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Dirk Kuyt, riportando tutto a casa
06 dic 2016
Epica minore di un giocatore speciale.
(articolo)
12 min
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Il senso di liberazione fa cadere il corpo a terra senza forze. I compagni stanno correndo in tutt’altra direzione per condividere un momento di gioia mentre lui in solitaria, ancora una volta, elabora il dolore. Da sette anni il 29 giugno per Dirk Kuyt non è una data come le altre perché è quella in cui suo padre, Dirk Kuyt Senior, ha perso una lunga battaglia contro il cancro ai polmoni. La ricorrenza nel 2014 cade lo stesso giorno in cui l’Olanda si gioca il passaggio ai quarti di finale sfidando il Messico. La grafica iniziale, nel giorno della sua centesima presenza in Nazionale, lo schiera fra i tre mediani di un 4-3-3 ma nei fatti il ct Louis van Gaal lo impiega come esterno di sinistra a tutto campo in un 5-3-2. È una partita ostica in cui il Messico riesce ad ingabbiare l’Olanda e a trovare il vantaggio con Giovanni dos Santos. A quel punto van Gaal vara il sistema di gioco palla a Robben ma per farlo è costretto a modificare l’assetto tattico della squadra. Diventa il terzino destro, arrivando a coprire tutto il campo di gioco, e quando vede Sneijder scaricare con tutta la forza che ha in corpo il pallone che regala il pareggio all’Olanda, i muscoli ormai logori dai chilometri corsi nell’afa di Fortaleza hanno solo l’elasticità per un ultimo gesto, quello di inginocchiarsi per lasciarsi sopraffare dalla fatica e dall’incredulità di aver riacciuffato all’ultimo istante una partita ormai persa. Un sorriso si apre sul volto e accompagna lo sguardo che verso il cielo.

«Ognuno è forgiato dall’adolescenza che vive, e quel che diventa, quello che fa, ne è il risultato. Ecco com’è andata con mio padre».

Mare, gol e fedeltà

Katwijk è una città costiera dell’Olanda Meridionale composta da cinque diversi distretti. Uno di questi è Katwijk aan Zee, il luogo in cui Dirk Kuyt Senior si è sposato con Joke ed ha avuto quattro figli. Come la maggior parte degli uomini di quest’area, Kuyt Senior è un pescatore ed è sempre in balia del freddo nel pieno della notte, lontano da casa, senza la possibilità di vedere la propria famiglia per lunghi periodi. La distanza è il banco di prova più selettivo per i sentimenti e Dirk, terzo di quattro figli, si dimostra quello più affezionato. Lo guarda scendere dal peschereccio insieme a tanti altri uomini come lui e pensa che il mare sarà il suo posto nel mondo.

A Katwijk c’è una sola società che gli possa permettere di giocare a calcio, i Quick Boys, e Kuyt viene iscritto dal padre quando ha cinque anni. La società non offre garanzie tecniche, la prima squadra gioca a livello amatoriale e non ha mai prodotto grandi talenti ma in quell’istante non è un problema perché il senso di affezione alla famiglia e alla comunità non permette ancora di immaginarsi in qualche altro posto. È molto più facile prendere a cuore l’idea di proseguire le tradizioni di famiglia che quella di diventare un giocatore professionista. Suo padre però, conoscendo la malinconia delle notti lontano dalla famiglia, non vuole per Dirk una vita come la sua. «Dissi a mio padre che volevo essere come lui un pescatore. Ma ad 11 anni lui mi disse che avrei fatto meglio a rimanere sulla terra ferma per provare a diventare un calciatore». Poco tempo dopo, quando Dirk ha 16 anni, rifiuta l’offerta da parte di un marinaio di entrare a far parte del suo equipaggio, a quel punto ha già capito che vuole provarci seriamente con il calcio. L’unico problema è che, durante la sua adolescenza, nessun osservatore o direttore tecnico di una delle tre grandi squadre d’Olanda è venuto sino a Katwijk per guardare da vicino questo attaccante dalla statura minuta e portarlo in una delle loro accademie. Spende il suo intero percorso giovanile con i Quick Boys e, pur avendo l’ambizione, tra sé e sé pensa che il calcio professionistico resterà un sogno. Invece riesce a debuttare in prima squadra e appena sei partite dopo la dirigenza dell’Utrecht punta su di lui, che a 18 anni si ritrova a passare dal mondo dilettantistico alla Eredivisie.

