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Il disastro di Cancun
08 nov 2023
Cosa ci dicono le Finals WTA in Messico sullo stato del tennis femminile.
(articolo)
14 min
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IMAGO / NurPhoto
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Uno, due, tre, quattro. I numeri enormi, bianchi sui seggiolini neri rendono semplice la conta degli assenti all’Estadio Paradisus di Cancún. Il design dei posti della sede delle WTA Finals in Messico è talmente infelice da sembrare malizioso: una visione crudele per le tenniste che a ogni cambio di campo si trovano davanti i vuoti. Uno, due, tre, quattro. Diventa un gioco nel gioco contare i seggiolini tra un’interruzione e l’altra della partita, per il vento furioso o per i temporali. A volte, soprattutto per le doppiste, è più facile contare i presenti.

L’Estadio Paradisus sorge a poche centinaia di metri dalla spiaggia, circondato da palme, esposto alle correnti dell’oceano. In Messico siamo verso la fine della stagione degli uragani – che va da giugno a novembre – e insieme al forte vento, dal mare arrivano piogge scroscianti e brevissime. Il Paradisus non ha un tetto, è in balia delle condizioni meteorologiche. Giovedì sera la partita decisiva per la qualificazione alle semifinali tra Aryna Sabalenka e Elena Rybakina è stata interrotta cinque volte prima di essere rimandata al giorno successivo. Venerdì il match tra Ons Jabeur e Iga Świątek era già stato sospeso tre volte sul punteggio di un game pari, 30 pari. Sabato l’incontro tra Sabalenka e Świątek – valido anche per il numero uno del ranking – è arrivato solo al terzo game, poi la pioggia ha fermato tutto. I temporali spesso non durano più di pochi minuti, quindi la prassi per le giocatrici è aspettare in campo, coperte da asciugamani e ombrelli piegati dalla bufera. Quando non piove, il vento condiziona ogni scambio a partire dal servizio. Coco Gauff è riuscita a perdere un game senza far toccare palla a Świątek commettendo quattro doppi falli. La sua media in stagione finora era di tre a partita. Contro Markéta Vondroušová, Gauff è arrivata a quota 17. Sabalenka si è fermata a 15 contro Rybakina.

«Lavoriamo sodo tutto l’anno per arrivare qui e alla fine è solo una delusione». Per la ventiquattrenne campionessa di Wimbledon Vondroušová era la prima qualificazione alle Finals. Non è come se l’era immaginato: «Il campo è pessimo, la palla rimbalza in tutte le direzioni, non sembra nemmeno cemento, ma erba o una brutta terra rossa. Penso che le persone alla WTA non siano per niente interessate a come ci sentiamo, è molto triste».

Le Finals sono un torneo speciale, diverso da tutti gli altri. Lo sa bene Brad Gilbert, coach di Coco Gauff. L’ex tennista le ha sperimentate prima da giocatore, poi da allenatore di Andre Agassi e Andy Roddick: «Le Finals sono uno degli obiettivi principali di qualunque atleta, sono un enorme riconoscimento per un anno di risultati costanti». È talmente grande, questo traguardo, che a volte può diventare un ostacolo: «Soprattutto chi è alla prima esperienza può cedere alla soddisfazione di essere entrato nell’élite e non prepararsi adeguatamente per una competizione senza partite facili». Nella scorsa edizione, la loro prima, né Gauff né Jessica Pegula avevano vinto un singolo match. Quest’anno però il vero problema non sembra essere quello di adattarsi al formato del torneo, ma agli uragani.

«Giochiamo tutte nelle stesse condizioni, ma non sono condizioni adeguate», ha detto la numero uno del mondo Aryna Sabalenka, che, alla luce della sua terza partecipazione consecutiva, teoricamente non avrebbe bisogno di ambientarsi alla competizione più esclusiva della stagione: «Non mi sento sicura a muovermi sul campo la maggior parte del tempo, i rimbalzi sono irregolari».

A peggiorare ulteriormente la situazione, le giocatrici non hanno avuto accesso al campo fino al giorno prima dell’inizio del torneo. I lavori di costruzione non erano ancora terminati. «Di solito abbiamo tre o quattro giorni per adattarci. È un’enorme mancanza di rispetto». Jabeur con un eufemismo si è detta «non molto felice» della situazione, e ha detto: «Si spera che una cosa simile non succeda mai, mai, mai più. Proprio mai…».

Eppure, almeno ufficialmente, le premesse sembravano diverse.«Questa edizione sarà un’esperienza fantastica per le giocatrici e per i fan e ci permetterà di continuare a costruire un futuro solido per il tennis femminile», aveva detto Steve Simon, amministratore delegato della WTA, annunciando la decisione dell’associazione sulla sede. Tra i fattori presi in considerazione: «comodità logistica per le giocatrici, facilità negli spostamenti, capienza dello stadio e impegno a supportare e dare visibilità al tennis femminile».

