Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Come fare un disastro all'Europeo
24 giu 2024
24 giu 2024
Nel 2004 la Nazionale di Trapattoni uscì dal torneo alla fine di un girone surreale.
(copertina)
IMAGO / Ulmer
(copertina) IMAGO / Ulmer
Dark mode
(ON)

Dietro ogni grande torneo c’è tutto un mondo che gira. È il mondo delle partite viste in compagnia degli amici, un mondo che cambia, si trasforma con il trascorrere dei cicli della vita. Per gli adolescenti è l’occasione di ritrovarsi in dieci-quindici in case gentilmente concesse dai genitori, corpi accalcati e accaldati, più o meno interessati a quello che scorre sullo schermo; per quella fascia che va dai 20 ai 30 anni è semplicemente un’occasione in più per vedersi davanti a una birra; per chi invece ha messo su famiglia può diventare il pretesto per far giocare i figli in un’altra stanza e godersi una parvenza di ritrovato respiro. Ma è anche una cerimonia di passaggio, i bambini che scoprono l’attesa della grande partita, che si mescolano agli adulti sui divani e sulle sedie, e scoprono la gioia e l’amarezza. È un’implacabile routine i cui contorni si modificano con le abitudini che cambiano: c’è chi racconta delle partite viste con le prime tv a colori, chi ricorda visioni collettive nei cortili dei palazzi, chi oggi si accapiglia alla ricerca della visione con il telecronista prediletto, lusso impensabile fino agli anni Ottanta. E c’è sempre, di sottofondo, uno scontro tra filosofie: gli eterni ottimisti, convinti che l’Italia possa e debba dominare qualsiasi avversario, e i pessimismi cosmici, sicuri che tutto finirà per risolversi con una catastrofe. Questa è la storia di una catastrofe.

Verso il Portogallo

Da che l’Italia è l’Italia, il commissario tecnico non viene mai applaudito per le sue convocazioni. La sollevazione popolare che travolge Giovanni Trapattoni nel maggio del 2004 riguarda soprattutto un nome e un cognome: Alberto Gilardino. Si è preso il Parma sulle spalle nel momento in cui Adriano ha fatto le valigie a metà stagione, direzione Inter, e ha chiuso il campionato con 23 gol. Ha la faccia pulita da bambino appena cresciuto, il capello lungo quanto basta che gli si appoggia sul collo, la riga in mezzo, un’estetica che trasuda primi Duemila da ogni poro della pelle. Sa trovare gol in ogni tasca della partita, roba da rabdomanti. Eppure, in Nazionale, non ci va.

Non vuole guai, il Trap, ed è una scelta che in passato ha accomunato tanti commissari tecnici, da Bearzot, che nel 1982 lasciò a casa Pruzzo per portare Selvaggi, decisamente meno ingombrante alle spalle di Paolo Rossi, ad Arrigo Sacchi, che aveva scelto di rinunciare a Gianluca Vialli più nel 1996 che nel 1994. Ma nella conferenza stampa con cui vuole spiegare questa scelta, il Trap si incarta: «Avevo detto: ciò che il campionato mi proporrà, lo terrò presente. Di qui sono partito per costruire questa Nazionale». Apriti cielo. Le domande su Gilardino lo trafiggono immediatamente in una sala stampa dell’Olimpico rovente. «Se lo avessi chiamato e lo avessi fatto giocare dal primo minuto, mi avreste detto: rob de matt. I giovani sono soggetti alle onde. Giochi nell’Under, sereno. Lo avessi chiamato, non lo avrei schierato da titolare e lo avrei tolto pure a Gentile».

