Com'è felice il destino dell'incolpevole vestale!
Dimentica del mondo, dal mondo dimenticata.
Infinita letizia della mente candida!
Accettata ogni preghiera e rinunciato a ogni desiderio.
Non c’è niente che io possa aggiungere al fallimento di Diego Ribas da Cunha, così pacifico e netto da raccontarsi benissimo da sé. Eppure la mia infatuazione per lui - che ancora oggi continuo a ritenere legittima - può essere un monito per tutti quelli convinti che il talento non possa esaurirsi in un pomeriggio di fine estate, né l’amore scomparire senza lasciare traccia alcuna.
Diego non è stata una promessa non mantenuta, un talento strozzato. No, Diego è stato uno dei migliori giocatori della sua generazione e poi più niente, all’improvviso e senza un vero motivo. Io, come molti altri, ci sono cascato e questa è la mia storia.
Premessa
Per capire come mi presi una cotta per Diego bisogna conoscere che tipo di esperienza era seguire il calcio nel 2006, data recente da un punto di vista storico, ma decisamente lontana se applicata alla fruizione dell’intrattenimento sportivo. Nel 2006 Internet si usava principalmente per rimorchiare, le statistiche erano chiuse nei cassetti degli esperti, nessuno approfondiva poi così tanto le cose, soprattutto quelle lontane, e la gente era felice abbastanza da non avere un’opinione su tutto.
Nel mio 2006, lo sappiamo tutti, l’Italia vince i mondiali; la squadra per cui tifo viene retrocessa in Serie B, creando in me uno strano sentimento di ri-attaccamento al calcio e - fondamentale ai fini di questa storia - a casa arriva la pay-per-view, aprendo una finestra non banale sul mondo dello sport. Il 2006 è anche l’anno in cui Messi inizia a dominare nella Liga, Liga che domina ancora oggi; l’anno in cui Cristiano Ronaldo per la prima volta va in doppia cifra in Premier League, scoprendo che bella sensazione è fare tanti gol. Nel 2006 la Ligue 1 è il Lione, mentre la Bundesliga è ancora un torneo esotico, così indecifrabile ai miei occhi da poter essere vinto dallo Stoccarda. Io, che sempre nel 2006 ero stato in vacanza a Berlino e me ne ero innamorato come uno giovane e stupido può innamorarsi di Berlino, avevo deciso di concentrare le mie energie sul campionato tedesco, soprattutto su l'Hertha Berlino, soprattutto su Marko Pantelic, attaccante serbo le cui lodi mi erano state intessute da un tedesco ubriaco.
La scoperta
Fu così che una scelta che oggi definiremo hipster, ovvero seguire una squadra sfigata in torneo esotico, mi ha portato invece a credere che il calcio del nuovo millennio potesse avere la faccia aperta e simpatica di un trequartista di nome Diego (voglio dire: il nome ispirava massima fiducia).
In quella Bundesliga Diego segnò 13 gol e fornì 14 assist, la miglior rappresentazione simbolica del tipo di giocatore che era. Per me Diego era una roba nuova: un centrocampista offensivo che aveva la capacità di saltare avversari con un uso controintuitivo degli appoggi, che poteva resistere ai contrasti con difensori enormi e trasformare l’azione da difensiva a offensiva come un lampo; capace di finalizzare l’azione grazie ad un tiro potente e preciso che gli permetteva di essere temibile anche da fermo, ma anche in grado di servire l’ultimo passaggio grazie ad una visione di gioco non comune. Ma non solo: Diego contrastava, recuperava palloni, era grazia e forza in un unico pacchetto bello solido. Un trequartista moderno che pescava pienamente da Kakà, che in quel momento era tra i migliori giocatori del mondo. Magari meno elegante del milanista, ma in qualche modo già proiettato nel futuro con quel baricentro basso che da lì a poco Messi avrebbe trasformato nel più grande talento individuale di tutti i tempi.