Nonostante questo incredibile salto di categoria, non sente minimamente la pressione e in cinque stagioni con i biancorossi segna 51 gol: 31 nei primi quattro anni in cui viene schierato da ala, 20 quando nel 2002 viene spostato al centro dell’attacco. È un cambio tattico che fa svoltare la sua carriera. Al termine di quella stagione, consacrata da un gol nella finale di Coppa d’Olanda e dal titolo di Man of the match, arriva la chiamata del Feyenoord, che lo acquista per sostituire Pierre van Hooijdonk.

Contemporaneamente alla carriera calcistica, Kuyt pone le basi di una famiglia solida. Nel 2003 sposa Gertrude, una ragazza di Katwijk con cui si è fidanzato all’età di 17 anni e che durante i suoi primi passi da professionista ha studiato per diventare infermiera. Per questa ragione, nonostante il matrimonio, quando Dirk passerà al Feyenoord lei non smetterà di lavorare in una casa di riposo. «Ha continuato a fare i turni notturni e a lavorare. Sono molto fiera di lei per ciò che fatto. Non aveva bisogno di lavorare ma lo ha fatto perché voleva aiutare la gente». Un senso di equilibrio e normalità fondamentale per il prosieguo della sua carriera, rafforzato dal riavvicinamento alla sua comunità. Rotterdam, infatti, dista poco più di 40 chilometri da Katwijk e Kuyt, ogni volta che ne ha la possibilità, torna nella sua città natale per andare alle partite dei Quick Boys.

Gioca solo tre anni ma l’aria di casa, unita alla piena fiducia del tecnico Bert van Marwijk, lo aiuta ad entrare nella storia del club. Segna 71 gol in 101 partite di Eredivisie, conquista nel 2005 il titolo di capocannoniere e diventa l’idolo della tifoseria grazie alla sua completa dedizione alla maglia (una sola partita di campionato saltata, 11 in totale su 8 anni spesi fra Utrecht e Feyenoord). Nonostante questi traguardi personali, la squadra manca la vittoria del titolo nazionale e di conseguenza la qualificazione diretta alla Champions League, così nel 2006 decide di fare le valige per l’Inghilterra. È attratto da un’esperienza competitiva e lo stile di gioco della Premier League è un vestito che gli calza perfettamente. Ci prova per primo l’Everton nel 2005 con un’offerta da 10 milioni di sterline rispedita al mittente, poi Tottenham e Arsenal ma alla fine, nell’estate del 2006, sono Newcastle e Liverpool a piazzare l’offerta migliore.

Un giocatore speciale

«Amo il calcio inglese. Credo anche che il mio stile di gioco sia perfetto per la Premier League. Giocare in un club come il Newcastle sarebbe un sogno» dirà lui stesso ma la corte di Rafa Benitez, che già lo voleva ai tempi di Valencia e che poi tenterà di portarselo anche all’Inter, è più efficace. Camminando lungo i Docks di Liverpool deve aver trovato qualcosa che gli ricordasse Katwjik perché il Mersyseide diventa più della sua nuova casa: è la dimensione ideale in cui si afferma definitivamente. La media gol scende, sono 71 in 225 partite totali, ma non quella della dedizione e dell’applicazione perché Benitez lo schiera sia centravanti che seconda punta che esterno del 4-2-3-1; destra o sinistra poco importa perché lui corre su e giù per il campo, si sbatte e si guadagna l’amore incondizionato della Kop.

