Sul vocabolario il significato di evoluzione è “trasformazione graduale e continua per cui una data realtà passa da uno stato iniziale ad un altro stato perfezionato, attraverso cambiamenti”. Si tratta quindi di un processo lento e macchinoso, che interagisce con noi spesso senza nemmeno rendersene conto, se non nel momento in cui di guardiamo indietro e cerchiamo di capire in che momento tutto ha avuto inizio.
Per oltre 50 anni la NBA ha vietato la difesa a zona, contrariamente a quanto succedeva nel resto del mondo a partire dal campionato NCAA fino ad arrivare al basket del vecchio continente. La norma, lunga e articolata, prevedeva diverse sfaccettature che limitavano il posizionamento dei difensori: in linea di massima ogni difensore doveva marcare a breve distanza il suo corrispettivo attaccante oppure poteva raddoppiare la palla. Il posizionamento intermedio e prolungato tra attaccante diretto e palla senza marcare nessuno dei due, quello che oggi viene definito “stare flottati”, era considerato difesa illegale.
L’illegal defense era l’incubo di ogni difesa, in particolare quelle che dovevano giocare contro i Chicago Bulls di Jordan. Nelle clip alcuni esempi di illegal defense a causa di un posizionamento lontano dalla palla non consentito.
Nella stagione 2001 la NBA ha modificato il regolamento, togliendo le restrizioni difensive della difesa illegale, aprendo a qualunque tipo di difesa, tra cui virtualmente anche quella a zona. Quel momento, assieme all’introduzione del tiro da tre nel 1979, ha avuto un impatto profondo, cambiando completamente le carte in tavola e contribuendo a spingere l’evoluzione del gioco fino ai giorni nostri, a quasi 20 anni anni distanza.
Quando vigeva la difesa illegale difendere contro le stelle NBA degli anni ‘90 era impresa assai complessa: gli allenatori abusavano delle limitazioni difensive studiando modi per isolare i loro migliori giocatori su un quarto di campo, parcheggiando gli altri sull’altro e lasciando che le stelle facessero le stelle. In questo modo l’attacco si riduceva a interminabili e stagnanti isolamenti in cui i vari Michael Jordan, Charles Barkley, Shaquille O’Neal e una lunga schiera di stelle, forze della natura di per sé immarcabili, abusavano dei difensori lasciati soli ad arrangiarsi come meglio potevano. Se partiva un raddoppio (che doveva necessariamente essere “forte”), era facile leggerlo e muovere il pallone per trovare un tiro aperto.
Bastava semplicemente liberare un quarto di campo per costringere i difensori lontano dalla palla a seguire gli attaccanti. Il difensore che rimaneva a difendere in single coverage doveva resistere il più possibile con le sue forze fino al raddoppio o fino a quando non veniva sbloccata la possibilità di aiuto da parte dei compagni. Che arrivava sempre troppo tardi.
Nei primi tempi dopo il cambio di regolamento si creò una spaccatura tra allenatori favorevoli e sfavorevoli. Tra i dissidenti vi furono Pat Riley, Rudy Tomjanovich e Gregg Popovich che ritenevano un errore madornale permettere qualunque difesa, compresa quella a zona, oscurando il gioco delle superstar di allora. Tomjanovich, al tempo allenatore degli Houston Rockets, disse: «La zona neutralizzerà le grandi capacità atletiche delle nostre stelle. Questa regola cambierà in peggio il gioco, rallentandolo». Sulla stessa lunghezza Pat Riley aggiunse: «Nessuno sarà più in grado di andare in penetrazione. I tifosi vogliono vedere Vince Carter giocare uno-contro-uno ed esplodere a canestro». Jerry Colangelo - fautore della riforma insieme a Stu Jackson, Bob Lanier e a un comitato illustri di ex coach NBA su mandato di David Stern - si difese così contro l’accerchiamento da parte degli allenatori: «C’era bisogno di un cambiamento visto che il gioco ha perso ogni fluidità: non c’è più movimento di palla e i giocatori sono diventati spettatori non paganti. Capisco le preoccupazioni degli addetti ai lavori, ma gli staff delle squadre NBA sono composti da 6/7 allenatori cadauno, che lavorando troveranno sicuramente un modo di far rendere al meglio i propri giocatori».