Se avete più o meno la mia età, sapete come funzionava a quei tempi: quando vedevi un calciatore così elettrico, in una squadra relativamente poco blasonata, volevi metterci subito sopra un marchio, per paura che qualcuno potesse poi un giorno rivendicarlo al tuo posto, senza mettersi a fare troppe ricerche. Quello che per ignoranza non sapevo è che Diego però non era uno qualsiasi: era uno dei giocatori più chiacchierati della sua generazione, finito per qualche motivo nel nord della Germania. Con Robinho aveva rotto diversi record di precocità nel Santos, squadra che nel 2002 - neanche maggiorenni - avevano condotto ad un titolo che mancava da 34 anni e ad una finale di Libertadores poi persa. Per dire il Santos è stata anche la squadra di Pelè e Neymar, e io avevo scelto Diego.
Parte da così lontano la sua storia, prima di diventare la storia di come io ci rimasi fregato, che Diego fa in tempo a fallire una prima volta, al Porto. In una squadra che l’anno prima aveva miracolosamente vinto la Champions League, finendo poi per essere smembrata, l’avevano preso per sostituire Deco. Della sua esperienza in Portogallo rimane davvero poco, zero di quello che mi ha spinto a considerarlo una cosa meravigliosa. Diego gioca, ma non lascia il segno, non trova mai il feeling, né con l’allenatore, né con i tifosi. Se il campionato portoghese viene considerato un buon cuscinetto per i giovani brasiliani, Diego a soli 19 anni non può sostituire Deco.
I due, pur condividendo nazione di nascita e ruolo, sono giocatori completamente diversi, che necessitano di due idee di calcio completamente diverse. Diego in più ha un carattere particolare, ha bisogno di sentire la fiducia intorno a lui per rendere al meglio, fiducia che trova a Brema, con il Werder che lo paga solo 6 milioni di euro e lui che il primo anno vince il premio di miglior giocatore della Bundesliga e diventa l’idolo dei tifosi.
Raccogliendo informazioni per ricostruire le origini della mia delusione mi sono accorto quanto il processo che mi ha portato ad innamorarmi di Diego fosse fasullo, una distorsione della realtà. Il Werder Brema innanzitutto non è una squadra di scappati di casa come ricordavo ma una presenza fissa in Champions League. Nell’edizione 2006/07 pareggia per 1 a 1 col Barcellona (grazie ad un gol all’ultimo minuto del subentrato Messi) e batte il Chelsea, finendo poi per arrivare in semifinale di Coppa Uefa. Eppure io mi ricordo di lui come un deus-ex-machina, che nobilitava la sua squadra grigia con prestazioni profetiche contro squadre dai nomi anni ‘80 come il Bochum, l’Arminia Bielefeld o l’Alemannia Aachen, a cui segna un incredibile gol da dietro centrocampo. Mi ricordo di lui per gli highlights delle partite tedesche che guardavo compulsivamente su Sky, per la facilità con cui saltava mediocri difensori in Bundesliga.
Nel campionato tedesco Diego è una macchina: in tre stagioni segna 13, 13 e 12 gol, tiene numeri simili con gli assist, dando in qualche modo l’idea di essere un trequartista programmatico, in cui al talento viene abbinata la matematica e nulla viene lasciato al caso. La terza stagione al Werder ne segna la consacrazione: se la squadra arranca in campionato e finisce decima, Diego brilla di luce propria. Ai gol in campionato aggiunge altre sette reti nelle competizioni europee che servono a trascinare i tedeschi in finale di Coppa Uefa. Come se già conoscesse il suo futuro segna al Milan e ben quattro volte all’Udinese, tra cui un gol bellissimo, a giro, alla Del Piero, un gol che sembra un messaggio personale per me.
Noto meno i frequenti cartellini gialli, che gli impediranno anche di giocare la finale di Coppa Uefa del 2008, ne la tendenza a nascondersi quando le cose non vanno bene. Come sempre nelle storie d’amore appena iniziate, mi soffermavo sulle luci per ignorare le ombre, ma non ero l’unico.
L’incontro
Arriva poi il momento in cui i flussi si incrociano, il giocatore per cui stravedo va a giocare per la squadra per cui faccio il tifo, che evidentemente vede in lui quello che ci vedo io. Diego e la Juventus si trovano, si sposano: una, nobile decaduta e decadente, l’altro, trequartista in rapida ascesa. Sembra l’incontro ideale: la serie A è terra di giocatori dal talento simile a quello di Diego, la Juventus è la squadra che quel talento l’ha sempre coltivato nel modo migliore. Anche le tempistiche sembrano perfette: i bianconeri vengono da un terzo ed un secondo posto, due ottimi piazzamenti per chi arriva dalla Serie B, ma non per una squadra abituata alla vittoria. Soprattutto erano risultati arrivati con una squadra in piena ricostruzione, senza grande talento se non nei giocatori rimasti dalla gestione precedente. Diego diventa il grande colpo intorno al quale ricostruire una narrazione vincente e convincente.
