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Diventare un alieno
20 feb 2015
Anthony Davis è "The Next Big Thing" del basket NBA. Ma che futuro lo aspetta a New Orleans?
(articolo)
15 min
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Anthony Davis nasce e cresce a South Chicago, a pochi isolati dal Murray Park, dove da ragazzino Derrick Rose passava le giornate a giocare con i tre fratelli più grandi. A differenza dell’ex MVP, Anthony cresce giocando nel giardino di casa dove il padre gli piazza un canestro, per paura di vedere il figlio influenzato da “cattive amicizie”. È un ragazzo tranquillo, magrolino, gioca con gli occhiali, tutte cose che vanno ad accentuargli un’apparenza quasi da nerd. Non è fatto per la strada, e non sembra nemmeno destinato alla NBA. È alto poco più di 180 centimetri e di esterni come lui è piena Chicago, figuriamoci la Lega. Poi la crescita improvvisa, 20 centimetri in un anno e mezzo, e cambia tutto. Ne parla in un pezzo apparso su ESPN: l’imbarazzo dei vestiti che la madre gli compra e che sono subito piccoli, il padre che deve prendere un letto extralarge per evitargli che i piedi ciondolino fuori dal materasso. Cambiano anche i modelli a cui ispirarsi: addio crossover di Allen Iverson, ora ci si ispira ad un altro prodotto di Chicago, Kevin Garnett.

Nel film Space Jam, alieni alti mezzo metro sfidati da Bugs Bunny ad una partita di basket toccano il pallone dentro al quale è racchiuso il talento di alcuni giocatori della NBA e, oltre al loro skill set, improvvisamente acquisiscono il fisico dei giocatori derubati. In un attimo le braccia e le gambe si allungano, e i piccoli mostriciattoli si ritrovano improvvisamente in grado di schiacciare. Sarà per le sembianze cartoonesche, con quegli occhi a palla, Il Monociglio™, i denti storti e le braccia infinite, ma Anthony Davis sembra poter essere uscito proprio da Space Jam. In poco tempo passa dall’essere la controfigura di Steve Urkel di Otto sotto un tetto a far dire al compagno di squadra in NBA Jrue Holiday: “Posso anche lanciare la palla in cima al tabellone, tanto lui va su a prenderla”.

Siamo sicuri che nella prossima foto a 23 anni non sarà ancora più grosso? (No, non lo siamo).

Ma la crescita fisica al liceo impallidisce se messa a confronto con la crescita come giocatore di basket nei due anni e mezzo di carriera in NBA. Essere scelto con la numero 1 al Draft porta con sé ovviamente le aspettative di dover un giorno giocare come i più forti, ma neanche il più ottimista tra gli analisti NBA avrebbe mai pensato che a 21 anni Anthony Davis potesse già essere considerato un candidato per il premio di MVP. Al terzo anno nella NBA, Davis è probabilmente tra i cinque migliori giocatori al mondo e di sicuro il primo che viene in mente pensando con chi iniziare una squadra da zero, con buona pace di Kevin Durant. Perché un lungo così forte così presto nello sviluppo della sua carriera non solo sposta gli equilibri, ma rischia di segnare un’epoca.

In una Lega dove i lunghi finiscono per specializzarsi (chi protegge il ferro, chi gioca dal gomito, chi gioca da fuori, chi si gioca tutto sui rimbalzi etc.) Davis sembra possedere le caratteristiche che riconducono a tutte queste tipologie. Dice alla ESPN un GM che “la sua forza è non avere debolezze”. Inoltre, se il margine di miglioramento può essere definito come “la capacità di dare continuità a tutte quelle cose che si mostra di poter fare”, allora i New Orleans Pelicans hanno trovato l’archetipo del giocatore con margine praticamente illimitato. Se al suo arrivo in NBA Davis era in grado di segnare con continuità solamente nel pitturato (64% di realizzazione, rispetto a cifre inferiori al 40% dal gomito e al 30% dall’angolo) adesso è tranquillamente tra i migliori della Lega per le percentuali dal gomito (52% a destra e 44% a sinistra). Se quindi al suo primo anno il marcatore poteva chiudergli la penetrazione lasciandogli il jumper, adesso il pick and pop con cui riceve palla dopo aver effettuato il blocco ed essersi girato è per lui un’arma fondamentale ed è eseguito con una fluidità ai livelli dei migliori della Lega.

