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Il gioco di posizione
19 feb 2018
Princìpi e metodologie di uno stile di gioco ambizioso, contro tutti gli stereotipi.
(articolo)
16 min
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Nella prima partita internazionale riconosciuta dalla Fifa (contro la Scozia, giocata il 30 novembre 1872) l’Inghilterra scese in campo con ben 7 attaccanti. Gli scozzesi ne utilizzarono invece uno in meno e ,sebbene sfavoriti, soprattutto sul piano fisico, strapparono un pareggio, sorprendendo gli avversari con il loro passing game. Si passavano il pallone, cioè, in un periodo in cui il calcio era soprattutto una sfida tra singoli che si dribblavano e prendevano a calci sugli stinchi (si è a lungo discusso se quest’ultima usanza fosse da vietare da regolamento oppure no).

Già da quella partita, agli albori della storia del calcio, quindi, erano evidenti almeno tre importanti questioni: non è il numero di attaccanti (13, in quella partita) a determinare il numero di gol (finì 0-0); nel calcio bisogna alzare la testa e ragionare (sebbene fosse considerato poco virile all’epoca), non è un gioco in cui si possa caricare a testa bassa verso la porta (sebbene nelle serie minori, specialmente inglesi, ci siano tuttora sacche di resistenza); il fisico è importante, sì, ma non decisivo (tanto che ancora nel 2018 il miglior calciatore al mondo è alto 169 cm).

Il seme del passing game crebbe così anche in Inghilterra, tanto che fu un allenatore inglese ad esportarlo in Olanda, all’Ajax: Jack Reynolds. Per più di trent'anni, anche se non continuativi, dal 1915 al 1947, Reynolds cambiò completamente la filosofia ajacide, seguendo princìpi ben definiti: gioco offensivo, basato sull’attacco in ampiezza per creare corridoi di passaggio interni, con le ali sempre molto larghe. Per farla breve, il calcio totale di Rinus Michels sarà l’acme del processo di filosofia calcistica avviato da Reynolds; la sua traslazione in Catalogna (prima con Vic Buckingham, sempre un inglese, sempre ex Ajax, poi proprio con Michels) determinerà la crescita di uno stile di gioco peculiare, adattato alla realtà calcistica locale: il gioco di posizione.

Una volta stabilito che il totaalvoetbal è in qualche modo il “padre” del Juego de Posición (JdP), si capisce perché il predicatore sia stato proprio Johan Cruyff, da allenatore del Barça, il profeta van Gaal, ai tempi dell’Ajax, e poi perché il più grande interprete moderno sia Guardiola, cresciuto alla scuola calcistica prima dell’uno e poi dell’altro (sempre al Barça). La scuola catalana è stata ricettiva, ma era anche già pronta al cambio di metodo, grazie all’allenatore che negli anni ‘70 aveva deciso di elevare la preparazione tecnica delle giovanili blaugrana: Laureano Ruiz, auto-proclamatosi inventore dei famosi rondos (il torello, insomma).

La brevissima e non esaustiva cosmogonia del gioco posizionale ci aiuta a capirne il risultato attuale, e a inquadrarne anche la modernità stilistica. Ma cosa diamine è il gioco di posizione, un concetto rimasto ancora stranamente esotico in Italia?

Il nome sbagliato?

Intanto è meglio sgomberare il campo dagli equivoci: il gioco di posizione non è il tiqui-taca, termine che negli ultimi anni ha assunto perlopiù connotazioni dispregiative (tecnicamente sarebbe l’onomatopea spagnola del gioco per bambini click-clack) e che già era entrato nel discorso tattico durante il periodo del Dream Team di Cruyff e che poi ha raggiunto fama mondiale nel 2006 quando venne usato dal telecronista Andrés Montes per descrivere la Spagna di Aragonés, a indicare lo stile di gioco fondato da una serie di passaggi corti e ravvicinati.

Sostanzialmente per tiqui-taca si intende un possesso molto orizzontale, volto a non concedere il pallone agli avversari. Passarsi il pallone tanto per farlo (o conservarlo), quello è il tiqui-taca, la cui distorsione perversa è il tiquinaccio, una forma di possesso esclusivamente difensivo a volte usato dalla Nazionale spagnola sotto Del Bosque durante il periodo 2010-2014. «Non passare il pallone lateralmente se non genera nulla», la frase di Juanma Lillo, uno degli ideologi moderni del Juego de Posición, in totale contrapposizione con il tiqui-taca, quindi.