Dirk Kuyt è, ed è stato, un giocatore speciale. La sua attitudine a non risparmiarsi, ha portato a sminuire una dimensione tecnica e tattica invece estremamente raffinata. Ogni suo gol offre una sensazione di ineluttabilità: la scelta di colpire il pallone in una maniera specifica sembra sempre la migliore in quel determinato istante e il suo repertorio di soluzioni balistiche, soprattutto nei 16 metri finali, è praticamente infinito. Kuyt spicca soprattutto nelle letture e nelle scelte di gioco. È sempre il primo a capire le intenzioni di compagni e avversari, interpretando eventuali traiettorie di cross, tiri e respinte. Ne sono una prova i numerosi tap in sotto porta oppure i gol da distanza ravvicinata in cui, molto semplicemente, raccoglie una palla vagante nell’area piccola mentre intorno a lui tutti stanno cercando di capire cosa stia accadendo. Non c’è eleganza nei suoi movimenti ma la foga di arrivare prima di tutti su un’intuizione che solo lui ha avuto. Queste sue letture gli permettono anche di essere un colpitore di testa formidabile nonostante un’altezza non eccezionale. Ha un tempismo mistico per gli inserimenti con cui riesce a giocare d’anticipo sui difensori, in aggiunta ad una fisicità sufficiente per liberarsi del proprio marcatore.

Nel 2007 segna il rigore decisivo contro il Chelsea per andare in finale di Champions League, nel 2011 rifila una tripletta all’odiato Manchester United e l’anno dopo li elimina dalla Coppa di Lega con una rete al 92’ per un percorso che arriva sino a Wembley per la finale con il Cardiff City. Quel pomeriggio Kuyt guarda la partita quasi interamente dalla panchina ma gioca 17 minuti che sono la sua personale sinossi: entra al 103’, al 108’ segna il gol che spezza l’equilibrio, al 118’ è sulla linea della sua porta a respingere il colpo di testa di Gunnarsson ma la palla finisce sui piedi di Turner che segna e manda la partita ai rigori. Gerrard e Adam falliscono i primi due tentativi così si carica la squadra sulle spalle battendo, e segnando, il rigore più delicato della lotteria mentre Anthony Gerrard, l’ultimo ad andare sul dischetto per il Cardiff City, calcia a lato regalandogli l’unico titolo in maglia Reds.

La gioia però non cancella le difficoltà del momento. Kenny Dalglish lo mette sempre in panchina e lui non fa nulla per nascondere il suo disappunto: «Non mi illudo di giocare ogni settimana ma credo di essere ancora in grado di poterlo fare. L’anno scorso segnavo da qualsiasi posizione ma l’allenatore ha comprato tre giocatori che giocano tutti nel mio ruolo». Stanco di non sentirsi più parte integrante del progetto, e con la voglia di rimettersi in gioco, a fine stagione chiede di essere ceduto nonostante abbia ancora un anno di contratto che, con un po’ di pazienza, gli permetterebbe di andarsene a parametro zero guadagnando molti più soldi. Il nuovo allenatore, Brendan Rodgers, prova a fargli cambiare idea ma la decisione è presa e così il Fenerbache, battendo la concorrenza fra le altre di Roma e Fiorentina, lo acquista pagando la clausola da un milione di sterline.

I due anni in Turchia sono i più vincenti, ma a livello personale gli regalano l’esperienza più traumatica della sua vita. È il 4 aprile del 2015, la squadra sta rientrando da Rize dopo la vittoria per 5-1 sul Rizespor quando alcuni individui armati attaccano a colpi di mitra il pullman. L‘autista viene ferito all’occhio ma ha i riflessi per bloccare l’autobus prima che rompa il guard rail e cada nel vuoto. Per via di un infortunio lui non è a bordo ma le tensioni che ruotano intorno a quell’episodio sono troppo forti per non farsi venire il dubbio che sia giunto il momento di cambiare nuovamente aria. La scadenza naturale del contratto arriva al termine di quell’anno e gli offre un’opportunità irrinunciabile: tornare a casa.