Passare dal tirare col 33% dai cinque metri a farlo con il 48% in così breve tempo non è da tutti. Al suo esordio in NBA, nella sconfitta contro gli Spurs, Davis segnò 21 punti davanti a sua maestà Tim Duncan tentando anche un paio di jumper, e pur essendo ancora piuttosto insicuro, mostrava già la chiara predisposizione a volerselo prendere. Due anni e mezzo dopo mette uno di quei tiri ogni due tentativi. Eccolo il talento, eccoli i margini di miglioramento che si realizzano per davvero, e non rimangono solo “potenziali”. Un talento che nel basket non può prescindere dall’etica del lavoro. Il suo capo allenatore Monty Williams cerca di coltivarla portando esempi di grandi giocatori del passato che, come Davis, passavano le ore in palestra a riprovare le stesse azioni fino a poterle eseguire ad occhi chiusi: “Io gli parlo di Tim Duncan, Grant Hill, David Robinson e Patrick Ewing, i giocatori miei contemporanei che hanno fatto le cose come credo possa farle lui”. E allora 48 ore dopo aver vinto i Mondiali di Spagna con il Team USA, Anthony Davis è tornato ad allenarsi a New Orleans. Subito in palestra, perché tra semifinale e finale non era riuscito ad esprimersi come avrebbe voluto, come avrebbe preteso da se stesso. Ecco spiegato come si passa dal far intravedere un jumper contro gli Spurs nei 21 punti all’esordio in NBA a segnare la tripla della vittoria allo scadere contro i Thunder quest’anno. Hard work.

Ok forse ho esagerato nell’iperbole, ma rende l’idea no?

I miglioramenti col jumper sono l’emblema del lavoro di Davis e meritano di essere approfonditi. Ne parla a fondo Kirk Goldsberry su Grantland, dove riporta anche le parole stesse di Davis nel processo di cambiamento della meccanica di tiro sotto la guida di Kevin Hanson. “All’inizio in realtà non volevo farlo. Voglio dire, per 19 anni della mia vita ho tirato in un modo, quindi pensare di cambiarlo... non aveva molto senso ai miei occhi. Kevin Garnett, Tim Duncan e quei tipi di giocatori lì possono mettere il jumper. Io ero veramente scettico a riguardo, ma ho accettato di farlo perché se vuoi stare a lungo in questa Lega devi avere quel tiro”. C’è stato quindi prima un lavoro di convincimento del ragazzo sull’importanza nella NBA attuale di saper mettere con continuità il jumper dai cinque metri, visto che le difese tendono a lasciarlo pur di non permettere all’avversario di arrivare al ferro. Dopo averlo convinto dell’importanza del jumper, Hanson ha lavorato sulla tecnica e ne parla Davis stesso: “Quando tiri dal petto e davanti alla faccia perdi di vista il ferro. Praticamente ho spostato il tiro sopra l’orecchio destro, sopra la mia testa. Questa cosa mi aiuta a vedere il ferro più facilmente”. In due anni e mezzo Davis si è ricostruito una tecnica di tiro e adesso può essere considerato affidabile dai cinque metri quanto i migliori nel ruolo: LaMarcus Aldridge o Dirk Nowitzki. Il tutto, è bene ricordarlo, a soli 21 anni.

Più scuro è il blu delle celle, maggiore è la percentuale rispetto alla media della NBA. Sopra la scorsa stagione, sotto l’attuale. Come tipologia di tiro Davis prova il 55% delle volte da sotto, il 28% il tiro piazzato, il 12% l’arresto e tiro e il 3% una conclusione diversa. Comunque, caro Anthony, vedo ancora del celeste, vedi un po’ che puoi fare.