Il Selvaggi di Trapattoni si chiama Bernardo Corradi, faticatore dell’attacco laziale reduce da due stagioni più che buone, ma con numeri lontanissimi da quelli di Gilardino. Il Re Sole dell’attacco azzurro è Christian Vieri, reduce da una stagione fisicamente tormentata (come spesso gli accadeva, del resto). Ma tritolone, come lo chiama in quegli anni Roberto Scarpini di Inter Channel, non si discute: numero 9 sulle spalle e via andare. Sono anni di sovrabbondanza, Del Piero si deve mettere la 7 perché lascia la 10 a Francesco Totti, a rimorchio il Trap chiama anche Marco Di Vaio e un altro classe 1982, come Gilardino. Ma Antonio Cassano non è un giovane da lasciare a Gentile, anche perché i due non si sopportano e a distanza di vent’anni continuano a vomitarsi addosso una quantità di rancore che risulta persino disturbante. «Cassano è il vice Del Piero ma anche il vice Totti, e può fare anche la punta. Anche se ho un’idea diversa da Capello: per me quei due sono pericolosi se partono da dietro, senza stare in area con un uomo addosso. Totti è maturato in tutto. È più carismatico, più sereno, più consapevole. Il carattere di Cassano? Nella vita si cresce e si cambia, lui è cresciuto».

Intanto Trap dà i compiti a casa alle riserve: chiede a Pelizzoli, Legrottaglie, Adani, Bettarini, Nervo, Ambrosini, Barone, Volpi, Miccoli e Di Natale di tenersi pronti, che non si sa mai. Paolo Maldini, invece, rifiuta cortesemente la convocazione: ha lasciato l’azzurro dopo la sconfitta con la Corea del Sud nel 2002 e non ne vuole più sapere. Chi non rifiuta, ma viene lasciato a casa, è Pippo Inzaghi, che si era operato pur di tornare in tempo per gli Europei: «Mi ha chiamato il giorno in cui ha deciso le convocazioni, io gli avevo chiesto solo una visita. Mi ha risposto che i medici gli avevano detto di non ritenermi a posto, ma non ha sentito né i medici dell’Isokinetic, né quelli del Milan. Non vedo perché non ha mantenuto la sua promessa». Inzaghi è furioso, nei giorni a seguire ricorderà spesso che l’Italia è all’Europeo grazie a lui: le qualificazioni non si erano messe benissimo e "SuperPippo" aveva segnato una tripletta al Galles a San Siro e segnato un gol pesantissimo a Belgrado contro la Serbia e Montenegro. Ma abbiamo Buffon in porta, Nesta e Cannavaro in mezzo, Zambrotta sulla fascia, una quantità di talento in attacco per la quale adesso ci troncheremmo tutte le dita dei piedi.

Soprattutto, dobbiamo lavare via l’oltraggio della Coppa del Mondo del 2002 in Giappone e Corea, l’eliminazione marchiata dall’arbitraggio di Byron Moreno. Se non fosse stata una caduta così grossolana, probabilmente, Trapattoni sarebbe stato silurato già alla fine di quel Mondiale, finito in largo anticipo rispetto alla tabella di marcia, ma quel pastrocchio arbitrale lo ha salvato. Trapattoni che si dispera guardando dietro la panchina, Trapattoni con l’acqua santa, Trapattoni lontanissimo dalla sua epoca splendente eppure ancora circondato da una misteriosa allure, da una sacralità più legata al suo passato che al suo presente. Inizia a preparare materialmente l’Europeo mentre sta per andare in scena la finale di Champions con meno peso mediatico del nuovo millennio, quella tra Monaco e Porto, da una parte Didier Deschamps, dall’altra José Mourinho.

Trapattoni sembra il padre di entrambi. I giornali lo descrivono come un uomo riluttante al cambiamento – proprio lui che è stato il pioniere per tanti allenatori italiani che hanno trovato fortuna all’estero e che da lì in avanti non allenerà mai più in Serie A ma si dividerà tra Portogallo, Germania, Austria e Irlanda – e incapace di schiodarsi da un malinteso senso di riconoscenza, come nel caso di Del Piero, portato nonostante un’annata con svariati problemi fisici. Arriva, immancabile, l’elenco delle regole da rispettare in ritiro: alberghi separati per familiari e procuratori dei calciatori, cellulari spenti a tavola e durante le riunioni tecniche, al massimo un’ora e mezzo di ricongiungimento familiare dopo cena tranne che alla vigilia delle partite, puntualità massima, tetto da rispettare per il rimborso delle spese telefoniche a carico della FIGC. Non c’è Rocco Hunt negli spogliatoi, in compenso i 23 azzurri registrano una versione di Azzurro sotto gli occhi di Gianni Morandi. Se non si parla di cringe, è solo perché il termine non è ancora in voga.