Era il 7 settembre, le Finals sarebbero iniziate il 29 ottobre, cinquantadue giorni dopo. L’Estadio Paradisus non esisteva ancora: al suo posto c’era il campo da golf di un resort di lusso. Il comunicato continuava: «La WTA ha valutato diverse offerte competitive attraverso un accurato processo, a stretto contatto con il Consiglio delle giocatrici». Delle migliori otto giocatrici, però, solo Pegula è nel Consiglio. Viene da chiedersi quanto sia efficace la rappresentanza, se Świątek a fine agosto diceva: «In quanto giocatrici, non siamo coinvolte nella discussione. Di sicuro è spiacevole e deludente che non sia stato ancora deciso». Insomma, non è chiaro per quale ragione alla fine la scelta sia caduta sulla città messicana. Lo stadio costruito può ospitare quattromila persone, uno dei numeri più bassi nella storia delle Finals.

Anche il calendario è un tema. La maggior parte dei tornei di ottobre, compreso l’ultimo WTA 1000 dell’anno a Pechino, si svolge in Asia orientale. Soprattutto, il giorno successivo alle finali a Cancún, slittate a lunedì 6 novembre, ha avuto inizio la Billie Jean King Cup che quest’anno si tiene a Siviglia, in Spagna. Le due due città sono separate da ottomila chilometri di distanza e sette ore di differenza di fuso orario. Non esiste un collegamento aereo diretto: con i voli di linea ci vogliono in media diciotto ore e due scali. Alla vigilia della partita per il titolo in doppio, la finalista Ellen Perez chiedeva su X se qualcuno avesse un jet privato per portarla a Siviglia in tempo per il match alle 10 del mattino di martedì. «Perché devo essere punita?», concludeva l’australiana.

E dire che le alternative non mancavano. Tra le “offerte competitive” citate dal comunicato c’era per esempio la candidatura di Ostrava, in Repubblica Ceca, che sembrava un’opzione migliore. Tomáš Petera, ex direttore del torneo WTA 500 della città e organizzatore della candidatura, il 7 settembre non aveva usato mezzi termini per commentare la scelta della città messicana. «Sono solo dei grandissimi dilettanti. Arrivano all’ultimo minuto per organizzare l’evento più grande dell’anno. La WTA aveva due opzioni: poteva scegliere Ostrava per un anno, o Ostrava per un anno e poi Praga per i restanti quattro anni di contratto, dove offrivamo 15 milioni di montepremi.A Cancún, invece, l’associazione pagherà tutto di tasca sua! E l’arena scelta sembra uno stadio da basket di qualche nostra cittadina». In realtà c’è da dire che per somigliare davvero a uno stadio da basket il Paradisus avrebbe almeno bisogno di un tetto.

Questo è il terzo anno consecutivo che la WTA si è ritrovata a organizzare le Finals all’ultimo momento, dopo Guadalajara nel 2021 e Fort Worth nel 2022. L’edizione del 2019 a Shenzhen doveva essere l’inizio di una nuova era: l’associazione aveva firmato un contratto decennale con la Cina. Poi era arrivata la pandemia – che aveva cancellato l’edizione del 2020 e chiuso le frontiere del Paese – e la questione Peng Shuai. La tennista cinese, ex numero uno nel doppio, a novembre del 2021 aveva denunciato sul suo profilo Weibo di essere stata violentata dall’ex vicepremier cinese Zhang Gaoli. Il post era scomparso dopo pochi minuti e con esso anche Peng: per settimane non si era più saputo nulla di lei.

Era stato uno scandalo mondiale, si erano mobilitate organizzazioni internazionali e ONG, governi e federazioni sportive. La WTA aveva deciso di seguire una linea molto più dura rispetto ad altri enti come il Comitato olimpico: l’amministratore delegato Simon aveva annunciato che nessun torneo si sarebbe più tenuto in territorio cinese senza le prove del benessere di Peng. Le richieste erano chiare: un colloquio diretto e privato con la tennista, e una seria indagine sulle accuse di violenza sessuale, che Peng ha poi ritrattato. Il conflitto tra la WTA e la Cina era andato avanti per mesi, e non si era fermato nemmeno dopo che Peng era riapparsa, sempre in contesti ben sorvegliati dal governo cinese, come comparsate alle Olimpiadi invernali di Pechino e un’intervista con il quotidiano francese L’Equipe a febbraio 2022.

