questa stagione l’ex Michigan State è diventato un giocatore molto più completo e sfaccettato dei video sotto il minuto che ritraggono le sue prodezze sopra il ferro. La componente atletica resta quella che alimenta il motore del suo gioco, ma è tecnicamente che Bridges ha fatto il salto di qualità: sebbene i 12.4 punti di media possano non impressionare, la sua efficienza ha raggiunto picchi che se sostenibili cambierebbero il futuro degli Charlotte Hornets.
Soltanto sei giocatori sono riusciti a chiudere la stagione con almeno il 50% dal campo, il 40% da tre e l’85% ai liberi, ma di questi Bridges era l’unico ad aver iniziato la stagione senza mai andare oltre il 43% dal campo e il 33% da tre in carriera. Un miglioramento sensibile per un giocatore che aveva sempre faticato a trovare una dimensione perimetrale, ma che ha migliorato le spaziature degli Hornets concedendo ai tanti creatori di gioco in mano a coach Borrego di operare con più spazio a disposizione.
Aver raggiunto il 39% in situazione in catch and shoot è sicuramente una buona notizia, ma Bridges è sembrato più a suo agio anche nel tirare dal palleggio. Ben 75 delle 159 delle triple dal palleggio segnate in carriera sono arrivate quest’anno e anche se il 44% è un risultato probabilmente insostenibile sul lungo periodo, la fiducia con cui è apparso in grado di leggere le situazioni, senza forzare, fa ben sperare.
La strada per diventare una wing creator di buon livello è ancora lunga: Bridges non sempre riesce a scansionare il campo nella sua interezza e spesso continua a preferire affidarsi al proprio atletismo che alla lettura delle difese. L’essere migliorato nelle decisioni gli ha permesso di iniziare ad ampliare il proprio playmaking, di diventare un rimbalzista più ordinato e anche un miglior difensore di posizione, soprattutto nei pressi del ferro. La sua duttilità tattica ha permesso a Borrego di sperimentare maggiormente con i quintetti ultramoderni, con PJ Washington e Bridges da lunghi capaci di tenere gli avversari al -7% nel pitturato rispetto alle medie stagionali.
Il fatto che Bridges sia venuto fuori nel momento più delicato della stagione di Charlotte, subito dopo gli infortuni di LaMelo Ball e Gordon Hayward, dimostra il carattere del ragazzo. In attesa che si giochino le proprie chance al play-in, nella prossima stagione Charlotte potrà schierare quintetti con cinque esterni bravi nell’attaccare dal palleggio e punire sugli scarichi: i vostri League Pass sono avvertiti.
Darius Garland
Quando i Cleveland Cavaliers hanno scelto Collin Sexton e Darius Garland uno dopo l’altro ai Draft del 2018 e del 2019 in molti si erano chiesti se i due non fossero destinati a diventare i nuovi Lillard e McCollum della NBA. Ma in due anni, oltre ad aver forgiato uno dei migliori soprannomi in circolazione, la coesistenza tra i due è sembrata tutt’altro che idilliaca. L’aspetto difensivo sicuramente incide sulla valutazione – anche se i Cavs potrebbero quantomeno provare ad aggiustare le cose costruendo un reparto esterni presentabile –, ma il vero impedimento sembra essere che entrambi godrebbero nell’avere le chiavi della squadra tutte per loro, senza doverle condividere. E nonostante nel corso dell’ultimo anno Sexton abbia mostra una crescita offensiva convincente, Garland continua a possedere il potenziale più intrigante.
Sebbene abbia chiuso la stagione attorno al 37% da tre (con 24.3 punti di media a sera, tanti) la parabola della carriera di Sexton continua ad apparire simile a quella di uno Zach LaVine o di un McCollum, per restare al paragone con i Blazers. Il che non è poco, anzi; ma nella situazione in cui è Cleveland– che oltre a giocare in un mercato piccolo non è mai apparsa in grado di costruire un proprio futuro al di fuori dell’ombra di LeBron James – trovare un giocatore capace di tenere insieme l’architettura di una squadra con ambizioni importanti è imprescindibile.
Possedendo doti balistiche migliori del compagno, i Cavs utilizzano spesso Garland come decoy per le penetrazioni al ferro di Sexton. Ma Garland sa come prendere il proscenio: nel suo gioco c’è qualcosa di Trae Young, Steph Curry e Damian Lillard, quella capacità di palleggiare in retromarcia per analizzare meglio il campo. E come loro anche Garland sembra a proprio agio nel flirtare col logo di centrocampo.
In questo Garland sembra avere un ceiling più alto rispetto al compagno. Il numero degli assist è già cresciuto vistosamente (da 3.9 a 6.2 assist di media a sera), quello delle palle perse è diminuito e cosa ancora più importante Garland quest’anno ha fatto vedere di essere capace di un’efficienza migliore – passando dal 35.5% al 39.8% da tre e crescendo vistosamente sia nelle triple prese nella zona centrale del campo (da 34 a 40%) che in quelle sparate dal palleggio.