Totti e Corradi con le convulsioni al momento dell’attacco del pezzo da parte di Gattuso.

Con i piedi in un tostapane

Il Trap ha in testa un’Italia col 4-2-3-1: Camoranesi, Del Piero e Totti alle spalle di Vieri. È l’assetto che va in campo a 15 giorni dall’Europeo, in una sgangherata amichevole a Tunisi contro le riserve della Tunisia, vinta 4-0 in cui segnano Cannavaro, Zambrotta e il neoentrato Pirlo, al quale non basta essere un perno del centrocampo del Milan di Ancelotti per rubare il posto a Perrotta e Cristiano Zanetti. Subito dopo, gli azzurri approdano al Carlton Pestana Palace di Lisbona, quartiere di Santo Amaro, posizione panoramica sul Tago. Ma Trapattoni non sembra soddisfatto e fa portare dall’Italia cinque tavoli per giocare a carte. «Il Trap cala le sue armi segrete: grana, pelati e tavoli per la briscola», titola il Corriere della Sera. Nelle conferenze stampa ricicla barzellette di vent’anni prima mentre Gilardino sconquassa l’Europeo Under 21.

Dall’aeroporto di Lisbona, quando spunta la sagoma di Francesco Totti, ai giornalisti sembra di sognare: sulla nuca spuntano alcune treccine unite da un filo azzurro. Il numero 10 arriva a quel torneo con un carico di aspettative gigantesco: se non è il miglior giocatore del mondo in quel momento, ci va vicino. Capello ha iniziato ad avvicinarlo alla porta e ha risposto con una stagione da 20 gol in coppia con Cassano. Vederli in campo così associati è qualcosa che si avvicina all’esperienza religiosa sventolata da David Foster Wallace per Federer, sono due corpi distinti eppure uniti, collegati da un pallone che gli avversari non riescono mai a recuperare e da un filo impercettibile, impossibile da troncare. Li vedi che si passano il pallone a velocità supersonica e sembrano andare in mezzo agli avversari indossando dei pattini. Giocano un calcio che soltanto loro vedono. «Totti è unico, decisivo come lui ricordo solo Platini. L’Italia campione nel 1982 non aveva un giocatore come Totti. Ora come ora lo paragonerei soltanto a Zidane. La disciplina tattica la esigo dal resto della squadra, non da lui: sarebbe come legare le mani a Picasso. Le treccine? A stare con i giovani si diventa giovani: ho pochi capelli, altrimenti le farei pure io», dice il commissario tecnico.

Trapattoni ha mille paure, comprese quelle dei dualismi: riduce al minimo le partite in stile «Italia A-Italia B» per paura che possa scapparci un infortunio. Intanto, sotto la cenere, cova la rivolta. Gattuso e Pirlo escono allo scoperto. Così Ringhio: «Il CT non può bocciare il modulo Milan e lasciarmi fuori. Cosa hanno più di me Perrotta e Zanetti?». Vagamente più diplomatico Pirlo: «A me non basta essere tra i 23, voglio mettere in difficoltà il CT. Se serve, posso tornare a fare il trequartista». Il clima è aspro, Trapattoni fa il pompiere: «Mi disturba quando si dice che ho le idee confuse, l’ho già detto in Giappone e lo ripeto qui: non sono rincoglionito. È umano che uno esprima la propria ambizione nella speranza di giocare, l’importante è che tra di loro ci sia rispetto». Già che c’è, ci si mette pure Del Piero, ormai all’ombra di Totti: «Francesco è Francesco, io sono Del Piero. Se chiedete a me, non dirò mai che sono meno bravo di lui. Per orgoglio. Questa situazione è una novità, non l’ho vissuta nemmeno quando alla Juve c’era Zidane».

