Quando studiavo arte, un giorno d’estate, un amico neanche troppo intimo mi chiamò un pomeriggio per chiedermi aiuto. Faceva l’assistente di un noto scultore, uno dei più conosciuti e apprezzati a Roma, che gli aveva lasciato un progetto da mandare a una mostra all’estero, forse in Germania, mentre lui era nella strada sotto allo studio a giocare a carte - o forse era partito, aveva un impegno serio, non lo so, in ogni caso passava molto tempo a giocare a carte con i tizi del quartiere, mi aveva detto il mio amico, e quando aveva una mostra si riduceva alle ultime 24 o 48 ore, lavorando senza pause con la foga di uno sciamano.
Il progetto in questione era per un disegno con al centro una spirale al carboncino, su un tipo di carta giapponese che all’epoca si comprava a Parigi (immagino adesso si trovi anche a Roma) di cui avevamo al massimo cinque o sei fogli. Avevamo le misure, più o meno, scritte su un foglietto di carta in cui si faticavano a leggere i numeri: il diametro totale, lo spessore delle linee e lo spazio tra le linee stesse (il passo di spirale). Sembrava facile e abbiamo passato la maggior parte del pomeriggio a guardare le altre opere in corso, ben più ambiziose, ricordo quel magazzino pieno di pezzi di legno e di ferro come una specie di foresta incantata. Quando poi ci siamo messi al lavoro ci siamo accorti che non era così semplice.
Ci siamo messi i guanti per non sbavare il carboncino e stavamo attentissimi a tracciare le linee con estrema regolarità ma c’era sempre qualcosa che non andava. Ci veniva sempre troppo piccola la spirale o troppo strette le linee, soprattutto non riuscivamo a non sporcare il foglio. Li mettevamo sul pavimento, poi in verticale, ma il carboncino usciva sempre dalle linee progettate e sporcava la carta morbida e lanosa.
Abbiamo fatto nottata, dietro quella spirale, ma alla fine ci siamo riusciti. L’artista è tornato la mattina dopo e ha trovato la sua spirale già fatta. L’ha guardata al volo e poi, passandoci velocemente sopra la mano con un movimento unico a zig-zag, ha sfumato le linee sporcando il foglio immacolato e rendendo illeggibili alcuni contorni. Quando aveva finito di passarci sopra la mano, la spirale si vedeva appena.
Da quell’esperienza ho capito due cose.
La prima è che l’arte non è precisione. Pensavo di saperlo già, ma finché non mi è stato chiesto di fare una spirale con del carboncino non mi ero accorto che per me doveva essere precisa. Anche se, in effetti, il disegno che avevamo fatto noi non aveva niente di personale o veramente comunicativo. Una volta che l’artista ci aveva passato la mano sopra, invece, sì. Sembrava uscita da un sogno, o da un incubo, il nostro sforzo aveva preso improvvisamente senso ed era un senso che fino a un attimo prima stava chiuso nella testa dell’artista. Ci aveva usato come strumenti, come dei righelli e delle squadre, consapevole che avremmo ragionato come dei righelli e delle squadre, e noi neanche ce ne eravamo accorti.
La seconda cosa che ho capito è che certa arte “minimale”, diciamo così, non è meno complessa. Ci sono artisti che hanno bisogno di molta materia, di combattere con tela e colori o con il pezzo di legno o di ferro a cui danno forma, ce ne sono altri a cui basta un gesto. C’è la progettazione, c’è l’idea e tutto il resto, ma di fatto la loro espressione artistica prende forma con un singolo gesto.
Ho fatto questa lunga premessa perché mi pare che nel calcio contemporaneo si possa compiere una distinzione.
L’arte offensiva, l’attacco, è un’arte massimalista, che richiede freak con i superpoteri: Mbappé che trasforma il terreno sotto ai piedi dei difensori in un mare agitato, li fa sentire come poveri marinai alla deriva in un mare in tempesta, finché quei poveracci si sporgono dai cartelli pubblicitari a bordo campo per vomitare; Haaland che va a prendere la palla di caviglia a due metri di altezza con una specie di mossa da wrestling, sgraziato ed efficace come un attaccante fabbricato dal diavolo in persona.
La difesa invece è un’arte minimalista. E basta guardare all’ultima giornata di campionato per capire cosa intendo. I difensori, per definizione, non gestiscono l’azione ma reagiscono, non sta a loro prendere l’iniziativa, devono aspettare il momento giusto ma senza diventare passivi. Se diventano passivi, beh, fanno la fine di Barella nel terzo gol subito dall’Inter con l’Udinese.
