È il 4 giugno 2017, e durante l’ennesimo seminario su Pep Guardiola, questa volta a Huelva, in Spagna, Marti Perarnau, biografo dell’allenatore catalano e giornalista sportivo, si sofferma su una slide della sua presentazione, che recita: da cosa è composta l’identità di una squadra?
La risposta è in tre punti: idea, persone, idioma. Se la prima rappresenta, prosaicamente, le intenzioni dell’allenatore, e la seconda lo spirito di gruppo e l’unità di intenti, è sul terzo punto che Perarnau spende diversi minuti. L’idioma, inteso non come nazionalità della lingua parlata, ma in senso più ampio come strumento per la trasmissione delle idee alle persone.
Secondo Perarnau, a livello sportivo, l’idioma (o linguaggio) è una sfida eterna per gli allenatori, che devono fare in modo che i propri giocatori siano in grado di trasformare in elementi tangibili delle istruzioni tecniche. Tali istruzioni vengono trasferite dagli stessi allenatori attraverso delle scelte, di terminologia, di metodo.
Durante il processo di trasferimento dei concetti dalla testa dell’allenatore a quella del giocatore, inevitabilmente il messaggio subisce una “degradazione”, causata dalla semplice necessità di dover mettere in parole un pensiero. Perarnau provoca: “La lingua del calcio è universale? Sì, universalmente confusa.”. Ed è per questo motivo che il calcio (e la sua narrazione) ha iniziato ad avvalersi, nel tempo, di metafore o prestiti semantici di terminologie mutuate da altri sport o attività umane; ed è ancora per questo motivo che si rende necessaria la creazione di un meta-linguaggio, un “codice” comune, attraverso l’utilizzo di concetti, fondamenti, numeri, voci, immagini, comprensibile a tutte le parti in causa, per ridurre al minimo gli sforzi cognitivi e ottimizzare i tempi della trasmissione del concetto.
L’argomento di questa puntata del nostro Dizionario Tattico ha molto a che fare con la questione della trasmissione di intenti. Tratteremo un termine tecnico ormai ampiamente diffuso, legato ad una fase di gioco sempre più importante ed elaborata nel calcio moderno, che è quella del pressing. Parleremo dei trigger (letteralmente: grilletto, innesco), ossia quei segnali che “attivano” un determinato atteggiamento di pressing (collettivo e volto alla sottrazione di soluzioni di gioco dell’avversario) e pressione (quando individuale e indirizzata al portatore) nella squadra che non è in possesso di palla.
Sia pressing che pressione hanno come finalità quella di togliere tempo e spazio alla squadra avversaria, cercando di recuperare il possesso nella situazione più congeniale per poi sviluppare coerentemente con i propri principi di gioco l’azione successiva, che sia l’attacco immediato alla porta o il recupero delle posizioni offensive. Nel calcio moderno, il numero di squadre che costruiscono dal basso è sempre più cospicuo e, di conseguenza, è sempre più urgente l’esigenza di saper organizzare, in risposta, il pressing in maniera funzionale alle caratteristiche del proprio sistema di gioco, delle capacità e delle qualità dei propri giocatori, ma anche in base alla tipologia di avversario.
Per far funzionare correttamente il pressing è necessario che la squadra sappia come e, soprattutto, quando adottare determinati atteggiamenti: è qui che entrano in gioco i trigger.
Quando viene attivato il pressing
Sebbene ogni squadra declini in base alle proprie necessità la lettura di questi trigger, possiamo dire che ci sono delle situazioni di gioco universalmente condivise che, potenzialmente, sono sempre un ottimo innesco per cambiare il ritmo del pressing o aumentare la tensione psicologica nell’avversario e provare a recuperare rapidamente il pallone. Quando e come possono essere sfruttati rimane legato ad aspetti contingenti (momento della partita, condizione fisica, tipo di avversario, ecc), ma in linea di massima è sempre più facile portare un pressing “attivo” quando:
- La squadra avversaria effettua un retropassaggio;
- Chi riceve la palla effettua un controllo sbagliato o è orientato male col corpo, precludendosi già da sé diverse soluzioni di passaggio successive;
- Un giocatore riceve la palla sul piede debole (ma si presuppone un’adeguata conoscenza dell’avversario);
- Il passaggio è lento o sbagliato;
- Chi entra in possesso del pallone si trova girato verso la sua stessa porta;
- Viene effettuato un passaggio laterale;
- Chi è in possesso del pallone ha un’esitazione;
- Dopo una verticalizzazione si genera una seconda palla;
- Un difendente si trova molto vicino al portatore.