Ci spostiamo a Guimaraes per il debutto europeo, nel nostro girone ci sono Danimarca, Svezia e Bulgaria, da affrontare in quest’ordine. Ci sembra un sorteggio dolcissimo. I danesi alla vigilia pensano solo a un modo per fermare Totti: non c’è Gravesen, l’uomo che sembrava fatto dal sarto per attaccarsi alle caviglie del nostro numero 10. «Non ho mai detto che Totti è un simulatore e non voglio mandare messaggi all’arbitro, dico solo che è un giocatore furbo ed esperto: non gioca solo a calcio, ma anche con la psicologia, e lo fa in maniera fantastica, cercando di far saltare la concentrazione all’avversario», dice Thomas Helveg, uno che l’Italia la conosce bene ma dimostra di non conoscere così bene Totti, che vivrà Italia-Danimarca come il proprio personalissimo viaggio negli inferi della sua psiche.

È l’estate delle Total 90, il modello di scarpini appena lanciato dalla Nike che veste il capitano giallorosso dalla testa ai piedi, al netto della divisa azzurra sulla quale non ha cittadinanza: a Roma capita non di rado di vedere ragazzi in giro con la riedizione da calcetto anche se stanno semplicemente preparandosi allo struscio in via del Corso, in una psicosi collettiva che attenta al buon gusto. E proprio le scarpe finiscono al centro del dibattito nazionale dopo una partita che l’Italia gioca in maniera straziante, uno 0-0 senza nemmeno la parvenza lontana di un’idea di gioco. I 33 gradi di Guimaraes non aiutano e Totti arranca, francobollato da Christian Poulsen, mediano ruvido, provocatorio, vecchio stampo. Totalmente fuori dalla partita a livello nervoso, rischia l’espulsione per un’entrata di rara violenza su Henriksen che in epoca VAR lo avrebbe spedito sotto la doccia con fischi e reprimende. Non si sa come, ma ne esce solo con un cartellino giallo.

A fine partita, Totti è quasi spaesato: «Ho i piedi che bollono, manco li avessi immersi nella sabbia rovente. Il modello è lo stesso che ho usato per tutto il campionato, dopo pochi minuti mi sembrava di avere i piedi in un tostapane. Anche altri compagni hanno lo stesso problema, per me è stato un calvario. Forse dipende pure dai calzini. Figo non ha avuto problemi? Magari lo chiamo…». Si imbarca in una mezza giornata libera con Ilary Blasi, ovviamente al seguito del ritiro azzurro, mentre tutti sparano su Trapattoni: «Non ci abbiamo capito nulla nel primo tempo», dice il CT, che prova a difendere Del Piero, l’altro grande accusato di giornata, e ammette che forse cambierà qualcosa per il secondo match, quello con la Svezia, vincitrice per 5-0 al debutto con la Bulgaria. «E a Totti non possiamo chiedere miracoli, è stato toccato duro dal suo marcatore fisso», aggiunge. Dal Portogallo, impegnato in un diario pubblicato sul Corriere della Sera, a dare addosso a Trapattoni arriva pure un suo ex giocatore, Manuel Rui Costa: "Ho visto che Trapattoni non ha utilizzato Pirlo contro la Danimarca. Pirlo, il mio Andreino, è un campione unico. Gli devono trovare spazio".