Se c’è una cosa che ho capito scrivendo e parlando di calcio negli ultimi dieci anni è che al pubblico italiano - ma forse è un’abitudine più diffusa - piace molto sottolineare l’errore. Qualsiasi errore, come fosse una religione, il culto dell’errore. C’è sempre un errore, d’altra parte. Il che sembra portarci a due conclusioni paradossali. Da una parte si pensa che se non ci fossero errori, se gli esseri umani che giocano a calcio non fossero così fallibili, allora nessuna squadra subirebbe mai gol, e in questo senso davvero il risultato perfetto sarebbe lo 0-0. Ma solo uno 0-0 senza errori. Dall’altra però se gli attaccanti non sbagliassero sempre qualcosa, un controllo, un dribbling, una decisione, un tiro, allora segnerebbero indipendentemente dalla difesa.
Chissà chi avrebbe ragione, chissà quale idea di perfezione si rivelerebbe quella giusta, se solo la perfezione esistesse davvero. Ma dato che non esiste, forse ci converrebbe vedere la cosa in modo diverso, più sfumato. Perché in fin dei conti ogni decisione, ogni gesto, ogni giocata, può diventare un errore.
Per questo dicevo che l’arte difensiva è minimalista, perché a volte meno fai meglio è. Prendiamo il caso di Gatti. Dalla Serie D alla Serie A in due anni, con un allenatore che è anche uno degli apostoli del culto dell’errore di cui parlavo - una volta è il giocatore che colpisce la palla di testa correndo all’indietro, un’altra volta è Paredes che non copre la zona ed è la causa indiretta di Miretti che fa fallo da rigore, e così via - e cosa fa alla seconda partita da titolare in stagione? Il movimento sbagliato che costa il gol della sconfitta contro una neopromossa.
Un passo in avanti. Parliamo di un semplice, piccolo, passo in avanti. Uno di quei passi che, per economia di pensiero e per una questione di pace interiore, non possiamo mettere in questione. Immaginate come sarebbe vivere se, ogni volta che volete fare un passo in una direzione, vi doveste chiedere: aspetta Daniele, pensaci bene, non sia mai che Christian Gytkjaer ti sfili alle spalle e insacchi Perin.
Ecco, difendere in Italia è difficile fino a questo punto. Che fai un passo in avanti e rischi di non giocare mai più in Serie A.
Facciamo adesso un esempio positivo. Un’azione che a fine partita non è neanche entrata negli highlights ma che dal punto di vista difensivo è un piccolo capolavoro di minimalismo.
Al 90esimo minuto appena scoccato di Roma-Atalanta, una partita faticosa in cui la squadra di Gasperini ha giocato in un modo che non piace neanche al suo allenatore, e che stava vincendo soprattutto grazie all’imprecisione di Abraham, Ibanez e Shomurodov, i giocatori che hanno avuto le occasioni più grandi. E proprio Shomurodov, entrato nel secondo tempo e più fresco degli altri, a tempo scaduto viene lanciato da Zalewski in profondità, alle spalle di Toloi che è molto più lento.
Hateboer, dall’esterno destro, taglia verso il centro ma Shomurodov è troppo veloce anche per lui. Hateboer, però, ha anticipato una possibile giocata del suo avversario, il passaggio rasoterra verso il centro dell’area dove arrivava Belotti, e corre in quella direzione, come un paio di forbici che tagliano il nastro che inaugura un nuovo edifico pubblico Hateboer taglia quella linea di passaggio con la corsa e mette la palla in angolo.
Ma veniamo adesso al piatto forte, difensivamente parlando, della scorsa giornata. Kim Min-Jae è arrivato a Napoli con il compito impossibile di sostituire Kalidou Koulibaly, un giocatore talmente fuori scala per il nostro campionato che a volte dava l’impressione di annoiarsi difendendo. Koulibaly nelle ultime stagioni sembrava uno di quei bambini più avanti degli altri che si annoiano in classe, che avrebbero bisogno di una scuola speciale per essere davvero stimolati (in Premier League, a giudicare dalle difficoltà delle prime giornate, di stimoli ne ha quanti ne desidera).
Contro il Milan, come tutta la difesa del Napoli, Kim ha sofferto in più di un momento. Giroud ha giocato forse la sua miglior partita da quando è in Italia, vincendo quasi tutti i duelli fisici e giocando sempre in modo imprevedibile - a volte troppo, come quando ha tolto a Calabria una palla da gol per tentare uno scorpione in area di rigore. La prima occasione della partita arriva con una giocata totalmente controintuitiva di Krunic che serve Giroud alle sue spalle, con un colpo di interno che è quasi un colpo di tacco.