Garland è ancora giovanissimo (21 anni) e come tutte le guardie giovani non è ancora in grado di scansionare il campo correttamente sera dopo sera; inoltre, la sua produzione offensiva è ancora troppo incentrata sul perimetro e fisicamente non sembra ancora del tutto a proprio agio nell’assorbire i contatti. Ma a differenza di Sexton, l’ex Vanderbilt è un giocatore più tecnico e raffinato, con un range di tiro più ampio e flessibile che gli permette di piegare meglio lo scacchiere tattico a proprio vantaggio. Anche Garland potrebbe essere destinato a restare un secondo violino, ma c’è un universo in cui le stelle del suo talento si allineano formando un nuovo “Lillard”. Questo per dire quanta pressione ci sarà su di lui ai nastri di partenza della prossima stagione.
Daniel Gafford
Dopo un anno e mezzo del tutto anonimo a Chicago, Gafford ha trovato una propria dimensione a Washington. Oltre a una crescita personale notevole (da 4.7 a 10.1 punti, da 3.3 a 5.6 rimbalzi di media), Gafford ha saputo rinvigorire la second unit degli Wizards, portando intensità e fisicità prima inesistenti. Bradley Beal e Russell Westbrook ne hanno fatto un enorme scudo da utilizzare per le proprie incursioni a centro area: il terzetto ha funzionato talmente bene da sovrastare gli avversari di oltre 7 punti per cento possessi nei 128 minuti di utilizzo.
Se già gli Wizards erano soliti correre ogni volta che ne avevano l’occasione, con Gafford in campo il ritmo diventa quasi frenetico, toccando i 107 possessi – stra-primi su base stagionale. Ancora più importante, la sua presenza, seppur in sezioni limitate di partita, ha permesso a coach Brooks di trovare soluzioni difensive migliori. Gafford è già in questo momento uno dei migliori lunghi della lega nell’alterare le parabole di tiro degli avversari (sesto per tiri da due contestati per 36 minuti) ed è bravo a posizionarsi con il corpo sotto il proprio canestro, dove gli avversari tirano con -11.5% rispetto alle medie stagionali. Quello che ne limita il potenziale è il minutaggio molto ristretto, e non è detto che all’aumentare dell’utilizzo possa crescere anche la sua importanza per la squadra, ma se gli Wizards sono riusciti a rimettere in piedi la stagione parte del merito è anche suo.
Luguentz Dort
A proposito di impatto difensivo.
Durante la sua prima stagione in maglia Thunder, l’esperienza del Dort-giocatore è stata costantemente affiancata a quella del Dort-personaggio, una sorta di Simy della NBA. Dalle battute parodiate dai Simpsons alla stranezza estetica del suo muoversi per il campo come una versione di Harden in bassa risoluzione, Dort appare sempre un po’ troppo goffo per essere preso sul serio.
Ma come per il centravanti rivelazione del Crotone anche con Dort siamo entrati nella fase post-ironica della sua carriera. In ogni singolo possesso Dort porta un’intensità quasi asfissiante, una capacità di alterare il ritmo degli avversari assorbendoli nel proprio campo d’azione come un wormhole. La sua sola presenza basta a rendere la difesa dei Thunder più stabile: Dort è un monolite impossibile da spostare in post e capace di muoversi con un’agilità sorprendente, e negli ultimi dodici mesi ha sensibilmente migliorato il feeling con il gioco anche nella metà campo offensiva. Il coraggio di tentare 7.5 triple di media a partita non gli manca, ma oltre a diventare il secondo miglior realizzatore della stagione di Oklahoma City dietro a Shai Gilgeous-Alexander (17.2 punti e 4.5 rimbalzi per 36 minuti), Dort ha dimostrato di avere imparato come punire le difese precedentemente mosse.
Dort resta un blocco di argilla da sgrezzare, senza un ball-handling affidabile e con un tiro alquanto strano – la parabola più alta della lega? –, ma la sua transizione da giocatore-di-culto a giocatore-e-basta è adesso completa. E non era per niente scontato.
Terance Mann
In una lista del genere non poteva mancare un giocatore capace di entrare stabilmente in rotazione di una squadra di playoff in modo inaspettato. Mann entrava in questa stagione con 362 minuti all’attivo e il compito di riempire il garbage time delle partite dei Clippers; ma approfittando dei continui problemi fisici (e le pause per ricalibrare l’hardware di Kawhi Leonard) ha finito col giocare quasi 20 minuti a sera; e con merito, visto il salto dal 35 al 41.8% da tre e dal 66.7 all’83% ai liberi.