Michael Jordan, di ritorno in campo con la maglia dei Washington Wizards proprio nel 2001, ebbe enormi problemi ad attaccare la zona, che aveva affrontato solo a livello NCAA quasi 20 anni prima. Quel Jordan, seppur 38enne e appesantito, doveva fare i conti con difensori che potevano flottare per “mangiargli” spazio: dopo una partita persa in cui gli avversari difesero a zona per tutto il secondo tempo sbottò a mezzo stampa dicendo: «Non mi piace la difesa a zona, la intendo come un modo pigro di difendere. E difendendo così si impedisce alle stelle di fare le loro giocate».
Per evitare schiere di difensori asserragliati in area a ostruire la via per il canestro e aprire invece la possibilità agli attaccanti di raggiungere il ferro, venne venne introdotta la regola dei tre secondi difensivi tutt’ora in vigore: i difensori possono entrare dentro l’area dei tre secondi ogni volta che vogliono, ma non possono sostare al suo interno per più di 2.9 secondi con entrambi i piedi senza difendere nessun avversario. Quelli beccati per più di 3 secondi dentro l’area senza nessun attaccante vicino vengono puniti con quella che è l’interpretazione moderna della regola della difesa illegale.
Ecco come funzione la regola dei tre secondi difensivi. Seguite i giocatori evidenziati e contate i secondi in cui stanno dentro l’area colorata senza marcare praticamente nessuno.
All’inizio tra i coach NBA vigeva una sorta di patto di non belligeranza perchè difendere a zona era ritenuta un’ammissione di debolezza e un comportamento sleale. Per alcuni era uno dei motivi per cui i giovani liceali saltavano il college per andare subito a giocare nella NBA e non essere costretti a veder le loro cifre - e prospettive di scelta - fagocitate delle difese a zona NCAA.
Ma anche se nessuno dichiarava esplicitamente di usarla, i coaching staff iniziarono a sfruttarne i principi cardine nei propri schemi difensivi. Questa pratica ha portato nel tempo lo sviluppo delle difese ibride tra cui la difesa “ICE” di Tom Thibodeau e quelle basate sul cambio sistematico, praticamente difese a uomo sulla palla, strutturate attingendo a principi di zona lontano da essa.
Alla base di ogni difesa moderna, dalla difesa “ice” al cambio finanche lo show o il trap sul pick and roll, ci sono principi di zona lontano dalla palla in cui i difensori, spesso in sottonumero, cercano di tappare i buchi con il posizionamento difensivo “flottato”. Nell’ultima clip, un esempio di difesa ibrida degli Spurs durante le finali NBA vinte contro i Miami Heat nel 2014 per arginare lo strapotere di LeBron James.
La possibilità per le difese di riempire l’area a patto di rimanerci meno di 3 secondi ha costretto gli attacchi ad allargarsi sul perimetro e cambiare approccio, passando da una lenta guerra di trincea basata sui continui e stagnanti isolamenti a un basket incentrato sul movimento di palla e di uomini, più imprevedibile e dinamico, proprio come aveva previsto Colangelo. In questo ambito le superstar, che prima chiedevano alti volumi di gioco ed avevano una schiera di gregari specializzati al loro servizio, si sono dovute reinventare cambiando approccio cedendo sempre più responsabilità ai loro compagni di squadra, che nel frattempo sono diventati molto più versatili.
Cosa vuol dire difendere a zona?
Significa che i difensori anziché essere assegnati a un attaccante che seguono ovunque, sono assegnati a una zona del campo da cui possono transitare più attaccanti. Cambiando il riferimento - nella difesa a uomo la priorità è l’attaccante ed in seconda battuta la palla, nella difesa a zona è esattamente il contrario - cambiano i posizionamenti e le competenze dei difensori.
Le difese a zona si dividono in base alla disposizione iniziale dei giocatori e possono essere a fronte pari, ovvero con un numero pari di giocatori disposti sulla prima linea difensiva (la 2-3 e la 2-1-2 le più celebri) ed a fronte dispari (ad esempio la 3-2 e la 1-3-1). In linea di principio le zone pari tendono a proteggere di più il canestro, quelle dispari viceversa sono meno contenitive.
