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Quando Maradona ha provato a rifare Napoli a Siviglia
08 dic 2020
Lo strano, ma significativo, ultimo anno di Maradona in Europa.
(articolo)
10 min
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Maradona sbarcò a Siviglia in concomitanza dell’anniversario della scoperta delle Americhe, erano 500 anni dall’impresa di Cristoforo Colombo e tutti, abbonandosi (passarono da 26.000 a 40.000), pensarono che li aspettava una Liga grandiosa. Siviglia nuova Napoli. Almeno è quello che disse Diego in conferenza stampa rivedendo una scena che conosceva: c’erano giornalisti da tutte le parti del mondo per raccontare il suo ritorno al calcio, aveva 31 anni, una squalifica per cocaina alle spalle (15 mesi), e veniva da una lunga trattativa tra il presidente del Siviglia, Cuervas, la Fifa, Blatter e Ferlaino, passando per Silvio Berlusconi e Telecinco che ci mise i soldi (750milioni di pesetas) e l’obbligo di una serie di amichevoli (Bayern Monaco, Lazio, San Paolo, Porto, Galatasaray) trasmesse in esclusiva e la partecipazione del calciatore ai programmi di intrattenimento della rete: finì a cantare il tango con Concha Velasco. Siviglia non era stata scelta perché porta sulle Americhe e nemmeno perché ponte col mondo mediterraneo sponda araba, e meno ancora per i legami lusitani tra la musica di strada arrivata a Napoli attraverso i gitani come racconta il maestro Roberto De Simone, no, solo perché a Siviglia c’era Carlos Bilardo, un allenatore di cui Maradona si fidava, CT dell’Argentina ai Mondiali dell’ottantasei e del novanta.

Città defilata, anche se quell’anno al centro di molti eventi per via dell’Expo, e con una squadra media – che non vinceva un campionato da quasi 50 anni e da 20 non arrivava tra le prime quattro – nella quale si poteva sopportare l’ingombrante fracasso maradoniano. L’altra squadra della città, il Betis, era in Segunda División, e curiosamente, era stata scelta da Maradona in una intervista prima di Argentina-Spagna: era il 12 ottobre 1988 al Ramón Sánchez-Pizjuán, la nazionale spagnola allenata da Luis Suárez affronta la Selecciòn allenata da Carlos Bilardo, in un Maradona-Butragueño, e prima della partita il giornalista Paco Grande chiede a Maradona la più ovvia delle cose: Betis o Siviglia? E Diego sceglie sempre il più debole, in questo caso il Betis .Prima di concludere l’acquisto Bilardo spiegò ai calciatori del Siviglia che sarebbero cambiate molte cose, ci sarebbe stata una ossessione mediatica dagli allenamenti alle partite e se qualcuno di loro avesse avuto un minimo di luce: sarebbe divenuta ombra di Diego. Era il prezzo da pagare per un anno indimenticabile o quasi.

Maradona arrivò in completo color vinaccia – inguardabile e autunnale – con Claudia, Dalma, Gianinna e la sua corte (una coppia di assistenti, alcuni argentini, il suo autista, Marcos Franchi, ai quali si aggiungerà il preparatore Fernando Signorini). Si portava dietro un arresto ingiusto che era un agguato mediatico, almeno 12 chili in più rispetto al suo peso quasi forma, i capelli lunghi sul collo e molta rabbia. Scodellò il manifesto di rinascita in un’intervista a Gianni Minà, che poi lo dibatté su RaiUno con Fabrizio Del Noce, rappresentante in tivù del perbenismo che giudica Maradona anche in questi giorni.

Foto di Chris Cole / Allsport / Getty.

In video c’è Minà che con grande dolcezza intervista Diego: «Ti posso chiedere perché hai fatto questo errore? Te lo sei chiesto?». «No, Gianni. Quello che ho fatto lo so che è stato un errore. (...) il mio non era un drogarmi per giocare a calcio, ma per scappare dal calcio». E poi in studio c’è Del Noce che prova a confutare e a cancellare la tivù – della comprensione – di Minà: «Mi sembra che Maradona abbia una tesi difensiva non troppo plausibile: si difende accusando gli altri di volergli male» (Del Noce). «Ma c'è qualcosa di più, Fabrizio, hanno dovuto cercare un capo d'accusa che non regge perché addosso a Maradona – lo dice l'avvocato Siniscalchi – non hanno trovato nulla. Lui non poteva praticamente né essere arrestato, né in quel modo così feroce». Segue dibattito, con molte risate visto che poco tempo dopo il giustizialista Del Noce dovrà difendere il garantista Berlusconi, e pensare che aveva l’evangelista Minà a portata di studio.