Due esempi di trigger: la Croazia attende pazientemente che la palla venga fatta circolare lateralmente, e pressa in avanti sia alla ricezione del difensore esterno, sia al retropassaggio successivo.
L’obiettivo del pressing può essere quello di recuperare direttamente il possesso o di inibire qualsiasi sviluppo offensivo dell’avversario nel più breve tempo possibile, oppure attirare l’avversario in una “trappola”, invitandolo a sviluppare il gioco in una determinata zona o direzione, per poter attivare successivamente un pressing più intenso e creare una ripartenza da un punto specifico.
In questo senso, non tutte le squadre scelgono di indirizzare la costruzione avversaria verso l’esterno o di pressare su un retropassaggio al portiere: ogni scelta è finalizzata sì a minimizzare i rischi durante la fase di possesso avversaria, ma sempre tenendo presente una gerarchia di possibili “vantaggi” nel recupero del pallone.
In linea di massima possiamo dividere i pressing offensivi o ultra offensivi in due macrocategorie. La prima è quella delle squadre che privilegiano un recupero “sicuro” della sfera, ossia in una situazione in cui vi è la ragionevole certezza di poter riguadagnare il possesso e gestirlo a proprio piacimento. Questo tipo di squadre tende a precludere le soluzioni di passaggio centrali e invitare l’avversario a circolare verso l’esterno, per poi attivare immediatamente la pressione individuale e sfruttare la vicinanza con la linea laterale per mettere ulteriore difficoltà.
[gallery columns="5" ids="51674,51675,51676,51677"]
Borussia Mönchengladbach, Roma, Inter e Atletico Madrid preferiscono attivare la pressione individuale non appena il pallone si sgancia dal difensore centrale al terzino, dopo aver ostruito le soluzioni centrali.
La seconda categoria è quella delle squadre che invece preferiscono recuperare il pallone in zone più vantaggiose per un attacco diretto alla porta, possono optare più frequentemente per la creazione di spazi-esca nel corridoio centrale, tagliando fuori gli esterni avversari, per poi collassare simultaneamente verso il centro. Un'altra soluzione comune per attirare l’avversario verso il centro è lasciare volutamente “larga” la marcatura di un giocatore (tipicamente centrocampista) ma col difendente pronto ad accorciare.
[gallery columns="5" ids="51678,51679,51680,51681"]
Liverpool, RB Salisburgo e Atalanta preferiscono invitare l’avversario a giocare verso il centro, per sfruttare densità e/o dinamismo individuale e collettivo per andare al recupero diretto (nella terza immagine un esempio di esca individuale, con Gomez che accorcia verso Gundogan solo dopo che il passaggio è partito).
In breve: un recupero palla laterale è più sicuro, e viene utilizzato tipicamente dalle squadre che hanno grandi percentuali di possesso per mantenere la supremazia territoriale; un recupero centrale, invece, è sostanzialmente più difficile da ottenere ma potenzialmente può portare nell’immediato a situazioni offensive dirette più vantaggiose.
Ma per un buon pressing è fondamentale anche riconoscere immediatamente le situazioni di esitazione o più in generale di ricezione complicata, che costringono l’avversario a perdere tempi di gioco.
Qui il Tottenham sfrutta due esitazioni della Stella Rossa, prima collettivamente e poi singolarmente, grazie alla tenacia di Son che insegue un avversario indeciso.