Ovviamente aver migliorato il jumper ha significato per Davis rendere difficilissima la vita per chi deve marcarlo, soprattutto visto che ormai non è più il lungo-magro-dalle-braccia-lunghe dei primi mesi in NBA. Oltre al lavoro in campo, quello in sala pesi ha aumentato la massa muscolare facendogli mettere su una decina di chili di armatura (anche grazie all’aiuto della pizza). Una cosa di cui va molto fiero. “Il mio primo anno non ero forte fisicamente. Pesavo forse 97 chili. Adesso sono a 108 chili e questo mi ha aiutato molto nel mio gioco, che sia tagliare fuori, difendere o attaccare il canestro; credo che la cosa più importante di questi due anni e mezzo sia stata proprio il mio aumento di peso”. Me lo immagino, al primo anno di liceo, guardarsi allo specchio dopo gli allenamenti, togliersi gli occhiali e sospirare guardandosi i muscoli delle braccia ancora asciutti. Adesso non ha solo l’altezza, ma anche i chili per poter andare a giocarsela contro chiunque sotto canestro. Questa cosa piace anche all’allenatore Williams, che con una combo si libera delle critiche rivolte alla sua gestione di Davis ad inizio carriera e sottolinea il lavoro del ragazzo sul proprio fisico: “Il mio primo anno con Anthony tutti pensavano fossi matto perché non lo facevo giocare in certe situazioni di gioco. Non sapevano che lui pesava 95 chili giocando contro avversari di 110 o 115 chili. Adesso tutti pensano che tutto questo sia avvenuto in una notte, ma noi sappiamo che non è così”.

“Non credo sia neanche vicino ad esprimere tutto il suo potenziale, anche solamente perché il suo corpo non è ancora maturato e la sua comprensione del gioco non può essere al massimo livello. La sua capacità di capire il gioco è avanti rispetto a molti coetanei, ma ancora non è come sarà in futuro”. Ancora l’allenatore Williams a parlare, questa volta sul ceiling dello sviluppo di Davis. Che comunque già adesso sposta e non poco gli equilibri in campo nelle due fasi. In attacco partecipa all’azione come bloccante del pick and roll (situazione dalla quale produce 1.22 punti su un totale di ben 262 possessi, nettamente 1° in NBA) potendo, una volta portato il blocco, contare sia sulla minaccia del jumper o ancora meglio tagliando direttamente a canestro, facendo valere l’esplosività e la velocità di lettura dell’azione. Il compagno di squadra Ryan Anderson, che ha il compito di “aprirgli il campo”, esalta proprio questo aspetto del suo gioco: “Le letture, le tempistiche, come muove il corpo sempre con uno scopo. Ecco cos’ha di veramente speciale”.

In difesa le statistiche sono altrettanto spaventose: Davis è destinato a stazionare a lungo nelle zone altissime delle classifiche di stoppate (quest’anno 1° nella Lega con 2.7) e palle rubate per un lungo (dov’è 4° 1.5). Se c’è una componente del gioco di Davis che ha guadagnato di più dalla “cura Space Jam” è proprio la capacità di andare a prendere il pallone all’avversario, che sia stoppando o intercettando, soprattutto nella fase “ascensionale” del tiro, come fa notare Tyson Chandler in questo pezzo su The Players’ Tribune. L’apertura di braccia di 2.20 m è alla base della difesa di Davis, che in caso di cambio di marcatura non si fa problemi ad andare sul piccolo aspettando che provi il tiro, per stopparlo inesorabilmente o alterare la sua parabola di tiro.

Non riesco però a pensare che Davis provi soddisfazione nello stoppare i giocatori, un po’ come fa Tim Duncan: è troppo concentrato a cercare di capire cosa fare dopo la stoppata, dove muoversi, quando andare in contropiede per trovare due punti facili e aiutare la squadra. Semplicemente stoppare è una cosa che gli viene naturale con quell’atletismo e quel fisico, talmente naturale che a volte l’istinto lo porta a fare il passo per la stoppata quando il cervello gli indica diversamente, mandandolo in una sorta di tilt mentale. In quelle situazioni, probabilmente per non lasciare troppo spazio alle spalle, Davis rimane nella terra di nessuno con gli occhi a palla fissi sul giocatore per un secondo, prima di decidere se seguire l’istinto o la testa. In questo escono fuori i 21 anni, come dice l’allenatore Williams: “È il ventunenne più completo che io abbia mai visto, ma ha comunque 21 anni”. Le indecisioni e gli errori di lettura però sono sempre meno, perché con quel fisico le correzioni hanno tempistiche diverse rispetto al giocatore medio. Ci sono ottime probabilità che tutto questo sarà solo un ricordo l’anno prossimo, o forse già nei prossimi mesi.