Le migliori sette prestazioni della sua carriera sono arrivate dopo la pausa per l’All-Star Game, dove la sua produzione offensiva è vicina ai 10 punti di media a partita flirtando con il club dei 50-45-90 al tiro.
Anche in un roster come quello dei Clippers, pieno di esterni in grado di spaziare il campo rivestendo diversi ruoli e tenere percentuali spaziali, Mann ha saputo spiccare per la sua precisione: 42% in catch-and-shoot, 43% in situazioni wide open, addirittura 49.5% dagli angoli. Mann possiede il telaio (196 centimetri per 98 chili) e la faccia tosta per prendersi qualche minuto importante anche da maggio in poi. Nei 42 minuti con cui ha condiviso il campo insieme a Leonard e George i Clippers hanno spazzato via gli avversari (+32.5 di Net Rating) e solo loro sanno quanto abbiano bisogno di tutto l’aiuto possibile se vogliono rompere la maledizione che pende sulle loro storia ai playoff.
Immanuel Quickley
Pochi giocatori hanno avuto un impatto maggiore in uscita dalla panchina di Immanuel Quickley, e se i New York Knicks sono tornati ai playoff parte del merito è sicuramente della coppia formata con Derrick Rose – capace di produrre un Net Rating di +15 nei 476 minuti in cui hanno condiviso il campo. Quickley non è ancora un giocatore particolarmente bravo nel costruire per i compagni, ma pochi altri giocatori possiedono la stessa capacità di costruirsi un tiro dal palleggio in proprio – e questo nonostante abbia faticato ad arrivare al 33% su quasi 3 tentativi da oltre l’arco in situazioni di pull-up.
Il fatto che un attaccante già così disciplinato e tecnicamente dotato abbia faticato a chiudere la stagione al 40% dal campo è un bel promemoria per quelli che credono che segnare in NBA sia facile. Tuttavia, per un ragazzo che tira col 90% ai liberi e con il 39% da tre (che diventa 47% sugli scarichi) diventare un giocatore efficace non dovrebbe essere impossibile.
All’interno di questa lista Quickley è quello ad aver goduto di maggiore copertura mediatica, come dimostra bene quel “huge” per commentare una partita di pre stagione.
Grazie a un’ottima capacità di leggere i blocchi e un eccellente lavoro di piedi, Quickley è già oggi uno dei migliori interpreti del pick and roll nella lega. Il prodotto di Kentucky è un metronomo che sa come controllare il tempo – una dote naturale che gli permette di tenere sotto controllo il contesto tattico che lo circonda: non è un caso se soltanto l’esperto Facundo Campazzo, che non è un rookie pur essendolo tecnicamente, subisce più falli di lui tra le matricole.
Le squadre di Tom Thibodeau, sempre molto disciplinate e lineari, hanno bisogno di un giocatore bravo a variegare il tessuto tecnico della squadra. Quickley, come Julius Randle, è fenomenale in questo. E ancora più che della coppia con Rose, il fatto che New York abbia sovrastato i propri avversi di 11 punti su cento possessi in cui Randle, Quickley e RJ Barrett (è prematuro avere hype per i pick and roll tra loro due?) in campo è il miglior segnale della rinascita della franchigia. Ed era l’ora: come dice il Re, la NBA è un posto migliore quando i Knicks sono competitivi.
Saddiq Bey/Isaiah Stewart
Il giocatore di riferimento dei Detroit Pistons resta Jerami Grant, quello con l’upside più alto è Killian Hayes. Ma in una stagione dove Detroit ha perso più partite di tutti ad eccezione degli Houston Rockets, Bey e Stewart hanno saputo portare argomenti intriganti alle loro cause.
Stewart è un rim-runner con atletismo feroce (soprattutto a rimbalzo) che non si fa problemi nel finire nel poster di qualcun altro pur di tentare una stoppata. Bey possiede il potenziale per diventare una wing creator capace di portare gli avversari più piccoli in post per poi abusarne fisicamente e punire quelli più pesanti da lontano. Stewart è secondo tra tutti i rookie per PER (dietro a LaMelo Ball) e per Win Shares, e nelle 10 partite in cui è partito in quintetto ha collezionato 12.2 punti e 9.4 rimbalzi di media. Nei 752 minuti in cui sono stati in campo insieme i Pistons hanno un differenziale appena negativo, che equivale a un successo.
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La versatilità di entrambi è intrigante: difensivamente Bey non è ancora pronto per il livello della NBA ma possiede struttura (201 centimetri per 99 chili) e istinti su cui si può costruire. Stewart ha fatto vedere di saper tenere contro le guardie anche allontanandosi dal ferro, e ha segnato 13 delle 29 triple tentate dalla zona centrale del campo. Entrambi possiedono un’apertura alare impressionante ed entrambi non sono apparsi totalmente a disagio col pallone in mano. Che i Pistons siano più vicini a tornare in carreggiata di quanto sarebbe lecito aspettarsi?