L’origine del nome risale addirittura agli anni ‘50. Scriveva infatti Ivan Sharpe, ex giocatore e giornalista, nel 1952, riferendosi in particolare all’Ungheria: «Gli stranieri ci hanno superato nello stile di gioco. I segreti del mestiere e il passing game scozzese si sono trasferiti all’estero [...] L’atmosfera tesa negli stadi inglesi e le continue salite e discese di gioco hanno reso il nostro calcio confuso e disorganizzato. Ma la frenesia non è calcio e altre nazioni hanno sviluppato un approccio più scientifico al gioco. Il gioco di posizione (positional play) è uno stile molto più sviluppato poiché accumula le combinazioni».

Da questa definizione rudimentale sono passati quasi 66 anni, e seppure il gioco sia molto cambiato, le intuizioni rimangono corrette e attuali (e lo è anche quella sulla frenesia del calcio inglese).

Non basta passarsi il pallone per parlare di gioco di posizione.

Il termine gioco di posizione, però, oggi si riferisce a una filosofia o stile di gioco basato su diversi princìpi e allenato seguendo alcune metodologie. Il nome è dovuto all’importanza assegnata all’occupazione delle posizioni corrette all’interno di una struttura organizzativa predefinita: in particolare, «le posizioni dipendono da dove si trova il pallone», e «non sono le posizioni che vanno al pallone, è il pallone che va alle posizioni».

Per farla semplice: la posizione di ogni singolo giocatore è fondamentale per lo sviluppo del gioco, ma è solo uno strumento per raggiungere un certo fine. Per questo in Spagna si discute molto anche su una possibile ridenominazione dello stile (ormai impossibile, vista la fama anche internazionale): Juanma Lillo (allenatore spagnolo, è stato collaboratore di Sampaoli nel Cile e nel Siviglia) propone “juego de ubicación” (come descritto nel libro Metamorfosi di Martí Perarnau) perché comprensivo non solo del luogo in cui si trova il giocatore, ma anche dell’orientamento del corpo, la postura, la direzione. Insomma, un termine più soddisfacente di quello di Sharpe.

Una cosa è certa, studiarne il nome ci aiuta a capire il tipo di gioco di cui parliamo: come sottolinea Guardiola, il possesso palla in sé non è un valore intrinseco di questa filosofia di gioco, che non a caso si definisce di posición e non di posesión.

Superiorità

Definizione brevissima per chi non ha tempo o voglia di approfondire: il gioco di posizione è un modo di vedere il calcio, la cui proposizione principale è la ricerca della superiorità (posizionale, soprattutto, ma anche numerica e qualitativa), il cui strumento è il controllo del pallone, e che si basa su una serie di movimenti definiti tramite allenamenti specifici.

Attraverso l’organizzazione della squadra si vuole ottenere un tipo di superiorità in una qualche porzione di campo. Ovviamente, per sua natura il JdP vede nella superiorità posizionale quella migliore: come evidenziato da Flavio Fusi, si tratta della superiorità che «consiste nel liberare uomini tra le linee e nell’aprire linee di passaggio multiple». E all’interno di questa superiorità, il vero deus ex machina è il cosiddetto “hombre libre”: trovare cioè un giocatore libero di ricevere, senza marcatura, con spazio e tempo per la successiva giocata. Questo è il massimo grado di superiorità posizionale, oltre che a essere il vero obiettivo del gioco di posizione. Ovviamente, è preferibile che tale giocatore sia davanti alla linea del pallone, se possibile alle spalle degli avversari, ma anche lateralmente: in modo da far progredire la fase offensiva della squadra.

Nelle parole di Lillo, il JdP consiste appunto nel generare superiorità alle spalle delle varie linee di pressione: per questo è così importante l’inizio dell’azione, perché non ci può essere uno sviluppo corretto se non si trova subito una prima superiorità rispetto alla pressione offensiva avversaria. Da qui la rilevanza della Salida Lavolpiana, e del portiere come giocatore di campo, in grado cioè di supportare i compagni nel trovare l’uomo libero che possa determinare superiorità posizionale (ed è anche il modo più semplice per avere superiorità numerica nella propria trequarti).