Prese casa in Simón Verde affittando la villa di “Espartaco”, Juan Antonio Ruiz Román, il maggiore torero degli anni 80-90, lasciandosi contaminare dalla Corrida, presenziando a quella di Pasqua, e sentendo molto vicina la condizione del torero. In fondo lo era sempre stato, da Barcellona in poi. Tutti in Spagna sapevano che Diego aveva il duende: la forza misteriosa emanata dallo spirito della Terra, che si sente, vede nei gesti dei toreri e delle ballerine, ma che non si può spiegare. Che poi il duende fosse stato incarnato da due donne nate in Argentina e che fecero grande il flamenco – Encarnación López Júlvez detta “L'Argentinita” e Antonia Mercé y Luque detta “La Argentina” – è una di quelle coincidenze maradoniane, come l’essere stato battezzato nella Chiesa del Rosario de Nueva Pompeya a Buenos Aires. Dai toreri alle ballerine: «Il duende non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi. Vale a dire, non è questione di capacità ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura, e, al contempo, di creazione in atto», scrive Federico García Lorca, parlando dell’inafferrabilità dello spirito che, però, arriva direttamente al pubblico, qualcosa di sulfureo che possiede il senso della morte, contro cui lottare. «Per cercare il duende non c’è mappa né esercizio. Si sa solo che brucia il sangue come un tropico di vetri, che estenua, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che si appoggia al dolore umano inconsolabile».

Così, il duende, da Juan Belmonte a Manolete passando per Hemingway arriva a Maradona nel giro di poche pagine, note e tori. “Espartaco” racconterà le domande di Diego sull’andare in anticipo sul toro, il paragone con i secondi in cui il calciatore tiene la palla e quelli senza, la carica del toro, e la capacità di evitarlo, come nei dribbling. Tanto che potremmo rileggere la classificazione dei tori fatta da Amós Salvador Rodrigáñez in “Teoria del torero” applicandola ai difensori e verrebbe fuori un libro hemingwayan-berselliano: dal bravo, o boyante (quello che non esita ma è nobile), al bravucón (spaccone) passando per quelli de sentido (che sentono l’attimo) fino agli abantos (gli spaesati). Maradona li ha visti e “uccisi” tutti infatti. A “Espartaco”, chiede cosa mangia, come fa ad essere così magro, e il torero risponde: «Mi prendo più spavento di te».

Sarà anche così, ma Diego vive di più, tanto che fa in tempo a sfasciare una Mercedes, a farsi rincorrere dalla polizia con la sua Porsche e a costringere il Siviglia a mettergli un detective in marcatura per le notti che dopo i primi mesi diventano come quelle napoletane e barcellonesi. Intorno ha una Spagna che vuole vivere e recuperare il tempo perduto sotto la dittatura e i preti, come racconteranno Bigas Luna e Pedro Almodóvar, e Diego ne approfitta divenendo ancora di più un personaggio di Marco Ferreri. Così l’anno del riscatto diventa l’anno fortunato di quelli che hanno giocato con lui, un coro di ammirazione, comprensione e pazienza, ricambiati dal teatro maradoniano. Manolo Jiménez, che era il capitano, gli diede subito la fascia, e lui, come era accaduto a Napoli con Bruscolotti, non usò mai quel potere con arroganza, anzi, si declinò con la solita umiltà. Tanto che quando i giornali scrissero che Bilardo aveva programmato gli allenamenti al pomeriggio invece che al mattino per favorire i suoi vezzi notturni, José Miguel Prieto spiegò che era una abitudine che il profe si era portato dalla Colombia e che si conciliava anche con quell’anno speciale della città dove la sera c’era sempre qualcosa da fare.

Lo stupore di averlo in squadra si univa allo stupore dei suoi comportamenti e della sua generosità. C’è chi come Monchi, divenuto poi direttore sportivo del club, ricorda il Rolex d’oro che Maradona gli regalò dopo aver scoperto quello falso che usava; a Monchu venne affidata una delle due Ferrari, in quanto compagno di stanza; Diego Simeone si trovò a fare colazione con l’idolo del Mondiale messicano: «È stato gioia e felicità»; Davor Šuker che lo guardava in tivù da piccolo per giorni continuò a stropicciarsi gli occhi e a discuterne incredulo con sua madre, poi quando Diego gli disse anche di andare verso il portiere senza disperdersi perché da quel momento c’era lui a servirlo, l’attaccante comprese che era tutto vero in Siviglia-Valencia, partita con due assist di Diego e due gol di Šuker: il primo lo libera da centrocampo, un lancio alto che segue il croato come la nuvola fantozziana, e poi gli si posa sul petto, a lui non resta che stoppare e tirare; il secondo ha una distanza più breve, uno di quei lanci leggeri tipici di Diego: appoggio volante che apre un corridoio da Striscia di Gaza con la palla che rimbalza davanti a Šuker prima di essere colpito, un colpo da calcio-tennis.