No, non è un cortocircuito. Nelle 24 ore successive a Italia-Danimarca 0-0, nessuno immagina che Totti abbia sputato in faccia a Poulsen. La televisione non ha trasmesso live lo sputo e nel discorso nazionale tutti sono concentrati sulla prestazione degli azzurri, non sull’episodio che invece rimarrà indelebilmente legato a quella partita. Le immagini le ha invece la televisione danese, che le tira fuori con gran gusto qualche ora dopo il match. "Il lama italiano", scrivono in Danimarca, paragonandolo a Rijkaard per il celebre sputo sul collo a Rudi Völler a Italia 90. Pare che il primo ad avvisare Totti sia Gigi Riva, capodelegazione azzurro: «Francesco, i danesi dicono che hai sputato a qualcuno…». Si cela dietro il più classico dei «non so, non ricordo», poi, sotto il pressing della Federazione, cerca di aggiustare il tiro: «No, volontariamente non ho sputato a nessuno». La sequenza fa il giro del mondo: terzo minuto della ripresa, gomitatina di Poulsen alle spalle di Totti che si gira, carica lo scaracchio, lo fa partire e scappa via. La Federcalcio danese gira il filmato alla UEFA sostenendo di avere anche ulteriori reperti video di altri sputi. L’opinione pubblica nazionale, politica inclusa, si spacca in due. C’è il partito «basta moralismi», capitanato dal romanista di ferro Paolo Cento («Chieda scusa, ma basta con questo bon ton ipocrita: e non mi risulta ci sia stata reazione da parte del danese, bisogna capire cosa è successo») e dall’interista Ignazio La Russa («Si è trattato di uno scambio di liquidi. È ammesso tutto, tranne l’insulto alla mamma»), e quello che comprende da subito che l’avventura di Totti in Portogallo rischia di essere già finita: «Quando non riesce a imporsi, torna il ragazzotto prepotente dei primi anni: la butta in rissa. Talento e istinto non bastano, se non si impara a dominare le proprie emozioni, a rispettare le norme e gli avversari, a uscire dal ventre romano, a staccarsi dagli amici che ti convincono a interrompere il derby», scrive Giorgio Tosatti, infilando nel calderone praticamente tutto.

In quelle ore, Totti non parla. L’arbitro Mejuto Gonzalez viene convocato dalla UEFA e dice di non aver visto lo sputo, né di aver ricevuto segnalazioni da parte dei danesi. E ammette l’errore sull’entrata Totti-Henriksen: «Non era sembrata violenta dal campo, invece lo era». Sulla Gazzetta intanto compare un brevissimo corsivo di Oriana Fallaci: "Caro Totti, capisco le necessità professionali, ma io non avrei chiesto scusa a nessuno. Erano tre ore che quel danese la prendeva a gomitate, pedate, stincate. Pur non essendo una tifosa di calcio, guardavo e ho visto tutto. Con sdegno. Unico dissenso: io avrei tirato un cazzotto nei denti e una ginocchiata non le dico dove. Stia bene, dunque, non si rimproveri e abbia le più vive congratulazioni di Oriana Fallaci".

In soccorso di Totti arriva anche una lettera firmata su carta intestata del comune di Roma da Walter Veltroni, il sindaco, diretta alla commissione UEFA: «Ha sbagliato e deve pagare, ma non bisogna metterlo alla gogna. Non lo riconosco nel gesto disgustoso e antisportivo che abbiamo visto in televisione. Il Totti che conosco e stimo è un ragazzo gentile, con una grandissima sensibilità. È quello che ho visto al mio fianco tante volte, quando c’era da portare solidarietà concreta, conforto, appoggio ai bambini che soffrono, alle persone che più sono in difficoltà. È una persona con un grande cuore e non vorrei che tutto questo fosse cancellato». Ed è su questa linea difensiva che Totti lavora con l’avvocato Giulia Bongiorno, assurta a fama nazionale in quegli anni per essere parte del collegio difensivo di Giulio Andreotti nel processo per mafia ai danni dell’ex premier. Pur di volare in Portogallo per difendere Totti, rinvia la visita a un suo altro assistito, Sergio Cragnotti, l’ex patron della Lazio appena scarcerato dopo cinque mesi.