Poi era arrivata la svolta: ad aprile 2023 – incidentalmente, proprio nel periodo in cui la Cina aveva riaperto i suoi confini eliminando una parte delle limitazioni introdotte con la pandemia – la WTA aveva fatto sapere che i tornei sarebbero ripresi, compreso il WTA 1000 obbligatorio di Pechino. La questione Peng Shuai era stata giudicata irrisolvibile e non valeva la pena continuare con il boicottaggio. In sostanza, la WTA ha ceduto sulle sue stesse richieste: un colloquio privato tra Shuai e Simon non è mai avvenuto, e non è mai stata avviata un’indagine esterna sul presunto stupro.

Tutti vissero felici e contenti, tranne le Finals, che la Cina non ha voluto più ospitare. Anche se ancora non è stato ufficialmente deciso, il futuro della competizione dovrebbe essere a Ryad, in Arabia Saudita. La monarchia del Golfo sembrerebbe aver scoperto un interesse inedito nel tennis e si è già assicurata le Next Gen Atp Finals fino al 2027. Qui però si parla di uno degli eventi più rappresentativi dello sport femminile: la scelta di organizzarlo in un Paese che criminalizza l’omosessualità, e che fino al 2017 vietava alle donne di guidare ed entrare in uno stadio, ha del paradossale. Martina Navrátilová, ex stella del tennis e donna lesbica, ha dichiarato che se fosse ancora in attività, boicotterebbe l’evento «al 100 per cento». Altre, come Jabeur, vedono in Ryad un’occasione: «Come giocatrice araba, sarei emozionata di esserci. So che in Arabia Saudita stanno cambiando le cose e si stanno evolvendo. Credo sia qualcosa che potrebbe aiutare il mondo arabo ad avere più giocatori. Sarebbe un grandissimo onore per me andarci, specialmente incontrando tante donne».

Vedremo come andrà a finire, intanto però la WTA sembra avere anche altri problemi. The Athleticha rivelato che il 5 ottobre 21 tenniste – tra cui quattro delle finaliste a Cancún: Sabalenka, Jabeur, Vondroušová e Rybakina – hanno firmato una lunga lettera indirizzata al Consiglio d’amministrazione. Tra le richieste: salario minimo garantito in base alla classifica, congedo di maternità e assistenza per i figli, trasparenza dei rendiconti finanziari dei tornei. Le giocatrici hanno chiesto infine «una replica scritta, concreta ai miglioramenti richiesti, con l’impegno chiaro della WTA ad affrontare le questioni entro venerdì 13 ottobre». Anche Świątek, con un suo messaggio, si è unita alle richieste delle colleghe.

All’invio della lettera, la WTA ha risposto solo indirettamente, proponendo due incontri alle giocatrici, «da sempre considerate alla pari nel processo decisionale», come ha sottolineato un portavoce dell’organizzazione. Alle riunioni non erano ammesse influenze esterne, quindi banditi allenatori, agenti e rappresentanti della PTPA, organizzazione indipendente dei giocatori. Non è arrivato nessun accordo definitivo, nessun passo avanti significativo tra quelli chiesti dalle giocatrici, che in compenso hanno avuto dei consigli su come rispondere in caso di domande scomode sull’organizzazione delle Finals. Alle giocatrici non eterosessuali a cui verrò chiesto se saranno a disagio a giocare in un Paese che criminalizza l’omosessualità, per esempio, è stato consigliato di rispondere: «Sarò felice qualunque sia la decisione, che onore partecipare a questo torneo». Ci sono consigli anche riguardo all’attuale situazione nella Striscia di Gaza. In ogni caso è sempre buona pratica dichiararsi «orgogliose degli sforzi dell’associazione per continuare a costruire un futuro solido per il tennis femminile».

Nel frattempo a Cancún non smette di piovere. Le finali sono slittate a lunedì. Sabalenka e Świątek sabato sera erano riuscite a malapena a iniziare la seconda semifinale. Le doppiste invece, forzate di continuo a modificare la loro programmazione, all’alba di domenica dovevano ancora terminare la fase a gironi. Pegula, ancora in gara in doppio e già finalista in singolare, avrebbe potuto giocare fino a quattro partite in quarantotto ore. Per “fortuna" della statunitense, lei e la compagna Gauff sono state sconfitte nell’ultimo match del round robin dalle future campionesse Laura Siegemund e Vera Zvonareva. Non è stata la stanchezza, quindi, a determinare la netta vittoria in finale – 6-1, 6-0 in meno di un’ora – di Świątek. La polacca termina la stagione meritatamente da numero uno del mondo.