Quindi, il candidato AD è pregato di compiere il seguente esercizio: aiuto che copre due metri, correre a coprire il pitturato dalla penetrazione, riprendere il giocatore marcato inizialmente e stoppare due volte. Con il restante fiato correre per primo verso il canestro con la mano pronta a ricevere. Easy.

Ci sono ancora margini di miglioramento: in difesa uno contro uno può capitare che perda l’uomo, attirato dal pallone e dall’istinto alla stoppata o all’intercetto; sicuramente può migliorare ancora a rimbalzo, dove nonostante le cifre dicano più di 10 rimbalzi a partita, Davis ne cattura solo il 16.2% quando in campo, una cifra migliorabile se paragonata ai pari ruolo come Greg Monroe di Detroit (18.6%) o Tim Duncan (18.4%). Può migliorare anche nel coinvolgimento dei compagni, aspetto ancora poco sviluppato: solo l’8.5% dei canestri dei compagni vengono da un suo assist, una cifra bassa rispetto ai pari ruolo Duncan (con 17%) o Blake Griffin (con il 24%). Viste le capacità di lettura, sono sicuro che potrà fare meglio degli 1.7 assist a partita attuali. Ovviamente per migliorare questo aspetto il gioco attuale dei Pelicans non aiuta, dato che Davis partecipa sì a molte azioni, ma tocca il pallone meno di quanto potrebbe, viste le doti (solo 35.2 “tocchi” nella metà campo offensiva a partita, quasi 10 meno di Chris Bosh, per dirne uno) e quando lo fa è più che altro per concludere a canestro.

Anzi, con 17.2 tiri a partita Davis è anche meno distante di quanto possa sembrare come numero di tiri dal compagno Tyreke Evans con 15.3. Viste le percentuali di Davis di cui abbiamo parlato e quelle di Evans (43.6%) non è impensabile immaginare un futuro prossimo in cui Davis tenti 20 tiri, concludendo quindi ancora di più i palloni che tocca e andando a segnare più di 25 punti a partita. I soli due tiri in più rispetto a Evans non sono segno di timidezza, possono essere spiegati con la composizione degli attuali Pelicans e le tendenze dei suoi compagni. I Pelicans non fanno girare la palla esattamente come gli Atlanta Hawks e l’infortunio a Holiday ha consegnato il pallone alla coppia Evans-Gordon che, come prima cosa, guardano sempre e comunque il canestro. In una squadra dove chi porta palla ogni tanto decide che l’opzione migliore è palleggiare sul posto prima di chiamare un blocco per far partire il pick and roll, abbassare la testa ed entrare in area, i palloni che arrivano a Davis sono complicati da rigiocare. Hai voglia a far circolare il pallone se il “sistema offensivo” è di questo tipo.

Nonostante sia il quinto miglior marcatore della Lega con percentuali ottime ovunque, Davis tira “solo” 17 volte a partita, meno rispetto ad altre star NBA con percentuali inferiori.

La costruzione dei Pelicans dall’arrivo di Davis in poi pare che abbia un piano ben preciso, come spiega il GM Demps: “Abbiamo studiato quello che hanno fatto diverse squadre in passato. Tutti dicono ‘Dovete fare come ha fatto San Antonio’, ma non noi non avevamo un Hall of Famer ad aspettarlo come David Robinson per aiutarlo nel processo di crescita. Tutti dicono ‘Fate come ha fatto Oklahoma City’. Beh loro hanno chiamato al Draft due Hall of Famers di fila. È una cosa difficile da fare. Quello che volevamo fare era capire che tipo di giocatore sarebbe potuto diventare Anthony. Abbiamo preso buoni giocatori che possano giocare attorno a lui quando sarà pronto”.