Secondo Bongiorno, i video che accusano Totti non sono altro che una trappola: «Sono stati realizzati con una telecamera personalizzata che ha ripreso per 90 minuti soltanto Totti. Il danese non si è toccato il viso dopo lo sputo, né si è vendicato: è la dimostrazione che l’azione non raggiunge l’obiettivo». Totti si presenta contrito davanti alla commissione UEFA: «È la prima volta che un accusato ammette così francamente il suo errore», dice il presidente del tribunale sportivo. L’accusa chiede quattro giornate, alla fine sono tre. È una squalifica pesante, ma lascia a Totti uno spiraglio per rientrare in corsa durante il torneo se l’Italia dovesse andare avanti. I compagni di squadra sono tutti con lui, Riva ricorda che ai suoi tempi conti del genere venivano regolati negli spogliatoi e che non c’erano le telecamere. Dicono che vinceranno per Francesco contro la Svezia.

Da Ibra al biscotto

Trapattoni cerca di procedere come se nulla fosse, porta avanti il suo solito rito di tenere a rapporto i giocatori singolarmente, nel tentativo di carpire qualcosa di invisibile agli occhi degli altri esseri umani. «Non vedo perché dovremmo essere depressi: se avessimo perso come hanno fatto gli inglesi con la Francia dove saremmo, nelle catacombe?», dice polemicamente in conferenza stampa riferendosi alla doppietta con cui Zinedine Zidane ha ribaltato l’Inghilterra in pieno recupero. Fissa l’orizzonte ben oltre i gironi, è convinto di ritrovare Totti a Europeo in corso e anche per questo, di comune accordo con Carraro, decide di non rimandarlo a casa. Guarda il bicchiere mezzo pieno anche se dall’altra parte c’è da vedersela con Ibrahimovic, Larsson e Ljungberg. L’uomo che soltanto due anni prima aveva gettato un Paese nello sconforto e nell’ansia per lo spauracchio Ulises De La Cruz, ora fa dell’ottimismo il suo esercizio prediletto.

Il sostituto naturale di Totti è Antonio Cassano, e non potrebbe essere altrimenti. Ha 22 anni, sembra ancora una mina pronta a esplodere senza preavviso, ma è in una fase in cui oltre all’arroganza tecnica può regalare un’elettricità fisica che non siamo abituati a ricordare. È in tutto e per tutto il prime fisico di Cassano, che protegge i palloni con delle cosce di granito ma ha anche uno spunto sul lungo che non può essere sottovalutato. Trapattoni lo vuole mettere nelle condizioni di far male alla Svezia e ritratta parzialmente il suo credo pre-Europei: c’è anche Pirlo in campo, a fare il regista, protetto da Gattuso e Perrotta. Davanti, Del Piero con Cassano e Vieri. Le fasce vengono riservate alle discese di Panucci e Zambrotta.

È una grande Italia, quella che va in campo con la Svezia. Vieri e Del Piero sprecano in avvio, le parate di Isaksson tengono in piedi gli scandinavi. Il vantaggio arriva con un colpo di testa di Cassano su cross di Panucci: Antonio quasi si siede a centro area per spizzare il pallone, mette a terra il ginocchio sinistro e rotea il corpo quanto basta per indirizzare la sfera. È una specialità della casa, una sorta di skill aggiuntiva in un videogioco: in maniera praticamente identica, qualche mese più tardi, segnerà il gol del momentaneo pareggio in un derby contro la Lazio.

L’Italia sembra in grado di tracimare, sfiora a più riprese il raddoppio e non ha paura di sbilanciarsi, rischiando grosso su un diagonale di Jonson respinto in maniera ineccepibile da Buffon. Poi, di colpo, Trapattoni si fa divorare dall’ansia. Toglie un Cassano indemoniato per mettere Fiore, richiama Gattuso per Favalli alzando Zambrotta in una sorta di 4-4-2, quindi sostituisce pure Del Piero per mettere Camoranesi, ormai totalmente in preda a un panico fino a quel momento totalmente ingiustificato. Il destino punisce tutto questo terrore immotivato. Lo fa servendosi di una giocata divina di Zlatan Ibrahimovic, che risolve cinque secondi di confusione calcistica sugli sviluppi di un corner andando a prendere il pallone con il tacco ad altezze dove è oltraggioso avvicinarsi con una parte del corpo diversa dalla testa. È un prodigio che ci dice molto delle sue qualità elastiche ma anche del genio del fuoriclasse, capace di mantenere la lucidità anche in un contesto in cui nulla sembra correre lungo i binari della logica. Ibra, con la sua mossa da arti marziali, restituisce un senso a una palla matta che rimbalza nel cuore dell’area piccola, spedendola sotto l’incrocio dei pali. Vieri, appostato vicino al legno, prova un salto che lo fa sembrare improvvisamente vecchio. E fa strano pensare che dopo questa partita si parlò soprattutto di questo.