Le aspettative sono altissime: Vialli dice che «Diego è tra i tre calciatori under 25 più forti del Mondo, vale quanto Messi e Ronaldo. Gli anni in Germania l’hanno rafforzato e anche grazie a lui l’attacco della Juve si presenta al livello dei migliori al mondo». Per i necessari paragoni con altri brasiliani che hanno fatto la storia della serie A, viene scomodato Zico, il quale sta al gioco e dice «per il ruolo in cui gioca e il modo in cui tira i calci di punizione, è vero che siamo simili». Altafini non ci sta e alza la posta: «Diego è più veloce di Zico e può giocare in tutto il campo».
Eppure ancor prima di essere costruito il castello sta già crollando. Crollando intorno a Diego che forse non è consapevole di cosa voglia dire prendersi una squadra come la Juventus sulle spalle mentre c’è ancora Alessandro Del Piero; crollando intorno a me che credo a quello che dicono di lui, e penso di averlo detto prima; crollando intorno alla squadra, che prende decisioni pessime una dietro l’altra. In panchina viene data fiducia a Ciro Ferrara, secondo l’idea per cui è sufficiente un allenatore giovane e con un buon passato da giocatore per ricalcare il sodalizio Barcellona-Pep Guardiola. Dal mercato arrivano Felipe Melo, Grosso e Cannavaro, figliol prodigo, mentre Pavel Nedved smette. Oggi sembrano scelte folli, un evidente sabotaggio, ma in quel momento - chissà perché - non sembrava così. Anzi.
Prima che tutto inizi a crollare gravemente come in un film di Nolan però, io e Diego tocchiamo l’apice, che poi è anche l’apice tra Diego e la Juventus, tra Diego e il gioco del calcio. Accade molto presto - alla seconda giornata - contro la Roma. Diego segna due gol, ma non sono due gol normali, sono un manifesto del giocatore che io mi ero immaginato e che ancora oggi non so se è mai esistito davvero. Due gol che sono piuma, ma anche ferro.
Nel primo approfitta di un errore di Cassetti, che proprio a causa della pressione del brasiliano perde il controllo del pallone sulla linea di centrocampo. Diego ci si avventa come i falchi sui conigli nei documentari e si invola verso la porta della Roma. Dall’esterno prova a chiuderlo Riise che arrivando in diagonale sembra in anticipo coi suoi capelli rossi e i muscoli bianco latte. Ma è qui che entra in gioco lo strano talento di Diego per i contatti e i controtempi: come un musicista jazz, proprio al momento giusto, il brasiliano cambia il ritmo della sua corsa e fa un movimento sincopato che inganna Riise. Il difensore preso in controtempo può solo sbattere contro Diego che però sembra fatto di gomma: il brasiliano rimbalza e prende velocità, il difensore perde l’equilibrio. Recuperato il vantaggio Diego entra in area mentre alle sue spalle lo inseguono invano. Non affretta il tiro, non si fa intimorire dagli avversari, con estremo controllo della situazione arriva fin quasi al vertice dell’area piccola e quando Julio Sergio accenna l’uscita lo supera con un colpo di esterno destro assolutamente controintuitivo che finisce la sua corsa nell’angolo opposto della porta.
In questo gol c’è tutto Diego: la classe e il tempismo che in una frazione di secondo gli fanno scegliere di calciare nel modo meno probabile ma più remunerativo, la velocità e la potenza per partire da centrocampo e vincere un contrasto con un giocatore fisico come Riise.
Il secondo è poi la conferma delle sue capacità superiori, che sono solidi gli anni a venire, le mie domeniche piene delle sue giocate. Un filtrante di Amauri lo mette in condizione di andare in uno contro uno con Mexès. Mentre il pallone scorre alla sua destra, senza toccarlo, gli passa sopra con una specie di doppio passo e rapidamente sposta il peso del corpo verso sinistra, come a voler andare da quella parte. Non appena Mexès cambia direzione in reazione al movimento del brasiliano, Diego - che ancora non ha toccato il pallone - in una frazione di secondo sposta l’equilibrio del corpo verso destra e solo a quel punto lo tocca appena per aggiustarselo e impedire a Mexes di opporsi al suo tiro ad incrociare, che forte e teso batte Julio Sergio.