Demps quindi ha deciso di circondare Davis di giocatori giovani ma con già qualche anno di esperienza in NBA. Come prima cosa ha rifirmato la guardia Eric Gordon, pareggiando l’offerta da 58 milioni di dollari in quattro anni fatta dai Phoenix Suns (non poteva fare altro, dato che Gordon era il principale asset arrivato dalla trade di Chris Paul). Poi ha preso l’ala Ryan Anderson (36 milioni in 4 anni), il centro Omer Asik (in cambio di una scelta), la point guard Jrue Holiday (in cambio di due scelte) e l’ala Evans (44 milioni in 4 anni). Tutte mosse che hanno creato un blocco di giocatori di poco sopra la media NBA, ma senza nessuna stella. Ovviamente prendere giocatori con contratti a medio termine cedendo scelte al Draft ha cristallizzato la situazione roster a New Orleans, a meno di improbabili rivoluzioni questo è il blocco che accompagnerà Davis nel prossimo futuro.

Il career high di Anthony Davis al momento dice 43 punti. C’è ancora molto tempo per migliorarlo.

I Pelicans in due stagioni sono passati da un record perdente di 27-55 al primo anno di Davis, all’attuale record vincente di 27-26, che - se si confermasse sopra il 50% - a fine stagione significherebbe tornare ad avere una stagione vincente dall’ultima di Chris Paul nel 2011. Alla pausa per l’All-Star Game, i Pelicans hanno vinto lo stesso numero di partite del primo anno di Davis in squadra. Eppure la sua esplosione così prematura sta creando il paradosso di ritrovarsi con una squadra pensata per accompagnarlo passo dopo passo nella crescita, ma che già ora è già stata lasciata indietro di parecchie piste dal suo giocatore principale. L’Anthony Davis attuale è già troppo più forte dei suoi compagni, che attorno a lui appaiono inadeguati a supportarlo degnamente.

Voglio dire: i Pelicans stanno lottando per l’ultima posizione disponibile per i playoff, ma è soprattutto grazie all’eccellenza individuale di Davis e non per una crescita di squadra. E con la ormai quasi completa rimonta degli Oklahoma City Thunder di Durant e Westbrook, le speranze di raggiungere l’ottavo posto sono molto poche. Il supporting cast non sembra avere margini di miglioramento, le scelte al Draft cedute per costruire la squadra e il poco spazio salariale a disposizione fanno dei Pelicans una squadra che rischia di non poter mai essere veramente in grado di arrivare a giocare per il titolo nel breve periodo, pur avendo uno dei primissimi giocatori della Lega. La cosa positiva, dal loro punto di vista, è che la carta d’identità di AD dice “1993” e i pochi incentivi per un giovane giocatore a non rifirmare con il massimo salariale dopo il primo contratto dovrebbero tenerlo a New Orleans almeno fino al 2021. Solo che la crescita di Davis non è una cosa normale e non può essere trattata come una cosa normale.

Il vero rischio per tutti è il riproporsi del caso Kevin Garnett di inizio secolo: uno dei migliori giocatori NBA, pagato come tale, con attorno una squadra non all’altezza della propria evoluzione. KG è rimasto distante dalla lotta per il titolo tutta la carriera in Minnesota (solo una finale di conference). Garnett ha poi abbandonato il Midwest per andare a lottare per il titolo con continuità a Boston. È forse ancora presto per farsi prendere dal panico a New Orleans, ma la crescita esponenziale di Davis richiede ambizioni altrettanto esponenziali da parte dei Pelicans. Per come sono costruiti, il rischio è di non riuscire mai a lottare per il titolo, a meno di sperare nel calo di altre squadre più in là con gli anni come San Antonio, Dallas e Memphis.

Siamo destinati quindi ad un Garnett 2.0? Per ora Anthony Davis ha stupito con un’evoluzione così rapida e incisiva del suo gioco, e sicuramente qualche soddisfazione in maglia Pelicans potrà togliersela. E se la lotta per il titolo sembra, ad oggi, preclusa, Davis scala le gerarchie tramite i riconoscimenti personali, proprio come fece il suo idolo del liceo in Minnesota. Già adesso Davis è tra i migliori giocatori della NBA. Ma la cosa che realmente spaventa gli avversari è che, con ancora margini di miglioramento a disposizione, manca ancora come minimo un lustro per poter avere Davis all’apice del proprio gioco. E a quel punto, quando si cercherà di pensare al giocatore ideale, non si potrà fare altro che pensare al Monociglio.

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