Inoltre, le situazioni di palla coperta sono importantissime per alzare il baricentro difensivo ed evitare di farsi schiacciare, concedendo troppo campo all’avversario.
Cassata riceve spalle alla porta avversaria, Matuidi lo aggredisce immediatamente, mentre i compagni reagiscono al trigger coprendo preventivamente i suoi appoggi.
Anche i retropassaggi rappresentano un’opportunità di alzare il baricentro che molte squadre sono attente a sfruttare.
La Juventus sfrutta la grande densità di uomini in zona palla per forzare il retropassaggio e proseguire in avanti il pressing; mentre il Liverpool (in questo caso posizionato con un blocco difensivo medio-basso) costringe l'avversario a girarsi con la pressione di Firmino. Una volta riconosciuto il trigger, tutto il blocco accorcia in avanti.
Infine, oltre agli errori “forzati”, una squadra che pressa deve essere reattiva anche a riconoscere immediatamente una errata esecuzione tecnica:
In questo caso, Callejon controlla male un rinvio difensivo, tagliando fuori anche Allan. Il Salisburgo reagisce immediatamente portando tutti gli uomini in zona palla in aggressione.
Trigger “negativi”: quando smettere di pressare (o non farlo proprio):
Chiaramente, non sempre il pressing va a buon fine, dunque si rende necessario programmare dei “piani B” funzionali per reagire alle situazioni in cui il pressing viene aggirato o assorbito per diversi secondi. Anche per una questione di risparmio delle energie fisiche e mentali, talvolta può essere necessario arrestare il pressing anche in situazioni di relativa tranquillità.
In entrambi i casi possiamo trovare dei trigger “negativi”, ossia il segnale che bisogna temporeggiare o ripiegare nelle posizioni di competenza. Il pressing si ferma quando:
- La palla non è più recuperabile (l’avversario ha dribblato uno o più difendenti o vi è una palese inferiorità numerica in zona palla);
- La palla viene passata in zone ritenute non minacciose o eccessivamente arretrate rispetto al posizionamento del blocco difensivo;
- Il pressing è durato troppo e vi è la necessità di ricomporre la struttura posizionale dopo diversi tentativi andati a vuoto (per esempio, la famosa regola dei 6 secondi del Borussia di Klopp).
Il pressing della Juventus viene saltato e tutta la squadra ripiega verso le posizioni difensive preordinate.
Ancora una volta, insomma, è tutta una questione di lettura delle situazioni e di aggiustamento collettivo in base alle necessità tattiche di ogni squadra.
Sebbene, per utilità e comodità, in sede di analisi tendiamo a separare le diverse fasi di gioco (tipicamente quattro), il contesto gara rimane un elemento complesso, promiscuo, critico e fluido, e la distinzione non può sempre essere ridotta ad avere o meno il possesso del pallone. Nella medesima fase di gioco, due o più compagni di squadra possono avere un atteggiamento completamente differente, rivolto ad altre priorità (basti pensare alle marcature preventive in fase di possesso o gli smarcamenti preventivi in fase di non possesso). Nel calcio di oggi più che mai, si difende in base a come si vuole attaccare e si attacca in base a come si vuole difendere.
I trigger sono intesi come dei “detonatori” che generano nella squadra una reazione di cambio “fase”, ma in senso più generale possiamo definirli come uno strumento indirizzato a ridurre il gap cognitivo-esecutivo del singolo e del collettivo, che l’allenatore utilizza per instillare nei propri giocatori naturalezza nel riconoscimento delle situazioni che possono aiutare a sviluppare i propri principi di gioco.
Il calcio è un gioco complesso, così come lo sono le sue situazioni, ma la capacità di decodificarle e di renderle fruibili con indicazioni semplici per le esecuzioni di quelli che sono i veri attori, ossia i calciatori, è forse uno dei valori più sottovalutati nelle qualità di un allenatore.
I trigger sono uno dei più fulgidi esempi di come, dietro un’indicazione semplice, quasi binaria, possa celarsi un elaborato castello di intenzioni tattiche.