La WTA pubblicamente fa finta di niente, ignora le lamentele delle giocatrici e le difficoltà oggettive. Continua a pubblicare highlights di errori non forzati e buffi reel dove le giocatrici devono indovinare se una frase l’ha partorita Shakespeare o Taylor Swift. Simon continua a rifiutare interviste. Intanto però è spuntata su X – diffusa da Jon Wertheim di Sports Illustrated – una mail che il Ceo avrebbe inviato alle giocatrici. Le stesse che appena un mese fa avevano chiesto una risposta formale alle loro rivendicazioni, l'hanno finalmente ottenuta solo perché i media mondiali si sono interessati a un fallimento talmente grande che non poteva essere ignorato. Simon esordisce con «Hi…», come un amico ferito. «È chiaro che non siete contente della decisione di essere qui a Cancún. Lo capisco e siete state ascoltate. La scelta della location si basa su una serie di fattori complicati. L’evento non è perfetto, capiamo che le condizioni sono una sfida e la WTA ne accetta la responsabilità». Nessuna menzione di quali siano i fattori complicati.

Ha provato a riassumerli Navrátilová. «Non puoi venire a Cancún nella stagione delle piogge e sperare che non piova» la considerazione di Navrátilová, intervistata di fronte al pubblico del Paradisus, è lapalissiana. Eppure non sembra essere venuta in mente a nessuno nei vertici della Wta. «Alla fine Steve Simon è stato il capo per nove anni ed eccoci qui. Forse è il momento per una nuova leadership, visto che questa è un’associazione femminile… penso sia ora, e si spera che quando avremo una nuova leader sarà una donna». Nei suoi cinquant’anni di storia, l’organizzazione più importante e rappresentativa dello sport femminile ha avuto solo tre amministratrici delegate. Chissà se le sessanta giocatrici che nel 1973 si riunirono in una stanza al Gloucester Hotel di Londra e diedero vita alla WTA avrebbero immaginato uno sviluppo del genere. Allora, le loro richieste erano tutt’altro che astratte o ideologiche: volevano essere pagate quanto gli uomini, a parità di risultati. Ad oggi, questo obiettivo si è raggiunto – solo dal 2007 – nei quattro Slam. Per la maggior parte degli altri tornei, alle tenniste si chiede di aspettare ancora dieci anni.

Le Finals rappresentano il culmine del tour, come si legge nel sito della WTA: «La celebrazione delle migliori giocatrici della stagione in singolare e doppio». Ci deve essere un qualche tipo di dissociazione nel giocare nel campo Centrale degli Us Open, davanti a quasi 24mila persone, ed essere spedite pochi mesi dopo in uno stadio temporaneo che ne può ospitare al massimo quattromila, per una competizione teoricamente più importante. Nel camminare in mezzo a dei teloni, in quello che a tutti gli effetti sembra un cantiere aperto, dopo averlo fatto nei corridoi dell’All England Club a Wimbledon.

Nel grande universo dello sport femminile, le tenniste sono le più privilegiate in assoluto, per visibilità e premi dei tornei. Nelle classifiche delle atlete più pagate sul pianeta, anche al netto delle sponsorizzazioni, le giocatrici di tennis occupano la maggior parte dei posti più alti. La loro condizione, però, non è frutto della sorte, ma di decenni di associazionismo che si poneva l’uguaglianza economica come traguardo.

Il disastro di Cancún però ha rovinato il cammino iniziato decenni fa, in parte ancora illusorio rispetto ai traguardi che si era posto. Se pubblicamente le professioniste vengono definite «alla pari nel processo decisionale», si scopre che dietro le quinte vengono trattate in modo paternalistico, fino ad essere imboccate con risposte pronte a possibili domande scomode. La retorica sul solido futuro del tennis femminile, che la WTA dice ossessivamente di voler costruire, è crollata, spazzata via dai prevedibili uragani messicani di questa settimana.

Il tennis femminile non va «costruito» – già esiste! – ma valorizzato. Chi dovrebbe farlo, ha invece gestito nel peggior modo possibile il torneo più importante dell’anno dove le donne non devono condividere lo spazio con nessuno. Lo stadio vuoto, il campo inagibile e inadeguato, le partite spezzettate e condizionate fin dal lancio di palla dal vento non fanno altro che confermare i preconcetti di chi crede che sia giusto che le donne guadagnino meno degli uomini e nello sport trova la sua massima soddisfazione. Le Finals quest’anno non sono state una celebrazione, ma un sabotaggio.

Uno, due, tre, quattro. Zvonareva, vincitrice insieme a Siegemund del titolo in doppio, in questa settimana deve averli contati i presenti, aiutata dai grandi numeri bianchi sui seggiolini neri. Durante la cerimonia di premiazione, ha iniziato il suo discorso ringraziando il pubblico, «lo stadio oggi era quasi pieno». Prima di passare la parola alla compagna, la russa ha rivolto un messaggio alle colleghe: «Non è stato facile per nessuna, voglio ringraziare tutte le giocatrici qui per la loro pazienza. Abbiamo fatto del nostro meglio ogni singolo giorno, nel vento e nella pioggia. Abbiamo fatto del nostro meglio per mostrarvi il miglior tennis possibile».

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