Giroud, genio dell’arte minimale offensiva - perché si può essere minimali anche in attacco - aveva fatto un passo verso sinistra proprio per staccarsi da Kim. Quando gli arriva sopra è troppo tardi, Giroud ha già calciato, per fortuna del Napoli però sulla traversa. Giroud gioca con una concentrazione mistica nei momenti determinanti di una partita, seguendo un piano divino che conosce solo lui e che si avvera solo ogni tanto (un lato spirituale che contrasta un po’ con il suo aspetto esteriore, che lo fa sembrare uno di quegli uomini che guardando l’inizio di American Psycho in cui Patrick Bateman elenca la sua routine mattutina fatta di mille addominali e una decina di creme per il viso lo prende come un tutorial, come un modello da seguire) e deve essere un incubo da marcare in area di rigore, proprio per come si sottrae al contatto, per come gioca con gli spazi vuoti che inevitabilmente si creano in area di rigore.
Anche nel gol Kim si perde Giroud, stringendo su Messias, proprio perché, ripeto, ogni scelta può rivelarsi un errore quando devi tenere d’occhio non uno ma due, tre giocatori avversari in zone diverse del campo e che fanno movimenti opposti. Un difensore non sa mai quando sta per arrivare l’occasione di essere decisivo. Davvero decisivo. Una di quelle occasioni in cui un difensore può finire negli highlights di una partita in positivo.
Difendere è un’arte spesso invisibile. A cui prestano attenzione i tifosi della squadra che sta subendo l’attacco, ma è un’attenzione piena d’ansia, che è generata dalla presenza-assenza del dio errore, pronto a manifestarsi da un momento all’altro. E lascia il tempo che trova, di solito, lascia un senso di sollievo che non è l’entusiasmo di una giocata geniale offensiva.
A volte, però, un difensore è in grado di trovare quel momento all’interno di una partita importante. Magari a tempo scaduto, quando la sua squadra sta vincendo fuori casa, in una città dove i suoi tifosi vengono insultati e storicamente discriminati, ospite della squadra campione in carica. Che per giunta sta giocando meglio e perdendo, che ha da poco preso una traversa clamorosa, la seconda della partita, e che (magari lo pensa anche il difensore in questione) meriterebbe il pareggio.
Non so se il colpo di testa di Brahim Diaz su cross di Bennacer sarebbe entrato in porta. Probabilmente sì. Ha colpito piuttosto vicino, al limite dell’area piccola, con una buona porzione di porta libera sul secondo palo, ma ha colpito quasi di spalle e Diaz non è certo uno specialista. Fosse stato Giroud avremmo avuto la certezza che quel colpo di testa, in caso, sarebbe finito dentro, ma così non possiamo saperlo.
Ogni discorso però è annullato dall’intervento di Kim, pulito come uno di quei video virali in cui i padri prendono al volo il proprio figlio di sei mesi una frazione di secondo prima che cada di faccia sulla punta di un coltello. La cosa fenomenale dell’intervento di Kim è che non cerca di spostare Diaz con il fisico, di sporcargli il colpo di testa, ma che va “a muro” subito dietro, va per la palla e la prende in pieno.
La prende così bene e la distanza è talmente ravvicinata che in diretta non sembrava neanche l’avesse presa, al punto che Diaz si dispera per una frazione di secondo ma deve subito sbracciarsi per chiedere l’angolo. Altrimenti sembra che sia stato lui a compiere il fatidico errore.
Ovviamente Kim esulta come se avesse segnato e considerando che quella era praticamente l’ultima azione della partita assume un significato speciale, simbolico della capacità del Napoli di resistere alla potenza di fuoco del Milan. E simbolico anche del valore di Kim stesso, che in poche partite ha già mostrato di poter dare quanto meno sicurezza al reparto difensivo del Napoli.
La perfezione non esiste, soprattutto per i difensori. Ma nei momenti di maggiore ispirazione i difensori sono come quello scultore che lascia fare tutto ai suoi due giovani assistenti (anzi all’assistente e all’amico che l’assistente chiama in aiuto perché sa che non ha niente di meglio da fare) e poi arriva all’ultimo, un secondo prima del fischio finale, che arrivi il corriere e impacchetti il disegno per la mostra, e con un solo gesto della mano dà un senso nuovo e inaspettato a tutta quella fatica.