Il ritorno al Feyenoord è nel suo destino sin dal giorno in cui ha abbandonato Anfield ma la volontà di concedersi ancora un’esperienza europea, e monetizzarla al massimo, hanno rimandato di qualche anno l’appuntamento. Rotterdam segna l’ultimo capitolo della sua carriera, un capitolo che ha un solo motivo di esistere: «Mi auguro una differenza rispetto alla mia prima volta qui: questa volta voglio vincere qualcosa». Firma un contratto annuale e il suo ex compagno ed ora allenatore Giovanni van Bronckhorst inizialmente lo schiera largo a destra sulla linea dei trequartisti per sfruttare i suoi strappi in verticale alle spalle della difesa avversaria, ma alla fine il suo istinto a voler sempre influenzare la partita lo fa diventare un tuttocampista. Sulla carta è il centrale di un centrocampo a 3 con Vilhena e El Ahmadi, in realtà è libero di svariare per il campo senza grosse responsabilità difensive in modo da essere un punto di riferimento nella trequarti offensiva alle spalle del centravanti Jorgensen. La media gol è tornata ad essere quella di inizio carriera, praticamente uno ogni due partite, e nel 2015, al primo tentativo, ha centrato la conquista della Coppa d’Olanda. Ma Kuyt vorrebbe soprattutto la Eredivisie, che manca dai tempi di Cruz e Tomasson.

Vera gloria?

La ricostruzione della sua biografia, nonostante i traguardi raggiunti, porta con sé un senso di incompletezza. Kuyt forse non è riuscito a imporsi nell’opinione pubblica quanto il suo spessore calcistico avrebbe meritato: nel suo palmares può vantare un solo titolo nazionale e qualche coppa di lega. Per dargli uno spessore diverso ci sarebbe voluto quel Mondiale del 2010 perso all’ultimo secondo o forse quello del 2014, che senza la scivolata di Mascherano chissà come sarebbe andato a finire. Ci sarebbe voluta quella Champions League in cui non è bastato un gol nel finale per far riapparire vecchi fantasmi, ci sarebbe voluta una Premier League come quella solo sfiorata nel 2009. Tante occasioni mancate che non possono valere come la sua eredità sportiva ma che invece devono insinuarci il dubbio che abbia o meno raccolto quanto realmente meritasse. Anche lui ci ha messo del suo per non farsi notare: tutta la sua carriera è intervallata da dichiarazioni elementari, pochi gesti fuori dagli schemi, tante stagioni passate nelle periferie del calcio che conta e un’attitudine agonistica al limite del maniacale.

In un calcio però ricco di narrazioni stereotipiche, la storia di Dirk Kuyt brilla di una luce speciale. Perché i suoi insuccessi hanno finito per costruire un’epica minore che ne ha alimentato un culto forte, forse ancora più forte proprio perché non completamente mainstream. La narrativa del padre pescatore che indica al figlio la via del successo tramite il sacrificio è tanto banale quanto intensa, in un calcio in cui storie di questo tipo vanno diradandosi insieme all’aumento dell’informazione. Una narrativa che riesce a farsi più densa e precisa anche grazie alla coerenza con il suo stile di gioco, la sua attitudine al sacrificio, la sua intelligenza tattica. Per amare davvero Dirk Kurt, per capire la sua differenza in campo, bisogna essere degli autentici appassionati di calcio. Capire la raffinatezza delle sue letture di gioco, la qualità occulta del modo in cui calcia il pallone, il tempismo invisibile dei suoi inserimenti senza palla.

In fondo, a pensarci bene, non è poco quello che ci resta: una persona normale che ha vissuto più esperienze di quanto si aspettasse e un giocatore fantastico che ha vinto meno di quanto si meritasse.

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