Ancora oggi ho vivido il ricordo di quei gol, la gioia provata dopo il secondo - il gol dell’uno a due - espressa inginocchiandomi sul tappeto davanti la TV ed alzando le braccia al cielo, come se Diego fosse la mia Mecca, la Mecca della rinascita bianconera. Come dice il telecronista in diretta, «la Juventus per 24 milioni e mezzo ha acquistato uno dei giocatori più forti del mondo».
Poi, più nulla
Poi, davvero, più nulla. Se oggi ricordo i due gol alla Roma come fossero stati segnati la scorsa domenica, o ogni domenica da quel 30 Agosto 2009, non ricordo nulla delle altre 43 partite giocate da Diego con la Juventus. Ricordo la stagione disastrosa della squadra, le aspettative che muoiono velocemente dopo sconfitte mai viste contro squadre come Palermo, Cagliari, Bari, Catania, ma non ricordo nulla di Diego. A rivedere i numeri la sua stagione non sembra neanche male: mette a referto 7 gol e 12 assist in tutte le competizioni (quasi tutti da calcio da fermo), numeri che però sembrano esistere solo su carta, non in campo, dove - vi giuro - Diego svanisce dentro una maglia a righe bianche e nere forse troppo larga. Il brasiliano è un fantasma e il mio amore diventa indifferenza. Diego non si aiuta, sembra avulso dal sistema, tatticamente inadatto alla Serie A, sovrastato dalla figura di Del Piero. Il suo talento si accende a sprazzi e non è sufficiente per il ruolo che gli era stato affidato. La Juventus arriva settima e fa tabula rasa: Andrea Agnelli diventa il presidente, Giuseppe Marotta e Fabio Paratici il braccio operativo. Come allenatore arriva Delneri.
Diego resiste ancora un po’: gioca le prime tre partite della nuova stagione, che sono il purgatorio della qualificazione in Europa League, due volte contro lo Shamrock Rovers e contro lo Sturm Graz. Mette a segno due assist, ma soprattutto gioca bene. A rivedere quelle partite è tra i migliori, nell’inedito ruolo di seconda punta nel 4-4-2 di Del Neri. Eppure non basta: pochi giorni prima della chiusura del mercato Diego viene crocifisso sull’altare delle aspettative fallite e del cambiamento. Ceduto al Wolfsburg per 15 milioni di euro con una pesante minusvalenza che stride nella solitamente oculata gestione economica dei bianconeri. In una squadra allo sbando, piena di giocatori inadeguati al contesto, al brasiliano non viene concesso il beneficio del dubbio, il famoso anno di ambientamento al campionato italiano.
Diego se ne torna in Germania e la mia mente lo cancella. La sua storia dice Wolfsburg, Atletico Madrid, Wolfsburg, Atletico Madrid, Fenerbahce, Flamengo. In ogni squadra si ritaglia il suo spazio, gioca con continuità, anche bene. Con l’Atletico di Simeone vince l’Europa League, al Flamengo scopre una seconda giovinezza, tanto da guadagnarsi una convocazione in Nazionale a quasi dieci anni di distanza dall’ultima.
Ma mai torna a quel pomeriggio di Roma, mai più in un discorso che comprenda Messi e Cristiano Ronaldo. Nessuno ha più pensato a lui come ad un campione, mai più io ho detto a qualcuno di averlo amato (fino ad oggi almeno).
Se fossi uno cinico, uno che davvero si è scordato di Diego e della sua capacità di muoversi su tempi e spazi diversi, penserei che il brasiliano è stato un male necessario: necessario a far cambiare dirigenza, a far cambiare allenatore e progetto. Potrei dire che da Diego, in un paio di mosse, si è arrivati alla Juventus di oggi. Che tradirlo così è stata la miglior decisione. Ma l’amore non è mai cinico, neanche quando svanisce nel nulla, e io a Diego ogni tanto ancora ci penso. Chissà che gli è successo, se è felice oppure triste. Se sta bene con sé stesso o la notte pensa a quel giorno in cui è stato uno dei migliori al mondo e poi più niente.