I primi mesi il Siviglia giocò in preda al sogno, erano tutti febbricitanti, mossi dalla voglia di ripresa di Maradona che dimagrì e si tagliò anche i capelli allo stesso modo dell’estate messicana. Al debutto in casa contro il Real Saragozza segnò su rigore – uno dei suoi, dall’accompagnamento lento da valzer con il portiere che frigge nella sua agonia – ma tutti tornarono a casa raccontando che mentre andava a battere un calcio d’angolo aveva palleggiato con una pallina di carta stagnola come se fosse da tennis, e lessero il fatto come una epifania. Di quella stagione c’è da salvare un gol su punizione al Celta che sembra quello che segna a Hugo Gatti con l’Argentinos Juniors, tra l’altro il Siviglia giocava in maglia rossa, posizione centrale e angolo raggiunto come se fosse la buca di un biliardo, così normale da sembrare facile. Un gol all’Alcázar, che ricorda quello al Brescia col Napoli e soprattutto quello al Belgio in Messico: slalom con movimento in diagonale e poi, invece dell’incrocio dell’angolo lontano – non ha la forma fisica – incrocio dei pali più vicino. E tra le partite quella con lo Sporting Gijón – segna spalle alla porta, stop di petto a seguire che lo libera dalla marcatura e sinistro in mezza girata alla destra del portiere "Rodri" Basulto – e quella con il Real Madrid, vinta due a zero, con un Maradona che dà l’illusione d’essere tornato anche se non segna: lancia con disinvoltura, dribbla in leggerezza e si muove come in un passato che sembrava impossibile da rivivere.

Foto di Chris Cole / Allsport / Getty Images.

Sul dimenticabile, in quella stagione, c’è l’imbarazzo della scelta. C’è chi metterebbe al primo posto quello che è considerato il dissidio che porta alla rovina della stagione: la disobbedienza per tornare in nazionale – trascinandosi anche Simeone – chiamato da Alfio Basile, per delle amichevoli, senza il permesso del club: Maradona parte e il patto con la squadra si rompe, anche perché lui rivede i contrasti napoletani con Moggi e Ferlaino.

Chi, invece, la rissa con il Tenerife di Jorge Valdano con la chiamata in causa del menottismo contro il bilardismo, una faida pallonar-filosofica sulle panchine e soprattutto l’esercizio capriccioso della testardaggine maradoniana, che questa volta ha come oggetto l’argentino Fernando Redondo con la condanna “assoluta” per diserzione della maglia argentina: alla Selecciòn preferisce i suoi studi, aveva detto no alla convocazione di Bilardo per il Mondiale 1990. Nonostante le tantissime squadre e le numerose idee, il mondo del pallone argentino è riassumibile nel contrasto tra l’azzardo di César Luis Menotti e le prudenze di Carlos Bilardo, entrambi hanno un Mondiale vinto, ed entrambi hanno avuto tanti allievi, in questo caso c’era Valdano: vero e proprio figlio calcistico di Menotti, e questo bastava a rendere elettrica l’aria della partita. A separarli poi c’era la cattiva abitudine di picchiare duro, come da lezione dell’Estudiantes di Bilardo (in campo durante la mattanza de La Bombonera ai danni del Milan nella finale insanguinata della Coppa Intercontinentale del 1969) a dispetto dell’eleganza valdanesca, anche se sarà un fallo di Redondo ai danni di Maradona a scatenare la rissa.

Infine, c’è chi identifica nel momento più basso il pareggio con il Burgos: con un Maradona panciuto che viene sostituito e dopo aver buttato la fascia da capitano a terra urla verso la sua panchina: «Bilardo, la puta que te parió». Nel giro di meno di un anno Maradona era riuscito a riassumere il peggio di sé, a sprecare l’occasione di recupero, a dilatare il suo corpo tornando grasso, a non smettere di drogarsi, a non portare il Siviglia tra le prime quattro, ma nonostante questa serie di fallimenti era riuscito comunque a regalare stupore, tra tocchi d’esterno, corridoi che conducevano al gol e colpi di tacco, insomma: a farsi ancora una volta giostra.

A poco erano valsi lo spirito di servizio elargito a piene mani, gli sforzi di recupero e i manifesti di rivincita: ancora una volta il suo fondo nichilista aveva avuto la meglio, lo sperpero vinto sulla conservazione, la vita sullo sport, e il suo passaggio a Siviglia si trasmutava come in una dissolvenza cinematografica, nemmeno l’ultima.

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