Gary Trent Jr.
Solo il tempo ci dirà se Masai Ujiri ha portato a casa l’ennesima trade favorevole decidendo di scambiare Norman Powell per una sua versione più giovane ed elastica. Soprattutto perché Gary Trent Jr., come Powell, sarà libero di firmare un nuovo contratto quest’estate, e Toronto spera che nonostante i quasi 16 punti di media a partita il conto sia meno salato rispetto a quello del nuovo giocatore di Portland.
Prima ancora di arrivare in Canad… ehm, a Tampa, Trent aveva confermato la dimensione acquisita nella bolla di Orlando, abbandonando ogni timidezza fino a tentare oltre 320 triple frontali. Per essere un esterno con un frame non eccezionale, Trent resta ancora troppo innamorato del proprio gioco dalla media distanza, ma nel corso dell’ultima stagione è passato dal prendersi una tripla dal palleggio a 3.1 di media a sera – segnate con un incoraggiante 36%.
Una delle prestazioni più divertenti tra quelle passate sottotraccia nel corso della stagione.
Toccherà al saggio coaching staff capitanato da Nick Nurse raffinare l’arte che ha reso Powell un giocatore capace di abbinare esplosività nel primo passo e pazienza nel lavorare di fino, muovendo piedi e aggiustando il corpo fino a farsi spazio fino al ferro. Trent può arrivarci col tempo. E qualora non restasse a Toronto potrebbe diventare un’aggiunta preziosa per una squadra in cerca di un tassello da inserire in un sistema già collaudato.
Naz Reid
Migliorare la propria efficienza offensiva dell’11% nell’arco di una stagione non è mai una cosa semplice, specie se, come nel caso di Reid, tenti 2.5 triple a sera e giochi in una squadra che per mesi non ha potuto schierare i propri migliori creatori di gioco. La sua stagione è sicuramente una delle notizie migliori per il futuro dei T’Wolves: oltre a tirare con il 67.8% nel pitturato, il giovane prodotto di Louisiana State è sembrato ancora più a suo agio sull’aprirsi sul perimetro rispetto alla stagione da rookie, aumentando il numero dei tentativi dalla zona centrale del campo e convertendoli con un interessante 36.2%.
La duttilità e la tecnica di Karl-Anthony Towns si accoppiano bene all’astuzia e alla padronanza dello spazio di Reid. Nella metà campo offensiva Reid può rollare verso canestro o aprirsi sul perimetro a seconda delle esigenze, mentre nella metà campo difensiva la sua intensità e la sua verticalità sono un toccasana, soprattutto nei pressi del ferro, dove nonostante la stazza KAT resta un difensore piuttosto mediocre. Finora i due lunghi hanno giocato appena 160 minuti insieme ma con risultati discreti e Minnesota sa bene quanto nella NBA odierna sia importante avere un backup nel ruolo di centro che sia non solo economico ma anche tatticamente duttile.
De’Anthony Melton
Per capire l’importanza di Melton all’interno dei Memphis Grizzlies basta guardare la differenza tra quando è in campo e quando siede in panchina. Negli 823 minuti in cui ha giocato Memphis sovrasta gli avversari di oltre 6 punti su cento possessi (il migliore di squadra), mentre negli altri il Net Rating scende a -0.7. Un dislivello più ampio di quello di Ja Morant che dimostra bene l’importanza di questo coltellino svizzero nel sistema di coach Taylor Jenkins.
Ecco, se poi questi tiri diventassero la regola le cose diventerebbero davvero davvero interessanti.
Se intensità e manovalanza non sono mai stati in discussione, in questa stagione Melton ha saputo aggiungere anche un’inaspettata dimensione perimetrale, passando di colpo dal 28.6% al 41.3% da tre. Numeri probabilmente troppo drastici per essere tenuti stabili sul lungo periodo, ma che certificano i miglioramenti nella meccanica, più fluida rispetto al passato.
Melton ha iniziato a lavorare sul proprio tiro fin dal suo arrivo a Memphis e la padronanza con cui apre il fuoco dalla distanza è fondamentale per togliere pressione dalle spalle di Morant. Melton è un giocatore intelligente, che riesce a influenzare il contesto di gioco senza dare nell’occhio: con lui in campo i Grizzlies muovono meglio il pallone e sono più ordinati difensivamente. Il suo profilo continua a farsi sempre più intrigante senza però mai rischiare di diventare ingombrante, restando in quella fascia di giocatori (di cui Memphis è piena) capaci di elevare il floor di una squadra limando i difetti delle superstar e ampliandone i pregi. Giocatori interessanti, insomma, come quelli che avete trovato in questo articolo di fine stagione. Buoni play-in e playoff!