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Le transizioni
27 mar 2017
Concetti utili per le partite in spiaggia contro i turisti inglesi.
(articolo)
10 min
(copertina)
Foto di Alex Caparros / Stringer
(copertina) Foto di Alex Caparros / Stringer
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Le fasi di gioco di una partita sono scandite dal possesso o meno del pallone: la fase offensiva inquadra il comportamento di una squadra quando attacca in possesso del pallone; quella difensiva, al contrario, inquadra il comportamento di una squadra quando difende, quindi senza il pallone. E questo è abbastanza ovvio. L’accelerazione dei ritmi di gioco negli ultimi venti anni, però, ha reso sempre più fluido il passaggio da una fase all’altra, tanto da rendere necessaria la definizione teorica di quei momenti in cui una fase scivola nell’altra: le cosiddette transizioni.

Le transizioni si riferiscono ai momenti immediatamente successivi alla riconquista o alla perdita del pallone: in caso di riconquista si parla di transizione offensiva (dalla fase difensiva a quella offensiva); in caso di perdita del pallone, invece, si parla di transizione difensiva (dalla fase offensiva a quella difensiva).

Così, contrariamente alla distinzione in due fasi di cui si parla comunemente, in ogni partita una squadra gioca quattro fasi diverse: offensiva, difensiva e le due transizioni. Avere le idee chiare su come attaccare e come difendere non basta: per essere davvero organizzata, una formazione deve reagire immediatamente ai cambi di possesso. Ovvero, deve prepararsi a difendere mentre attacca e ad attaccare mentre difende.

Filosofie

Esistono diversi modi per farlo. Le squadre il cui stile ruota attorno al controllo del pallone solitamente sono aggressive quando perdono palla, e prudenti quando la recuperano: dominare il possesso significa, infatti, ridurre al minimo le fasi di possesso degli avversari e conservare il pallone una volta recuperato, per riordinare la squadra e iniziare un nuovo attacco. Pep Guardiola l’ha teorizzato nella cosiddetta “regola dei 15 passaggi”, il numero minimo necessario secondo il tecnico catalano a ordinare la squadra mentre costruisce il proprio attacco e a gestire efficacemente la transizione negativa.

Dalla parte opposta, nello scacchiere delle filosofie calcistiche, ci sono invece quelle squadre che puntano su rapidi contrattacchi una volta recuperata la palla e che, per converso, sono prudenti quando la perdono, scappando velocemente verso la propria porta per recuperare le posizioni difensive. La necessità di crearsi gli spazi in cui ripartire deve coordinarsi con quella di non farsi schiacciare troppo in basso, per non allungare eccessivamente il campo da risalire una volta riconquistata la palla.

Il primo Real Madrid di Carlo Ancelotti aveva trovato un equilibrio invidiabile, conciliando l’attesa non passiva nella propria metà campo con un’eccezionale qualità nel ribaltare l’azione.

In generale, più si punta a conquistare metri velocemente più è difficile accorciare subito dopo aver perso palla (anche se non mancano esempi di squadre il cui tratto distintivo è l’aggressività con cui gestiscono entrambe le transizioni, attaccando velocemente a palla riconquistata e accorciando alla ricerca del recupero immediato a palla persa): più si risale il campo gradualmente più è probabile che nella zona in cui si perde la palla ci sia un numero di giocatori sufficiente a tentare la riconquista immediata.

La capacità di sapersi destreggiare tra i vari atteggiamenti fa spesso la differenza, come insegna la Juventus, capace di adattarsi a tutti i contesti pur restando comunque una delle migliori squadre d’Europa a tornare in posizione a palla persa.

Al di là di queste tendenze generali, che possono più o meno identificare lo stile di una squadra, il modo di affrontare una transizione cambia anche a seconda delle circostanze. Se, ad esempio, la palla viene riconquistata mentre la squadra avversaria si apre per costruire l’azione dal basso è normale approfittare dello spazio disponibile per arrivare velocemente in area di rigore.