L’Europeo azzurro finisce virtualmente al Do Dragão, anche se numeri alla mano la qualificazione sarebbe ancora possibile. Subito dopo la partita, infatti, inizia a circolare la tabella che vede Svezia e Danimarca pronte al biscottificio all’ultima giornata. «Non posso fare altro che sperare nella lealtà di Svezia e Danimarca, sono sicuro che non faranno calcoli», dice Franco Carraro, presidente della FIGC. Trapattoni è costernato: «Purtroppo non dipende più soltanto da noi». La Danimarca ha battuto la Bulgaria. Per un discorso relativo alla differenza reti negli scontri diretti, la certezza è che Svezia-Danimarca, finendo 2-2, eliminerebbe l’Italia anche in caso di vittoria azzurra contro la Bulgaria, non importa quanto larga.

Ma il ritiro azzurro viene travolto da un’altra bomba. Le voci di un presunto bisticcio tra Vieri e Buffon innescato dal gol di Ibrahimovic non risultano particolarmente gradite al nostro numero 9, che si presenta sotto al tendone allestito a Casa Azzurri per consegnare alla stampa una conferenza rimasta nella storia. Si presenta con la stampa della pagina di un giornale riprodotta su un foglio A4, il titolo "Azzurri, alta tensione", la sua faccia e quella di Buffon in bella mostra. «Ci massacrate dalla mattina alla sera, inventate storie come queste. Come calciatore mi potete dire tutto, fa parte del gioco, ma come uomo nessuno si deve permettere di dirmi niente: sono più uomo io, che tutti voi messi insieme. Io posso andare in giro a testa alta. Io la mattina mi posso guardare allo specchio, voi no». Aldo Cazzullo gli risponderà a cose fatte, a eliminazione già in cassaforte: «Vieri più di tutti quanti noi, semmai, ha lo stipendio». Ma Buffon si accoda al Bobo-pensiero: «State facendo di tutto per ostacolarci e metterci nelle condizioni di non vincere».

Vieri, peraltro, non è al meglio, e Trapattoni deve decidere se schierarlo comunque o se andare con quella che sarebbe una sorta di Italia sperimentale, con Cassano, Del Piero e Corradi davanti. Un contrasto Nesta-Cassano nell’ultima partitella pre-Bulgaria lascia tutti con il fiato sospeso, ma alla fine Antonio c’è e un Paese intero è aggrappato al suo talento. Sono tutti convinti che alla fine Vieri ci sarà, ma Trapattoni preferisce partire con Corradi dal primo minuto per calare la carta Bobo eventualmente a gara in corso: «Bobo ha un ginocchio farcito», dirà poi il CT.

Italia-Bulgaria è un capolavoro del surreale, perché intanto Danimarca e Svezia stanno davvero confezionando quel biscotto perfetto ventilato per giorni come uno spauracchio dalla stampa italiana. Apre Tomasson, risponde Larsson, quindi segna ancora Tomasson. Poi, puntuale, all’89’, il gol della Svezia per il 2-2 che porta avanti le due scandinave, firmato da Jonson. In campo l’Italia si sta sbattendo per ribaltare il vantaggio di Petrov su calcio di rigore, Perrotta ha pareggiato subito, al 94’ Cassano segna un gol meraviglioso ed è convinto che sia quello che ci spedisce ai quarti di finale. Corre verso la panchina con il sorriso di un bambino, quando è dalle parti di Toldo e Peruzzi riceve la ferale notizia e il suo sguardo si incupisce.

