Supponiamo di voler fare un esperimento: guardare una partita muniti solo dell’entusiasmo e della passione, senza nessuna conoscenza pregressa delle squadre che si affrontano o dei giocatori. Una partita a caso. Che idea ci faremmo di un giocatore come Diego Godín?
Salteremmo sulla sedia a un tackle scivolato, probabilmente. Ci compiaceremmo di una chiusura chirurgica, oppure ci esalteremmo per un’uscita dalla difesa in conduzione. Soprattutto, però, ci restituirebbe un’idea di perfetta calma. Di controllo della situazione. Se ci sottoponessero, a questo punto, una lista di apodos sudamericani, ne troveremmo più d’uno coerente: caudillo, mariscal, faraón.
Perché il primo sentimento che solleva Diego Godín, almeno a me, è quello di una disciplina marziale. Foto di Claudio Grassi / LaPresse.
Diego Godín ha esordito in Serie A con l'Inter poco prima della pausa per le Nazionali: una manciata di minuti, buoni per le statistiche ma non sufficienti a poter parlare di vero esordio, arrivati, per una bellissima coincidenza, a Cagliari, la città che è stata quella del suo idolo d’infanzia, Enzo Francescoli. La città che più di ogni altra, nel calcio italiano, ha saputo accogliere i rioplatensi orientali, cioè gli uruguayani.
Poi è sceso in campo da titolare contro l’Udinese, a San Siro, fornendo un grande assist per il colpo di testa decisivo, nell’1-0 finale, di Sensi. Nella Milano nerazzurra calciatori della Celeste ce ne sono stati, anche molto importanti: Héctor Scarone, il capocannoniere del primo Mondiale della Storia; Rubén Sosa; Diego Forlán, Álvaro Recoba.
Per ritrovare un difensore, però, un difensore investito del compito di prendere in mano le redini della difesa, un difensore lontano per prestigio e aspettative da Sorondo o Rívas bisogna risalire il fiume del tempo, fino a Ernesto Mascheroni. Di quell’epoca piena di mistica Diego Godín ha i lineamenti marcati, la faccia da lavoratore, il cipiglio che è stato anche quello di José Nasazzi. E il phisique du role perfetto per indossare un soprannome da caserma. Perché Diego Godín è disciplina. Perché Diego Godín è responsabilità.
Il calcio non è bellezza
«Io dico sempre che dietro ogni giocatore c’è una storia… ma c’è storia e storia. Diego, per esempio, ha vissuto una storia abbastanza orribile».
Con queste parole, scritte da Julio, suo padre, inizia la biografia di Diego Godín, scritta nel 2015 con José Ignacio Fernández. Il sottotitolo è “cuore, coraggio e testa”, una perfetta reiterazione dei cliché: il cuore, il coraggio, la garra sono puntelli imprescindibili in ogni narrazione del fútbol uruguayo. E chi conosce anche minimamente la parabola di Godín sa quanti sensi possono annidarsi in quel “testa”.
Al di là dell’intelligenza calcistica e dell’episodicità - la legacy di Diego, finora, è collegata essenzialmente a tre colpi di testa, di cui parleremo più avanti - però c’è una terza accezione di testa: quella che ci vuole, e che Godín ha sempre dimostrato di avere, per andare oltre i luoghi comuni, per sopravvivere, e sopravviversi.
«Il calcio per me non è un divertimento», ha detto una volta in un’intervista a SoFoot. «Né un mezzo per procurarmi emozioni forti. È prima di tutto una responsabilità». Per rispetto a una condizione che è prima di tutto dell’anima. «Tutto il calcio uruguayano non esisterebbe senza la nozione di sacrificio. Da piccolo mio padre non voleva che giocassi per divertirmi: lo sento ancora dirmi “bisogna che t’alleni, che vinci! È una tua responsabilità!”.
L’assennatezza, in un difensore, sembra quasi una banalità, una scontatezza. Eppure, quando si parla di uruguagi, quando si parla di Diego Godín, trascina dietro di sé una punta di malinconia latente, cancellata solo da un forte senso del dovere. «La nobilità uruguayana è tutta nella capacità d’adattamento». Quando si gioca non bisogna ridere per forza.
«L’attaccante non gioca con la stessa responsabilità», aggiunge, come se sentisse sulle sue spalle un fardello maggiore. Un fardello che però lo appaga. «Mi sento un leader. Mi sento un capitano. Mi sento rispettato».
Che Diego Godín sia un sopravvissuto è, innanzitutto, vero in maniera letterale. Quando aveva quattro anni, durante una gita domenicale fuori porta con la sua famiglia, è caduto in un ruscello. Era con la sorella Lucia, i genitori stavano accendendo il fuoco per l’asado. Cercava di afferrare per la coda un pesce: si è sbilanciato ed è caduto nell’acqua gelida. Quel pesce, metaforicamente, potrebbe essere molte cose: una carriera nel calcio, il successo, gli attaccanti che gli sarebbero sfuggiti, o che almeno ci avrebbero provato.
E Diego è caduto. Oppure, si è tuffato. Ma quando i genitori sono accorsi trafelati, l’hanno trovato sulla riva. Nessuno gli aveva insegnato a nuotare: anche se il maglione di lana pesante, l’inesperienza, lo risucchiavano verso il fondo, l’istinto di sopravvivenza gli ha fatto trovare la forza per mettersi in salvo.
Tredici anni più tardi Diego sognava di esplodere come centrocampista offensivo con la Violeta, il Defensor Sporting. Non avrebbe mai pensato di dover arrivare a chiedersi se il calcio fosse davvero la sua strada. Giocava poco, troppo poco.
Per perseguire il suo sogno aveva abbandonato il paese in cui era cresciuto, Rosario, e il nuoto, che per una strana coincidenza era diventato uno degli sport in cui eccelleva (più avanti nel tempo avrebbe detto di aver fatto la sua scelta sulla scorta del fatto che era più facile «diventare un calciatore della Nazionale che vincere una medaglia d’oro olimpica nel nuoto»). L’istinto di sopravvivenza gli ha sussurrato «scappa, finché sei in tempo». E lui, immalinconito, si è messo in viaggio. È tornato a Rosario, deciso a mollare con il calcio.
Poi, attraverso il padre, è entrato in contatto con il dirigente di uno dei club minori e più modesti della capitale, il Club Atlético Cerro. Ha intravisto il guizzo di una possibilità. Si è gettato in acqua per afferrarla. Poco dopo il Cerro ne avrebbe acquistato il cartellino per 840 pesos uruguayani. Per intenderci: 25 euro.
Non sono una grande cifra, e l’investimento lo avrebbe fatto soprattutto lui, su se stesso. Il coordinatore delle giovanili del Cerro, William Lemus, gli ha suggerito di reinventarsi centrale difensivo. Diego è stato umile a sufficienza per accettare la sfida. Se pensate alla faccia che fa un calciatore quando pensa di doversi rimboccare le maniche per sfatare i pregiudizi, nove su dieci vi viene in mente un volto che potreste abbinare a un difensore uruguayano.
«Io non ne volevo sapere niente: mi piaceva giocare avanti, fare gol, come tutti i ragazzini. Poi mi ha visto Gerardo Pelusso, il tecnico della prima squadra. Mi ha fatto allenare con loro. Da difensore. E allora mi sono fermato là».
Al Cerro sarebbe diventato capitano, guadagnandosi la prima convocazione in Nazionale e un trasferimento, nel 2007, al Nacional, uno dei club più blasonati del Paese. Aveva vent’anni e il carisma del leader. Jorge Fucile, durante una delle prime convocazioni con la Celeste, un giorno lo trascinò davanti a Tabárez. «Guarda questo», ha detto al Maestro. «In futuro dovrai combattere con lui».
L’esordio nella Celeste, dodici anni fa.
Asseconda la vocazione, scopri il tuo posto al mondo
La campagna è il vero cuore pulsante della laboriosità uruguayana. Nelle fincas alle propaggini di Montevideo si impara davvero a capire cosa vuoi. Nella campagna si forgia il coraggio. E i gauchos che la abitano ne subiscono l’educazione rigida. Non a caso la radice della parola gaucho è un’espressione quechua che significa “orfano”. Oppure “vagabondo”.
«Mi sono sempre piaciuti i grandi spazi, i cavalli, la caccia, la pesca. Quando sono nella natura ho l’impressione di essere nella mia bolla: se voglio qualcosa devo andare in città». Anche questa può essere interpretata come una grande metafora: gli spazi aperti non sono l’epicentro dell’ansia, dell’affanno che ti prende quando ti vedi costretto a coprire la distanza da qualcosa, o da qualcuno. Sono una potenzialità.
Arrivato in Europa, al Villareal, una squadra dal gioco eminentemente offensivo, Diego si è trovato da subito a dover coprire grandi spazi nelle retrovie. La capacità di farlo con ottimo spirito organizzativo era diventata la sua marca distintiva: Manuel Pellegrini, ne aveva fatto un punto fermo della squadra, che a fine stagione sarebbe arrivata seconda in Liga. Diego finirà per essere il settimo giocatore della rosa più utilizzato quell’anno.
Mauricio Pochettino, in un’intervista a El País, ha spiegato che ai giocatori non bisogna insegnare a interpretare meglio il gioco, a posizionarsi meglio. Almeno, non solo. Serve anche aiutarli affinché «incontrino una pace che, in generale, nel mondo non esiste».
Godín, in Spagna, ha trovato qualcuno che gli indicasse la via per la pace: «con il tempo ho capito che la mia funzione non è quella di essere cinico», ha spiegato nell’intervista a SoFoot, «ma di essere pragmatico».
Il più grande insegnamento, confessa, gliel’ha dato il Cholo Simeone: contenere l’impeto. Tenere la posizione, come il gaucho osserva la pampa dal cerro, dalla collina, mantenere il controllo. Non abbandonarsi al voler salire a tutti i costi in attacco (nonostante sappia farlo molto bene). Perché in fin dei conti, Godín è anche e soprattutto un giocatore che ama andare a staccare nell’area avversaria, portare palla per venti, trenta metri.
Come chi, nella ricerca della sua indole primigenia, ha il sospetto di inscenare scorci di una vita passata, allo stesso modo Diego, quando può, va a cercare il gol, o l’assist. La giocata da dieci del quale l’hanno privato i rifiuti giovanili. «Il giocatore», dice Ángel Cappa in “La intimidad del fútbol”, «non gioca nel senso stretto del termine. Lavora.». Ma Borges, in qualche modo, gli fa eco disilludendolo: «lo scrittore che scrive quello che si era proposto di scrivere non ha scritto niente. L’opera, per essere valida, deve trascendere la proposta».
Cruzar el charco (e cioè, metterci la testa).
Per gli uruguayani affermarsi è sempre attraversare un corso d’acqua: spesso è l’Oceano, per arrivare in Europa. Eduardo Galeano, da uruguayano, lo sapeva bene: diceva che il Sud del mondo non vende solo braccia, ma anche gambe, gambe d’oro, ai grandi centri stranieri della società di consumo.
In Spagna Godín ha trovato la sua consacrazione. Al Villareal, dapprima. All’Atlético di Madrid, soprattutto. L’ha trovata affinandosi, seguendo i consigli più dell’istinto. Diventando più paziente che reattivo, più disciplinato nella lettura del gioco che protagonista di affannati tentativi di equilibrio.
«Mi è sempre risultato facile, usare la testa». Lo ha detto in un’intervista a FIFATV. Parlava di calcio, anche se si finisce sempre per parlare di qualcosa che lo trascende.
Se c’è stato un momento memorabile, nella carriera di Godín, un episodio nel quale dovremmo cercare l’essenza più profonda della sua parabola, quel momento è stata la parentesi lunga poco più di un mese sospesa tra il 17 Maggio e il 26 Giugno del 2014. C’entra sempre, in un modo o nell’altro, la testa.
Il 17 Maggio era in programma l’ultima giornata de La Liga. Il Barcellona ospitava in casa l’Atlético: ai colchoneros bastavano due risultati su tre, ma bisognava strappare almeno un pareggio in un Camp Nou gremito per vincere il campionato. L’Atlético era passato in svantaggio: ma al quarto minuto del secondo tempo, sugli sviluppi di un calcio d’angolo, Godín era arrivato più in alto di tutti, aveva teso i muscoli del collo, impattato un pallone che spedito in rete avrebbe consegnato all’Atlético un titolo che mancava da 18 anni. Andò proprio così. Dopo quel gol disse: «Ora so cosa deve aver provato Alcides Ghiggia». Ghiggia era stato uno degli eroi del Maracanazo.
Cosa succeda nella testa di un calciatore massimamente disciplinato, forgiato da una mistica marziale, non potremo mai saperlo appieno. Cosa avrà pensato, una settimana più tardi, quando a Lisbona ha portato i suoi in vantaggio nella finale di Champions League contro il Real?
E cosa gli è passato per la testa quando Sergio Ramos, caudillo diverso da lui, ma con il medesimo ruolo e le medesime aspirazioni dentro l’area avversaria, ha pareggiato una partita che sarebbe poi finita in goleada?
«Non ho pianto», dice a chi gli chiede come si sentisse, dopo quell’occasione sfumata. «Piango molto raramente, sono poche le partite in cui mi emoziono giocando. Ho pianto a Barcellona, una settimana prima. E dopo il gol all’Italia ai Mondiali», cioè dopo il gol che avrebbe regalato all’Uruguay gli ottavi di finale, la qualificazione in un girone quasi proibitivo, contro Inghilterra e Italia (e Costa Rica, che pure si sarebbe qualificata).
Godín, insomma, piange solo quando vince. La sconfitta è solo un incidente di percorso. Una delle sue frasi preferite, dice, è questa: «Uno o vince, o impara qualcosa».
Ai Mondiali del 2014 aveva anche ereditato la fascia di capitano della Celeste. Il suo ruolo di leader era già evidente, consolidato negli anni: anche se Godín si è cucito i galloni di caudillo in una maniera meno epica di quanto abbiano fatto i suoi predecessori. Senza mistica, ma con una presenza costante nel tempo, fino a diventare l’uomo con più gettoni nella Celeste.
Nel 2011, in occasione dell’ultima vittoria di una Copa América da parte dell’Uruguay, nonostante fosse stato infortunato per tutta la competizione Tabárez gli aveva dedicato una passarella, gli ultimi due minuti della finale con il Paraguay, a risultato già consolidato. Era come se i compagni, lo staff, glielo dovessero.
Data di scadenza: mai (o quasi).
Quando, nel 2017, Diego Simeone ha detto «dovremmo poter clonare Godín» non credo si riferisse solo al calciatore. Anzi, sono quasi convinto che parlasse del simbolo.
Nei 114 anni di storia dei "Colchoneros", Diego è il giocatore con più presenze: 389, in 8 anni. Con 8 trofei. Il feticcio di un’epoca dorata, grande in maniera controintuitiva rispetto a ciò che significa essere un grande difensore nei nostri tempi: rifuggendo dalla necessità di partecipare alla manovra, di farsi creativo, Godín ha incarnato l’immagine più rocciosa del centrale difensivo, facendo della difesa una specie di predisposizione sentimentale. Con tutto il corollario di coraggio che ne consegue.
Godín ha sempre difeso il progetto, la squadra, i compagni. Ha convinto Griezmann a non andarsene con una stagione d’anticipo, ha difeso il suo compagno di reparto Giménez, lo ha protetto, fatto crescere, in qualche modo coltivato.
Dopo la sconfitta nella seconda finale di Champions, nel 2016, a Milano, sempre davanti al Real, nel progetto dell’Atlético qualcosa sembrava essersi incrinato. La fine del ciclo Simeone era alle porte? I "colchoneros" avrebbero virato verso uno stile di gioco esteticamente più pregevole? Godín ha continuato a fare il suo: ciò che sa fare meglio.
Foto di Denis Doyle / Getty Images.
«Non sono tra quelli che mette una data di scadenza alle cose, e neppure guardo al DNA. Sono più un uomo di sensazioni, di momenti: la mia esperienza all’Atlético, e nella Nazionale, è fatta di questo».
Quando ha intuito che il momentum, l’occasione di fare un’esperienza lontana da Madrid diventava, per questioni anagrafiche, sempre più stringente, ha scelto di accettare la sfida. L’Atlético aveva inaugurato una nuova policy per la quale i contratti dei giocatori sopra i trent’anni non potevano essere rinnovati per più di una stagione. Certo, i nomi che ci portiamo addosso finiscono per rappresentarci, e avesse potuto scegliere davvero, forse, Diego Godín Leal avrebbe tenuto fede per sempre al suo secondo cognome. «Oggi se ne va il Godín calciatore», ha detto durante la celebrazione del suo addio, commosso. «Ma resterà per sempre un tifoso in più».
In Spagna ha incarnato appieno quello che la sua storia, il suo contesto di provenienza, la mistica che evoca gli chiedeva: lottatore, strenue difensore, leader. Capitano. Sopravvissuto e sopravvivente. Alla guida di un esercito facinoroso che non aveva paura di scontrarsi con i titani.
A Milano, più o meno, è arrivato per perseguire la stessa battaglia.
A dimostrare, casomai ci fosse bisogno, che non necessariamente essere un cacicco significa doverlo essere alla guida di chi non parte col favore dei pronostici.