Allo stesso modo, anche le squadre più prudenti possono alzare il livello di aggressività in determinate situazioni, come ad esempio le rimesse dal fondo e quelle laterali, che favoriscono la concentrazione di uomini attorno alla palla e di conseguenza un approccio più aggressivo in caso di perdita del possesso. O ancora, se il pallone viene perso sulla fascia ed è quindi possibile utilizzare la limitazione della linea laterale per ridurre le opzioni del portatore di palla accorciando rapidamente.

Scoprire l’acqua calda

Per essere competitivi nel calcio attuale la gestione delle transizioni non può essere lasciata al caso. Ma anche in passato venivano presi determinati accorgimenti. Tanto per cominciare, tradizionalmente non tutti i giocatori partecipano a tutte le fasi, o meglio ogni giocatore partecipa in maniera differente alle diverse fasi: di norma alcuni difensori non partecipano alla manovra offensiva per garantire la copertura necessaria e, allo stesso modo, alcuni giocatori offensivi (il cui numero varia a seconda della situazione, del sistema o delle idee dell’allenatore) non partecipano a quella difensiva, facendo da riferimento per un contrattacco veloce in caso di recupero della palla.

Nella gergo calcistico spagnolo c’è persino un termine che definisce questo tipo di giocatori: “descolgados”, cioè scollegati rispetto ai compagni, a sottolineare la loro distanza, sia fisica che teorica, dal resto della squadra.

Insomma, per loro natura - dato che stiamo parlando di un modo di suddividere il flusso ininterrotto di un’azione che si può applicare anche al calcio del passato - le transizioni sono sempre esistite. Anzitutto perché anche gli errori fanno parte della natura del gioco, e i contropiedi, così come i tentativi per recuperare il pallone o tornare a difesa della propria porta, esistono fin dall’inizio.

Anzi, alcune delle più importanti innovazioni tattiche della storia hanno a che fare proprio con l’idea di abbassare il baricentro della squadra, lasciarsi attaccare per aprire ampi spazi in cui lanciarsi una volta recuperato il pallone.

Basta pensare, ad esempio, al WM, il cui tratto distintivo era rappresentato dall’arretramento del centromediano in difesa: una mossa che, a cascata, aveva causato l’arretramento del resto della squadra, per difendere più bassi e avere maggiori spazi da attaccare a palla recuperata. «Il segreto non è attaccare, ma contrattaccare», diceva Bernard Joy, giocatore dell’Arsenal negli anni Trenta, la squadra allenata da Herbert Chapman, considerato l’inventore del WM.

Anche il “catenaccio”, con la sua idea di liberare - in senso letterale - un giocatore e piazzarlo alle spalle dei terzini senza compiti di marcatura particolari (il “libero”, appunto) comportava il progressivo arretramento del resto della squadra, dando vita alla formula che in maniera dispregiativa e spesso impropria descrive le squadre che difendono basse: “catenaccio e contropiede”. Ma in realtà, nelle sue versioni migliori, il Milan di Nereo Rocco e l’Inter di Helenio Herrera, il “catenaccio” era capace di produrre molti gol e non si limitava alla difesa a oltranza della propria metà campo: sia il Milan che l'Inter avevano le idee chiare su come contrattaccare e potevano contare su due formidabili “lanciatori” dell’azione, Gianni Rivera e Luis Suárez, particolarmente famosi per la precisione dei loro lanci lunghi.

Ed è piuttosto significativo che il gol decisivo nella prima vittoria italiana in Coppa dei Campioni – quella del Milan nel 1963 in finale contro il Benfica – sia stato segnato in contropiede: un intercetto di Rivera che ha permesso ad Altafini di correre verso la porta in una metà campo priva di giocatori del Benfica.

Insomma, già allora le transizioni avevano un loro peso specifico nell’organizzazione di alcune squadre.

Certo, era un calcio molto lontano dagli standard cui siamo abituati, in cui ruoli e compiti in campo erano ben definiti. L’evoluzione del gioco è stata accompagnata da un progressivo aumento della velocità e dal miglioramento della forma fisica dei giocatori, che ha favorito l’introduzione di strumenti utili a rendere i contrattacchi sempre più complessi e pericolosi - sempre più fluidi - come ad esempio il pressing.