Esistono inoltre le difese miste, ovvero zone dichiarate che però sfruttano principi di uomo o autorizzano alcuni giocatori a difendere a uomo: la box-and-one (quattro giocatori a zona e uno che prende faccia a faccia il miglior giocatore avversario) sfoderata dai Toronto Raptors alle scorse Finali NBA contro Steph Curry è per l’appunto una difesa mista; quella più tipica e frequente nella pallacanestro moderna è invece chiamata match-up, in cui fondamentalmente i difensori marcano a uomo nella propria zona di competenza. Quest’ultima è una difesa estremamente tattica basata su collaborazioni e regole molto complesse.
Ecco illustrate le vari tipologie di difese a zona più comuni sui campi da gioco.
Ci sono molti programmi collegiali e diverse squadre del vecchio continente che fanno della difesa a zona il loro marchio di fabbrica, ma in NBA difendere a zona è diverso rispetto al resto del mondo perchè c’è da fare i conti in primis con i tre secondi difensivi che limitano alcuni movimenti difensivi, e in seconda battuta con attacchi sempre più performanti e tiratori di livello più alto. La combinazione di questi due elementi comporta una serie di adattamenti determinanti rispetto alle zone tradizionali e ai principi che ne regolano il funzionamento.
La regola dei tre secondi difensivi è un enorme limite per le difese a zona, che permette agli attacchi di creare zone d’ombra entro le quali le difese non possono essere efficaci: il post alto è da sempre un punto debole per ogni difesa a zona, amplificato dall’illegal defense moderna. E con tiratori sempre più precisi ed efficaci, chiudersi a riccio significa lasciare autentici rigori a porta vuota ai migliori interpreti del tiro del mondo in materia.
L'impatto della difesa a zona nella NBA
La difesa a zona nella NBA quindi è meno “pura” ma molto più flessibile e versatile - agli addetti ai lavori piace usare il termine “adeguata” - per venire incontro alle esigenze di difesa del pitturato ma senza scoprirsi troppo sul perimetro, concepita per costringere gli avversari a pensare fuori dagli schemi, frammentare la circolazione di palla e, in definitiva, creare confusione. Popovich ad esempio da scettico è diventato un grande sostenitore della difesa a zona sostenendo che gli attacchi NBA contro di essa entrano in una sorta di spirale psicologica per cui smettono di eseguire e, anziché agire di concerto, si fanno prendere dalla frenesia e tentano assoli fuori dal coro, magari perché ingolositi da un accoppiamento sulla carta favorevole.
Nelle clip vedete come di fronte alla zona anche gli attacchi più fluidi del mondo si paralizzano, smettono di eseguire, si rompono le geometrie e i giocatori, presi dalla frenesia di dover risolvere la fase di stallo in cui si trova l’attacco, devono improvvisare.
Recentemente i coach NBA, specialmente quelli di ultima generazione, hanno iniziato a contravvenire al patto che legava i loro predecessori cominciando a schierarsi sempre di più a zona anche dal primissimo minuto di gioco. Dal 2016 al 2019 la difesa a zona ha coperto l’1% dei possessi totali difensivi e solamente 10 squadre in questo arco di tempo hanno difeso a zona per più di 100 possessi a stagione. I Nets sono stati i primi a sfondare il muro dei 500 possessi difensivi a zona per più stagioni consecutive, guadagnandosi l’appellativo di “Syracuse della NBA”. In questa stagione, secondo uno studio del New York Times, l’uso della difesa a zona è cresciuto del 50% rispetto allo scorso anno con alcune squadre che hanno abbattuto il muro del 10% dei possessi difensivi totali.
L’aumento dei possessi difensivi a zona è significativo e destinato a non arrestarsi, ma ancora ben lungi da assestarsi su livelli tali da soppiantare del tutto la difesa a uomo. La zona è principalmente un’arma tattica che, se usata con criterio, serve a manipolare il ritmo del gioco e disinnescare molte armi dell’attacco, tra cui il pick and roll e alcuni tipi di Motion Offense. A a lungo andare però, quando svanisce “l’effetto sorpresa”, richiede una grande forza di volontà, una preparazione decisamente più meticolosa di una difesa a uomo, un dispendio enorme di energie psico-fisiche e un notevole spirito di adattamento appena l’attacco organizza le contromosse.
Un buon viatico per attaccare proficuamente la zona è tenere vivo il movimento di palla con l’idea di mettere sotto pressione le collaborazioni difensive. Fatto questo è necessario muovere i giocatori con criterio, per costruire situazioni di sovrannumero da attaccare rapidamente.