Guardiola agli inizi nel Bayern allenava al gioco di posizione con insistenza: non andare sulle fasce a crossare, se non come extrema ratio dopo aver disordinato l’avversario. Cercare sempre Ribery e Gotze tra le linee; creare i sovraccarichi da una fascia per attaccare sull’altra. E le facce dei giocatori lasciano intuire che la metodologia del gioco di posizione è comunque una novità, ed è un po’ come tornare a scuola: anche per questo, alcuni grandi giocatori non ce la fanno.

Come evidenziato da Perarnau nello splendido pezzo di Adin Osmanbasic per Spielverlagerung.com, si tratta di uno stile di gioco profondamente codificato, studiato e allenato nel minimo dettaglio: i giocatori devono conoscere le varie possibilità di gioco e i loro compiti in ogni momento. Bisogna praticamente conoscere un catalogo di movimenti, e saperli interpretare in campo con la cosiddetta tattica individuale: non si tratta di un aspetto banale.

Per aiutare i giocatori, chi pratica il gioco di posizione è solito dividere il campo di allenamento con 4 linee verticali: a delimitare le due fasce laterali, i mezzi spazi e la zona centrale, e diverse linee orizzontali. Guardiola usa questa suddivisione per insegnare ai giocatori come e dove muoversi in relazione alla posizione di pallone, compagni, spazi, avversari - proprio come Sacchi.

Le zone più importanti sono i mezzi spazi, perché la divisione decisiva è quella verticale: in ognuna delle cinque fasce verticali non possono esserci più di due giocatori, e non più di tre sulle linee orizzontali. Anche per questo i veri maestri del JdP sono le mezzali: Iniesta, De Bruyne, quegli uomini che regalano sempre superiorità posizionale, facendosi trovare tra le linee (orizzontali e ancor di più verticali).

Nelle parole di Guardiola (dal libro Herr Pep di Perarnau): «La cosa fondamentale è che l’ala e il terzino non siano mai nello stesso corridoio di gioco. In possesso, l’ideale è avere il difensore centrale ampio in fascia, il terzino dentro al campo e l’ala larga in fascia». Ecco da dove nasce l’idea dei falsi terzini: non una fenomenata da bar, ma un meccanismo per trovare l’uomo libero. Se l’ala avversaria segue il movimento esterno-interno del terzino, allora il difensore centrale potrà andare direttamente in verticale sull’ala; se l’ala rimane in chiusura sulla fascia, ecco che il terzino diventa l’uomo libero che in zona centrale crea superiorità posizionale. In questo modo è possibile creare continuamente triangoli e rombi di gioco: se un giocatore “invade” un corridoio altrui, ci deve essere un movimento ad uscire del suo compagno.

Per arrivare al giocatore libero, il JdP utilizza diverse strategie: una delle più evidenti nell’attuale City di Guardiola (ma anche nel Bayern) è il sovraccarico di una fascia. L’azione si sviluppa cioè con passaggi rapidi e ravvicinati in una specifica porzione di campo, mentre l’esterno sull’altra fascia rimane ampio: l’obiettivo è raggiungerlo con un cambio di campo, per mandarlo nell’1 vs 1 con il difensore avversario, puntando quindi sulla superiorità qualitativa (basata, cioè, sulla qualità del singolo giocatore).

Per questo i giocatori che riescono a superare facilmente l’avversario sono perfetti per questa filosofia: gente come Sané è in superiorità qualitativa contro gran parte dei difensori (velocità, controllo del pallone, orientamento). Anche qui si smonta un altro falso mito, e cioè che il dribbling sia una sorta di bug di questo sistema: nient’affatto, anzi a volte è persino l’obiettivo specifico di un’azione.

L’importanza di rombi e triangoli per offrire opzioni di passaggio al portatore: qui l’uomo libero è quello centrale, Lahm, che una volta ricevuto dietro la prima linea di pressione ha un orizzonte di linee di passaggio praticamente ovunque.

Il gioco di posizione punta su un principio semplice: se il pallone è l’attrezzo da usare in questo sport, allora è con il pallone che la squadra deve saper giocare. Anche per questo la metodologia di lavoro punta tantissimo sul rondo, un esercizio che, nella sua semplicità, ripropone i temi principali del JdP: le combinazioni vicine per attrarre l’avversario e servire il giocatore lontano, la ricerca dei corridoi interni.

Il pallone, e quindi il possesso palla, è uno strumento fondamentale: da un lato, permette alla squadra di ordinarsi e di disordinare gli avversari; dall’altro, permette addirittura di difendersi. Nel primo caso, infatti, a seconda del movimento del pallone i giocatori interpretano ruoli diversi, con l’obiettivo di salir jugando, e cioè che giocatori, posizioni e pallone viaggino insieme. Nel secondo caso, è centrale l’idea che le fasi di gioco siano un continuum, e che a definire l’approccio del sistema è la volontà offensiva.

La formazione dei triangoli di fascia e i movimenti dei giocatori tra i corridoi verticali.

I famosi 15 passaggi di cui parla Guardiola, necessari per avanzare sul campo, non sono una provocazione: l’idea è che solo avanzando insieme sarà possibile attaccare bene e soprattutto difendere bene. L’idea è che se la squadra si ordina con il pallone, l’avversario si disordinerà cercando di conquistarlo, durante questa sequenza di 15 passaggi; e anche qualora ci riuscisse, la compattezza della squadra in zona palla renderebbe molto più semplice riconquistare il possesso (pressione da 4-6 secondi: riprendere il pallone entro quel tempo, o ripiegare). La riaggressione è un elemento sostanziale del gioco di posizione.

Non servono a perdere tempo, quindi: l’idea è che se il pallone arriva rapidamente in attacco, altrettanto rapidamente tornerà indietro e si avrà una fase difensiva. Per questo i 15 passaggi sono uno strumento allo stesso tempo offensivo e difensivo. Nel gioco di posizione si ritiene che dominare la partita, attraverso il controllo del pallone, permetta di imporre la strategia di gara: si costringe l’avversario a difendersi non come vorrebbe, ma come reazione alle proprie mosse. Insomma si muove il pallone perché aiuta a muovere l’avversario.

Non è un’ideologia

Si può generare la superiorità alle spalle di una linea di pressione in modi diversi e con tempi diversi: si può giocare molto in verticale, per cercare più frequentemente il giocatore libero lontano dal pallone, e andare quindi velocissimi, usando pochi passaggi. Questa è ad esempio la tipologia di gioco di posizione usato dall’Italia di Conte agli Europei: nessuno nel panorama mediatico italiano ha realizzato che quella era una versione italiana di JdP, e noi ci siamo fatti aiutare proprio da Martí Perarnau per capire meglio: «Giocatori posizionati su differenti altezze, una squadra ampia per aprire corridoi interni, ricerca dell’uomo libero, creazione della superiorità numerica alle spalle dell’avversario: tutti fondamenti del Gioco di Posizione praticato dagli Azzurri.[...] è un Gioco di Posizione con poche idee, però eseguite molto bene, come la ricerca della superiorità nell’uscita della palla dalla difesa verso e al centro del campo; o il centrocampista davanti alla difesa come uomo sempre libero, in alternativa a una delle mezzali e a uno dei tre centrali difensivi».

Anche quello praticato da Sarri ha caratteristiche del gioco di posizione nell’occupazione degli spazi, nella ricerca dell’uomo libero e del sovraccarico su una fascia per attaccare sull’altra. Si possono utilizzare anche solo alcuni strumenti del gioco di posizione, senza praticarlo davvero: e d’altronde non esiste un vero JdP puro, anche quello di Guardiola è in continua evoluzione. Non si tratta di abbracciare un’ideologia, ma di scegliere una visione e la sua metodologia.

Questo stile di gioco si può quindi praticare ovunque, e non è così legato al calcio spagnolo (e olandese) come sembra: è ovviamente meglio avere allenatori locali in grado di reinterpretarlo, perché come l’esportazione della democrazia, anche l’esportazione di una filosofia di gioco è decisamente complicata, sebbene quest’ultima sia di più facile riuscita. In Germania e in Inghilterra, Guardiola ha dovuto necessariamente rendere più verticale il suo gioco, rispetto al salir jugando del Barça.

Incredibile quanti strumenti tattici possa allenare un semplice rondo: è la vera essenza del gioco di posizione, perché allena a creare, identificare e sfruttare la superiorità. Ovviamente ne esistono di complicatissimi. In “covercianese”, l’insieme di queste tipologie di allenamento si chiamano giochi di posizione.

Si dice spesso che il JdP vada bene solo per squadre con determinate caratteristiche tecniche (elevata qualità individuale) e fisiche (giocatori bassi e rapidi), ma è uno stereotipo: è uno stile di gioco che ha soprattutto bisogno di calciatori intelligenti, e che capiscano il gioco, una tipologia non così comune ma neppure così rara. Anche per questo calciatori come Lahm e Busquets eccellono nell’interpretazione del JdP; e per quanto riguarda la qualità dei giocatori, basti pensare al Rayo Vallecano di Paco Jémez, che di imbarcate ne ha certamente prese, ma è rimasto per tre anni consecutivi nella Liga provando a imporre il proprio gioco di posizione sia al Camp Nou che al Bernabeu; o anche allo “Swanselona” di Brendan Rodgers prima, e Laudrup poi.

In Italia c’è stato il Foggia di De Zerbi, che attualmente ci sta provando anche con il Benevento: due realtà che non hanno niente in comune con il Barça, senza budget di mercato, con giocatori “normali”. Forse è semplicemente paura del nuovo e del diverso, quella che spinge da un lato i media a ridicolizzare il gioco di posizione e sminuirlo («con quei soldi e quei giocatori vincerebbe chiunque»), rendendolo così incomprensibile al pubblico, e dall’altra conduce gli allenatori a sbrodolarsi di alibi (per fare un esempio, Mondonico ai tempi dell’Atalanta disse: «Non siamo il Barcellona, dobbiamo imparare a fare come facevamo da piccoli all’Oratorio, quando si respingevano i palloni anche in tribuna se serviva»).

Non è migliore né peggiore di altri stili, è solo un’idea di gioco possibile, con applicazioni pratiche anche molto diverse.

Il preludio a questo fotogramma è che il Benevento, dopo una circolazione insistita anche all’indietro per attrarre l’avversario, ha trovato perfettamente l’uomo libero (Djuricic) alle spalle della linea di centrocampo del Napoli e nello spazio di mezzo. Qui si vede la spaziatura dei giocatori, che occupano i canali verticali: ce ne sono due nello stesso, ma si stanno muovendo in quel momento in direzione opposta (Djuricic va a occupare quello centrale). Quindi basta allenarsi per mettere in pratica il gioco di posizione, anche in Italia.

Nessuno sostiene che sia facile, certo. Anzi Guardiola stesso ritiene che il gioco di posizione sia difficile da eseguire, perché richiede umiltà da parte dei giocatori: è un processo lungo, in cui i giocatori devono fare molti movimenti anche a distanza, senza intervenire, così aiutando i compagni più vicini al pallone. E per fare questo, appunto, serve intelligenza calcistica, e molto allenamento.

È una filosofia di gioco rischiosa perché ti porta a difendere nella metà campo avversaria, e molto ambiziosa perché punta ad ottenere il controllo totale sulla partita. E poi il gioco di posizione è controculturale, richiede uno sforzo aggiuntivo, persino nella parte atletica: celebre lo sbigottimento dei giocatori del Bayern quando, appena arrivato, Guardiola disse che non bisognava più correre nei boschi per la preparazione atletica, perché si sarebbe lavorato sempre con il pallone (e in tutta risposta, quelli decisero a fine allenamento di andarci lo stesso, a correre nei boschi, perché si sentivano persi).

Nel JdP quasi tutto è controintuitivo: e così la fase offensiva è la preparazione a quella difensiva, i difensori servono per attaccare meglio, i laterali per occupare il centro, il portiere per giocare con i piedi, si sovraccarica su una fascia per attaccare sull’altra, il centravanti è lo spazio, si difende andando in avanti.

Quanto lontano è arrivato il calcio, partendo dal semplice passing game scozzese: e ci è arrivato con l’ambizione di raggiungere sempre una nuova sofisticata e spettacolare vetta, per la voglia di vincere e di dominare il fato.

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