Pressing e gegenpressing

Il pressing non ha solamente rivoluzionato il modo di difendere, ma anche quello di contrattaccare, per due motivi essenziali. (1) Lo spostamento del recupero palla più in alto sul campo, con la possibilità quindi di far partire il contrattacco più vicino alla porta avversaria. (2) La presenza di più giocatori nella zona del pallone, che permette di creare combinazioni più complesse e difficili da leggere per le difese avversarie rispetto al semplice lancio lungo.

Bellarabi segna dopo che il pressing porta al recupero della palla.

Già con il pressing le fasi di gioco iniziano a compenetrarsi, sfumando l’una nell’altra: con lo sviluppo successivo del gegenpressing (che in estrema sintesi - se non vi va di cliccare sul link e leggere l’articolo dedicato - è un tipo di pressing, anche detto riaggressione, effettuato immediatamente dopo aver perso il pallone) le due transizioni si sono avvicinate fino a diventare quasi indistinguibili tra loro.

Pressare subito dopo aver perso palla non ha solo l’obiettivo di fermare il contropiede avversario (come parte, quindi, della transizione negativa di chi effettua la riaggressione) ma anche quello di porre le basi per un contrattacco estremamente invitante (transizione offensiva), con la squadra avversaria fuori posizione nel tentativo di impostare il proprio contrattacco.

Di cosa parliamo (oggi) quando parliamo di transizioni

La fluidità del passaggio tra le due fasi spinge a riflettere non solo sull’evoluzione del gioco, ma anche sulla necessità di una ridefinizione teorica delle transizioni. Avrà ancora senso parlarne quando i cambi di possesso da una squadra all’altra saranno continui e difficili da distinguere?

Non si dovrebbe invece considerare la partita come un flusso continuo scandito soltanto dal possesso o meno del pallone (è la filosofia, ad esempio, di Juanma Lillo, ispiratore, tra gli altri, di Guardiola e attuale vice di Jorge Sampaoli al Siviglia)? Parlare, quindi, solo di due fasi: “con” e “senza”?

In ogni caso non sembra una questione urgente, il calcio non è ancora arrivato a quel punto. La scorsa edizione della Champions League ha confermato l’importanza di recuperare la palla il più in alto possibile: 149 gol sui 347 totali sono nati da una riconquista del possesso nella trequarti offensiva. Così come la tendenza ad attaccare velocemente la porta avversaria: in media sono serviti meno di 4 passaggi per realizzare un gol, e il tempo medio di possesso necessario a segnare è stato di 11,5 secondi.

Ma negli ultimi dieci anni la proporzione dei gol in ripartenza sul totale dei gol segnati su azione si è dimezzata, e le situazioni più frequenti che hanno portato a un gol la scorsa stagione sono state la riconquista del pallone dopo una respinta della difesa o un passaggio o un controllo sbagliato di un avversario. Attaccare con prudenza e aspettare un errore resta una strategia vincente, come hanno insegnato Real Madrid e Portogallo, il club e la Nazionale campioni d’Europa in carica.

La diffusione del gegenpressing ha contribuito a dimezzare la proporzione di gol segnati in contropiede in Champions League nell’ultimo decennio, ma il merito va anche alla reazione opposta, a tutti quegli accorgimenti pensati per ridurre i rischi e mantenere una buona struttura difensiva anche quando si attacca. Le squadre sono sempre più allenate a prevenire i contrattacchi – tanto che la paura di subirne è il fulcro attorno a cui ruota lo stile di gioco di molte formazioni – e trovare spazi anche dopo aver recuperato palla è sempre più difficile.

In attesa che l’accelerazione dei ritmi e l’evoluzione del gioco porti (forse) a sfide frenetiche in cui i cambi di possesso saranno così veloci da renderle praticamente indistinguibili, le transizioni continuano ad avere un ruolo chiave nel definire il gioco e nell’indicare la via per il successo. Indipendentemente da quale sia la vostra filosofia preferita: la difesa è il miglior attacco, l’attacco è la miglior difesa; ricordatevi di quanto è importante saper passare dall’una all’altra fase.

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