C’è modo e modo di giocare a zona in base al materiale umano a disposizione, allo scopo da perseguire mettendola in campo e al momento della partita in cui è propizio cambiare difesa. Ad esempio i Miami Heat - squadra tra le più assidue utilizzatrici di zona e dotata di alcuni tra i difensori più versatili in circolazione - difendono a zona 2-3 con l’idea di prendere iniziativa sull’attacco entrando in una sorta di trance agonistica, in cui i giocatori si galvanizzano e agiscono come un’unica entità con grande preparazione e disciplina tattica basata sulla fiducia reciproca, sulla costanza e sulla precisione con cui eseguono gli schemi difensivi.
Dedizione, spirito di sacrificio, capacità di adattamento, grande intensità: tutte qualità che tengono uniti i legami che permettono alla difesa a zona degli Heat di diventare un rebus di difficile soluzione per gli attacchi NBA.
I Raptors invece puntano sulla varietà: hanno diversi tipi di zona che possono schierare in campo per amplificare le caratteristiche fisiche e il potenziale dei loro migliori difensori, come ad esempio la 3-2 con il coltellino svizzero difensivo Pascal Siakam in punta a fare da barriera contro le penetrazione centrali, o la 2-3 se vogliono impantanare gli attacchi avversari abbassando il ritmo del gioco. Come abbiamo potuto vedere durante le scorse Finals non si fanno certo scrupoli a tirar fuori “difese spazzatura” o desuete come la box-and-one pur di sparigliare le carte in tavola.
La 3-2 dei Raptors permette di disinnescare gli effetti del pick and roll centrale, le qualità difensive dei singoli tengono unito tutto il resto.
I Brooklyn Nets nella loro 2-3 iper-contenitiva cercano di convogliare la palla nelle fauci dei loro stoppatori concedendo sistematicamente il tiro dalla media distanza. Talvolta la loro difesa a zona in realtà significa quattro difensori che si accoppiano con gli attaccanti e un battitore libero, spesso Jarrett Allen, pronto a aiutare chiunque.
La zona 2-1-2 dei Nets nasce dall’idea di sfruttare le doti intimidatorie di Allen convogliando verso di lui ogni penetrazione, proprio come se fosse una difesa a uomo molto contenitiva.
I Philadelphia Sixers e i Milwaukee Bucks sono tra le squadre che si trovano più spesso a dover affrontare difese a zona, date le difficoltà al tiro delle loro stelle principali. I Sixers attorno a Joel Embiid non hanno tiratori efficaci ad aprirgli il campo, a partire da Ben Simmons e la sua idiosincrasia a tirare da tre punti. Contro di loro difendere a zona e/o con principi di zona significa rendere impraticabile il gioco in post basso del centro camerunense, che è costretto a costeggiare il perimetro alla ricerca di palloni giocabili.
Contro i Sixers difendere a zona significa fare sabbia mobili attorno al gioco in post basso di Embiid per togliergli ricezioni vantaggiose e costringerlo a cercare fortuna altrove.
I Milwaukee Bucks, che vivono di Motion Offense e del talento nell’attaccare il pitturato di Giannis Antetokounmpo, quando arrivano ai playoff trovano squadre che praticamente accerchiano il greco per rallentare le sue scorribande a canestro, sfidando gli altri Bucks a togliere le castagne dal fuoco - strategia che nei playoff, con il pallone che pesa il doppio, è un rischio calcolato e l’unico modo conosciuto di arginare il greco.
“Fare area”, ovvero riempire le linee di penetrazioni con più uomini possibili pronti a collassare nel pitturato, è l’unico modo per tenere Antetokounmpo lontano dal canestro. Il minore dei mali è farsi battere dal supporting cast o dal tiro da fuori dello stesso numero 34 dei Bucks.
Difendere a zona è e continuerà ad essere una preziosa arma tattica per le difese NBA: per alcune squadre è già una realtà, per altre una via creativa di sorprendere gli avversari, per altre ancora un porto sicuro in cui rifugiarsi quando la difesa a uomo non funziona. In ogni caso, con l’avvicinarsi della post-season in cui ogni possesso può risultare decisivo e ogni pallone pesa il doppio di quello precedente, l’uso della zona è destinato ad aumentare vertiginosamente.