Probabilmente è solo suggestione, ma rivista vent’anni dopo, è una scena che fa pensare che dentro Cassano qualcosa si sia rotto in maniera definitiva in quel momento, togliendoci la possibilità di vederlo sempre nella sua versione migliore negli anni a venire: chissà come sarebbe andata, con l’Italia ai quarti di finale e un Cassano pienamente padrone di quella squadra. Magari c’è un universo parallelo in cui è andata così e il talento di Bari vecchia è rimasto ai massimi livelli per quindici anni, mantenendo quella promessa di bellezza che ci aveva mostrato fin dal primo gol in A contro l’Inter. A fine partita piange come un vitello mentre le facce di Zambrotta e Vieri sono quelle di chi sta per essere travolto da un camion di letame.

«Noi abbiamo perso sul campo, altri come uomini», dice Panucci, uno dei migliori della spedizione azzurra. Pirlo: «Hanno organizzato quello che per giorni avevano negato, arrabbiandosi perché qualcuno aveva insinuato che potesse finire così». Materazzi: «Quello che è successo è scientifico. Noi usciamo a testa alta, cinque punti in classifica non sono pochi, non sarebbero stati pochi se fosse stato un girone più pulito. E pulito non lo è stato, visto quello che è successo. Anche se avessimo vinto 4-0 non sarebbe servito a nulla». Non è la differenza reti complessiva a decidere, infatti, bensì il computo dei gol tra le tre squadre a pari punti: una volta realizzato che Italia, Danimarca e Svezia sono appaiate per punti e differenza reti, a contare sono i gol realizzati in quelle partite, ed è il motivo per cui il 2-2 è il delitto perfetto.

Trapattoni si congeda dal ruolo di commissario tecnico della Nazionale con una conferenza stampa fiume a Lisbona, in cui dà il benvenuto al suo erede, Marcello Lippi, proprio come era accaduto alla Juventus a metà anni Novanta: «Se sarà lui il mio successore, gli dico che guidare una Nazionale è molto, molto, molto più difficile di un club. E non ho usato la parola molto per tre volte a caso. Rischi di farti venire la barba di Noé e ci vuole la pazienza di Giobbe. Sono sicuro che si qualificherà senza problemi per il Mondiale, i problemi semmai saranno là, a fine stagione e con partite ravvicinate». Il passaggio con cui torna sull’esclusione di Gilardino è ai limiti del delirante («La rosa è nata attraverso criteri di meritocrazia: Gilardino avrà tempo per dimostrare il suo valore, fino a gennaio non giocava e non mi sembrava giusto inserirlo a freddo»), quindi passa a parlare del girone: «Ci ha condizionato la prima partita con la Danimarca: troppo caldo, troppa tensione. Ho sbagliato qualcosa, ma il pareggio con la Svezia non è arrivato perché ho cercato di coprirmi, ma per una prodezza di Ibrahimovic: bravo, ma c’era un fallo su Nesta, finito a terra come una rana schiacciata. Su Danimarca-Svezia non ho motivo di dubitare, ma il 2-2 mi fa riflettere». E prepara il suo futuro: «Non credo che il mio calcio sia superato, il mio motto è “Non mollare mai”. Ringrazio chi crederà ancora in me». Non dovrà spostarsi più di tanto: nel giro di dieci giorni, sempre a Lisbona, verrà presentato come nuovo tecnico del Benfica, che riporterà alla vittoria del campionato portoghese undici anni dopo l’ultima volta.

Per l’Italia inizierà il biennio che porterà al trionfo mondiale. E se qualcuno, in uno di quei pomeriggi portoghesi, avesse pronosticato un successo in Germania senza dover passare dai piedi di Cassano, sarebbe stato preso per pazzo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura