Il primo gol in carriera Divock Origi lo ha segnato su assist di Dimitri Payet. A venti minuti dalla fine di una partita che il Lille aveva bisogno di vincere, Rudi Garcia lo aveva spedito in area di rigore. La difesa del Troyes non si accorge di lui, mentre corre sul secondo palo sul cross di Payet e segna di testa schiacciando la palla. È l’ultimo Lille di Rudi Garcia, ancora ricco di giocatori di culto - Benoit Pedretti, Idrissa Gueye, Salomon Kalou - ma già senza ambizioni.
Origi è cresciuto nelle giovanili del Genk, uno dei migliori settori giovanili al mondo, prima di trasferirsi in quelle del Lille ad appena quindici anni. Un trasferimento che porta il club belga davanti al TAS, che costringe il Lille a versare un’indennità di formazione di trecento mila euro. A cinque minuti dal suo esordio, comunque, appena maggiorenne, Origi segna: come sempre aveva fatto durante gli anni giovanili, quando era troppo grosso e troppo veloce per gli avversari e il gol era diventata una conseguenza inevitabile di questa supremazia.
Nella sua seconda stagione, con René Girard in panchina, accumula una trentina di presenze, segna meno gol di quanto ci si potesse aspettare, appena 5, ma il suo gioco è più complesso di quello di un semplice finalizzatore. Crescere calcisticamente in Belgio dal 2000 in avanti vuol dire imparare a giocare nel 4-3-3: il modulo unico adottato a qualsiasi livello, imposto dalla federazione ai centri di formazione. Il Belgio in quegli anni è passato da un approccio difensivo e basato sulle marcature a uomo, a uno radicalmente diverso: sistema di marcature a zona, mentalità offensiva, 4-3-3. Dentro questo contesto, e grazie a una certa fortuna, è cresciuta la generazione d’oro del calcio belga arrivata ai Mondiali del 2014 come una delle nazionali favorite. Una squadra fatta di piccole ali tecniche e dribblomani in grado di esprimere tutte le gradazioni del talento: da Eden Hazard a Kevin Mirallas, passando per Mertens e Januzaj. Anche chi non giocava sull’esterno aveva un’inclinazione inevitabile al dribbling, a puntare il diretto avversario nell’uno contro uno. Uno dei tecnici della federazione, tra gli artefici della rivoluzione, ha descritto bene questa ossessione: «Sentivamo che c’era bisogno di sviluppare il dribbling, al centro della nostra visione c’era l’uno contro uno, il duello. Dicevamo ai ragazzi che iniziavano a giocare a calcio che dovevano innanzitutto imparare a dribblare, giocando liberi». Anche centrocampisti centrali come Nacer Chadli e Moussa Dembelé, o centravanti come Romelu Lukaku e Divock Origi, sono ossessionati dalle conduzioni palla, dalla minaccia dell’uno contro uno.
Ai Mondiali del 2014 Lukaku arriva come il centravanti titolare della Nazionale e uno dei migliori giovani al mondo. A 21 anni aveva segnato più gol di Messi alla stessa età: 65, 7 in più dell’argentino. Eppure durante il Mondiale non è sempre convincente e nei quarti di finale contro l’Argentina resta in panchina, mentre davanti gioca Origi, che ha due anni in meno ma che in quel momento, con meno minuti giocati, ha segnato i suoi stessi gol al Mondiale. Contro la Russia aveva segnato con un piatto destro sotto la traversa che lo aveva annunciato come il giovane più brillante di una squadra di giovani brillanti come il Belgio. Dopo quel gol, un delfino era stato chiamato col suo nome.
Dopo il Mondiale tutti cercano di comprare Divock Origi, anche se nessuno aveva capito davvero che giocatore fosse. Alto un metro e novanta, veloce e abbastanza tecnico, rispondeva all’ideale - più immaginato che reale - del “centravanti moderno”. Una specie di figura mitologica che racchiudeva qualità impossibili da tenere insieme: tecnica e potenza, velocità e colpo di testa. Origi, in realtà era un giocatore più peculiare di quanto sembrasse. Salomon Kalou, suo compagno al Lille, lo aveva paragonato a Kluivert - centravanti forte di testa, ma rapido e tecnico anche in conduzione. Il suo fisico era un equivoco in cui cadevano tutti. Per semplificare: Origi aveva idee da numero 7 in un corpo da numero 9. Come Lukaku, non contemplava il gioco spalle alla porta. Per evitarlo si defilava sull’esterno per ricevere a piede invertito e puntare l’uomo: quella era la sua idea di calcio. Non aveva il dribbling molecolare di Eden Hazard o Dries Mertens, quindi gli allenatori sognavano di sgrezzarlo, di togliergli di testa tutte quelle velleità per farlo diventare il centravanti pratico che prometteva di essere. In uno dei primi video YouTube che gli sono stati dedicati, Origi viene definito, col linguaggio rococò dei video YouTube, “Belgian Dribbler”. Nei rari gol che si vedono, segna sempre in transizione, quando gli spazi si aprono e può fare un taglio elementare dietro le lente difese francesi. Per il resto gli piace prendere palla sulla fascia, portarla con l’esterno, puntare il marcatore. Si vedono doppi passi, dribbling, elastici, finte di cross: il repertorio completo di una classica aletta belga di quegli anni. Col Lille gioca soprattutto esterno sinistro del 4-3-3.
Lo compra il Liverpool alla fine, battendo Tottenham e Arsenal con un’offerta da 10 milioni di sterline. Lo lascia in prestito al Lille per un altro anno, dove si guadagna la nomination nel peggiore undici dell’anno scelto da l’Equipe. Origi gioca malino, segna 8 gol, non segna tra ottobre e marzo. Quando avrebbe cominciato a segnare un po’ di più?
Il Liverpool lo compra proprio per quello: la squadra di Brendan Rodgers segna poco e sta cercando attaccanti che portino sostanzialmente gol. Forse è per quello che col tecnico inglese Origi non vede il campo. È Klopp che inizia a utilizzarlo di più. Origi segna una tripletta al Southampton che promette qualcosa: un tiro violentissimo sul primo palo, sotto l’incrocio (una delle sue conclusioni preferite), un colpo di testa sicuro, una finalizzazione fredda. Klopp dice che ci sarà da divertirsi con lui, una profezia che si rivelerà vera nel modo meno prevedibile. Origi non convince mai del tutto ma gioca con discreta continuità. Le cose peggiorano negli anni successivi e all’inizio della stagione 2017/18 chiede la cessione in prestito, per poter giocare con continuità e guadagnarsi una convocazione per il Mondiale. Quattro anni dopo il torneo brasiliano non ha fatto significativi passi in avanti. Va in prestito al Wolfsburg, dove comunque combina poco.
Origi entra in una nuova fase della sua carriera: smette di essere una giovane promessa, nessuno si aspetta più niente da lui, e lui stesso non sembra più aspettarsi niente dal calcio. Ha continuato per anni ad assomigliare a un prodotto grezzo, che prima o poi avrebbe trovato un filo logico dietro al proprio talento, ma alla fine è rimasto quello. Si siede tranquillamente sulla panchina del Liverpool, accettando di fare la comparsa di uno dei migliori club al mondo. Origi pian piano finisce alla periferia del calcio mondiale. Quando spunta il suo nome sembra già antico, appartenente a un calcio passato, al primo Mondiale della generazione d’oro belga, al mondiale brasiliano, la sua figura sembra già lievemente scollata rispetto al nostro tempo. Eppure Origi aveva appena 23 o 24 anni.
È in quel momento però che la sua carriera prende una piega paradossale. Klopp lo stima e ha fiducia in lui in un roster di attaccanti oltraggioso qualitativamente, ma striminzito sul piano quantitativo. Durante l'estate il Liverpool aveva accettato un'offerta da 22 milioni di sterline del Wolverhampton, ma Origi aveva rifiutato il trasferimento. E così, nella stagione 2018/19, quasi per caso, diventa uno dei primi sostituti offensivi della squadra finalista di Champions League. Il Liverpool gioca con un attacco leggero che sfrutta la velocità delle sue transizioni a tutte le altezze. Al centro gioca un regista offensivo dalla tecnica squisita come Roberto Firmino: quando il Liverpool ha bisogno di massa fisica in area di rigore, solidificando un po’ il vapore dei propri attacchi, allora inserisce Origi. Cominciano a piovere cross nel mezzo, e Origi - nato come esterno a piede invertito - comincia a segnare di testa, o comunque a creare ansia nelle difese avversarie. Quando nelle partite sprofondano nel caos, Divock Origi è uno di quelli in grado di trovare un gol come un pescatore di telline. In semifinale di Champions League, contro il Barcellona, il suo capolavoro. Firmino è indisponibile e Origi titolare: il Liverpool deve rimontare il 3-0 dell’andata e non c’è nemmeno Salah. Dopo 7 minuti Origi segna già uno di quei tap-in da mistica del centravanti, con la palla che sembra cadergli sul piede mentre corre. Sul 3-0, a 10’ dalla fine, Trent Alexander-Arnold finge di allontanarsi dalla bandierina, poi torna all’improvviso e mette una palla in mezzo, mentre il Barcellona è altrove. Origi è l’unico che ha la furbizia di rimanere al centro dell’area, attento, a segnare di piatto il gol più importante della sua carriera.
È un gol che definisce questa fase paradossale della carriera di Origi, un calciatore che ha iniziato a sviluppare un rapporto mistico con i gol decisivi partendo dalla panchina. Klopp lo inserisce come fosse un portafortuna e lui - che ha sempre segnato poco in carriera - si fa bastare pochi minuti, una manciata di palle sporche, per essere decisivo. Segna gol che sembrano casuali con una costanza che ci fa dubitare che lo siano. Continua a segnare poco, e a preferire gli ingressi a partita in corso. Jamie Carragher dice che il Liverpool ha bisogno di un finalizzatore, perché lui chiaramente non lo è. Eppure segna spesso gol importanti, in contesti molto tesi. Segna persino nella finale di Champions League contro il Tottenham.
Trent Alexander-Arnold lo definisce “Big games player”, nonostante non le giochi mai dal primo minuto. Continua a fare queste reti malefiche con paradossale regolarità, persino lo scorso anno, quando ormai era retrocesso a mero uomo spogliatoio, sesta opzione offensiva di Jurgen Klopp. Segna pochissimo, ma al derby contro l’Everton segna sempre, nei modi più impossibili. Sembra una regola del cosmo. Entra in campo all’ultimo minuto, si piazza in area di rigore e dopo cento rimpalli la palla gli capita sul piede quasi sulla riga di porta. Origi è uno che sa sbagliare gol incredibili, e lo calcia sulla traversa. La partita continua e il pallone non smette di obbedire alla sua volontà. Van Dijk prova un improbabile tiro da fuori e la prende così male che mentre la palla si impenna lui già si gira per tornare in difesa con le mani sulla testa. Quella palla pare un aeroplanino di carta impazzito, riscende colpendo la traversa DUE VOLTE, Pickford la manca, in qualche modo torna in gioco. Lì, esattamente lì, c’è Divock Origi a segnare di testa il gol vittoria a porta vuota. È il quinto marcatore di sempre del Liverpool nei derby del Merseyside. È il miglior marcatore della storia del Liverpool partendo dalla panchina (11 gol).
Meno gioca e più Klopp parla bene di lui. Quest’anno, in cui Origi ha giocato appena 180 minuti, e col contratto in scadenza, Klopp lo ha definito una leggenda del club. (È stato salutato con una cerimonia, targhe, tutte le celebrazioni del caso). Un’altra volta ha detto «Nessun giocatore potrà mancarci quanto lui». A dicembre, in una delle poche presenze da titolare, trova il modo per regalare al Liverpool tre punti segnando il gol vittoria allo scadere contro il Wolverhampton. I compagni lo stropicciano ridendo come fosse un amuleto magico. Dopo la partita Klopp lo definisce “uno dei migliori finalizzatori al mondo”: «Un attaccante che non gioca molto ma è sempre pronto e positivo. Ha davanti giocatori importanti ma quando gioca si fa sempre trovare pronto. La sua mentalità positiva lo aiuta. Meriterebbe un allenatore che lo faccia giocare di più rispetto a quanto faccio io e spero che un giorno questo possa accadere. A gennaio in tanti lo cercheranno ma spero che voglia restare con noi».
Si parlava del suo arrivo al Milan già ad aprile, quando Klopp si diceva sicuro: «Esploderà ovunque andrà. È un attaccante di livello mondiale». Ora che è arrivato, però, è difficile capire cosa aspettarsi. Negli ultimi tre anni ha giocato meno di mille minuti: un po’ per il livello della concorrenza, e un po’ anche per un problema muscolare che lo scorso anno gli ha fatto saltare 13 partite nel momento più denso della stagione. Questo scarso utilizzo aumenta la percezione di Origi come calciatore a fine carriera, nonostante abbia solo 27 anni. Una percezione data anche dal numero di trofei, dalla precocità del suo talento, dalla scadenza del contratto, da un generale abbassamento di aspettative attorno a lui.
È difficile anche capire quanto è rimasto del giocatore che a inizio carriera giocava esterno a testa bassa. Il modo che ha trovato di essere decisivo nel Liverpool non c’entra niente col giovane di inizio carriera: Origi ha spiccato soprattutto nell’intangibile del calcio, cosa che rende ancora più complicato valutare il suo inserimento nel Milan. In questo, però, Origi non è del tutto dissimile dagli altri due profili di centravanti nella rosa del Milan lo scorso anno, sia Ibrahimovic che Giroud erano due attaccanti esperti, con grandi curriculum di successi e una notevole capacità di influenzare i momenti importanti della stagione. Giocatori che possono essere positivi anche all’interno dello spogliatoio.
Rispetto a loro Origi tecnicamente è un giocatore diverso. Pur diventando, col tempo, un fattore di testa in area di rigore, rimane un giocatore che non ama giocare spalle alla porta. Non è il tipo di centravanti da cercare con tante verticalizzazioni lunghe che deve ripulire lavorando fisicamente col difensore. Per esempio, vince poco più di un terzo dei duelli aerei che gioca, Giroud ne vince due su tre. Nel video sotto, per esempio, non riesce proprio a prendere posizione su Romagnoli che lo anticipa.
Origi resta un giocatore che ama ricevere fronte alla porta e puntare l’uomo davanti a sé: un giocatore di strappi, che ama giocare con spazio in transizione. Per essere un centravanti, prova comunque diversi dribbling in una partita. Se starà bene fisicamente, il Milan potrà provare a usarlo anche come esterno. È un giocatore per certi versi più simile a Rebic che a Giroud, un giocatore dall’ottima tecnica individuale, che in Serie A può vincere tanti duelli fisici con i difensori, soprattutto se il campo si apre. È destro ma sa calciare col sinistro, sa crearsi occasioni per finalizzare anche da solo.
Il suo arrivo in Italia è stato accolto con un certo scetticismo, comprensibile: ha giocato talmente poco negli ultimi anni che è difficile provare a immaginare quale potrà essere il suo impatto. Eppure il fatto che il Milan non stia cercando altri attaccanti centrali ci dice di riflesso della fiducia di cui gode Origi, che a 27 anni ha già vissuto molte vite. Ha già vinto molto, e attraversato diverse fasi di carriera, eppure ci sembra di conoscerlo pochissimo.