Da sempre l’uomo prova a classificare i fenomeni reali e a catalogarli sulla base di somiglianze e similitudini: l’esigenza nasce dalla necessità di ridurre la complessità dell’esistente, riducendo le variabili e facilitare così la comprensione della realtà. Il calcio, ovviamente, non sfugge al tentativo di catalogazione e da sempre gli osservatori provano a ordinare sistematicamente i principi guida che muovono le varie strategie degli allenatori.
Da Brera a Wilson
Gianni Brera è, giustamente, ricordato come il più grande giornalista sportivo italiano: è stato l’inventore di gran parte del gergo con cui il calcio è stato raccontato in Italia e la sua rivoluzione non è stata solamente linguistica, come tutte le rivoluzioni linguistiche modificava anche la sfera concettuale. La ricerca e l’utilizzo di neologismi era funzionale al racconto del calcio attraverso una chiave interpretativa nuova, che includeva per la prima volta nel giornalismo italiano la tattica come parte integrante della comprensione del gioco. Libero, pretattica, contropiede, sono solo alcuni dei termini coniati da Brera senza i quali non avremmo potuto raccontare il calcio negli ultimi 50 anni.
Famosa è la sua distinzione tra squadra “femmina” e squadra “maschia”. La prima era una squadra che preferiva lasciare l’iniziativa del gioco agli avversari, puntando sulla difesa e sul “contro-gioco”: le squadre femmine per Brera erano quelle che giocavano prevalentemente sugli errori e sugli spazi avversari. Per contrasto, le squadre che Brera associava al carattere mascolino erano quelle che cercavano la vittoria tramite l’attacco e l’imposizione della propria volontà e strategia di gioco.
Circa 50 anni dopo, Jonathan Wilson, autore de “La piramide rovesciata”, ha usato i termini di calcio proattivo e reattivo. Le squadre che hanno un approccio proattivo sono quelle che ambiscono ad avere il controllo del pallone e a dominare il possesso; all’estremo opposto, per le squadre reattive, il possesso del pallone è molto meno importante della difesa degli spazi, che gestiscono in fase difensiva compattandosi nella propria metà campo. Spesso, il corollario alla definizione è che le squadre proattive tendono a difendere tramite il pressing, cercando una ricerca attiva della riconquista del pallone, mentre quelle reattive attaccano approfittando degli spazi creati dall’avere attirato gli avversari nel proprio campo.
Chiaramente, le definizioni coprono gli estremi di uno spettro continuo di orientamenti adottati dalle squadre di calcio, che nella maggior parte dei casi abbracciano una filosofia di gioco che mescola in proporzioni diverse i due approcci.
Cosa si intende per proattivo e reattivo
I termini proattivo e reattivo, tuttavia, hanno significati più sfumati e per questo più complessi. “Proattività” è un concetto che nasce originariamente in ambito psicologico e descrive un approccio alla complessità dell’esistenza che non si lascia condizionare dal suo intorno e che pone l’accento sulle responsabilità individuali. In estrema sintesi: l’habitat di una persona proattiva è costruito dalle sue scelte e non definito dalle circostanze esterne.
Il termine è poi transitato nel campo degli studi sulle organizzazioni, in particolare quelle lavorative, indicando un atteggiamento che anticipa le esigenze future e promuove il cambiamento, in contrapposizione a un atteggiamento reattivo che risponde solo dopo l’accadimento di un evento. Anche in questo caso, l’accento è posto sulla costruzione attiva di un ambiente, opposto a una risposta reattiva ad accadimenti esterni.
Per estensione e rimanendo vicini al significato dei termini, nel gergo del calcio un approccio proattivo è quello che tende a determinare l’ambiente tattico della partita preoccupandosi poco delle intenzioni degli avversari, mentre quello reattivo prova a giocare rispondendo alle tendenze tattiche della squadra che si fronteggia. Un calcio proattivo aspira all’autosufficienza, mentre un calcio reattivo dipende dalle mosse degli avversari.
In quest’ottica, l’associazione di Wilson tra proattività e possesso palla, e quindi tra reattività e non possesso, presta il fianco a qualche difficoltà interpretativa. In questo modo un calcio offensivo verticale e centrato sulle ripartenze potrebbe essere generalmente classificato come un calcio reattivo, basato sullo sfruttamento degli errori avversari e degli spazi lasciati dalla volontà offensiva contraria. Lo stesso Jonathan Wilson distingue, però, tra squadre che giocano ripartenze con una fase difensiva bassa e passiva e squadre che utilizzano invece il pressing offensivo (“il miglior playmaker del mondo”, secondo una celebre definizione di Jürgen Klopp) o anche il gegenpressing, come meccanismi primari di recupero palla, come trampolino di lancio per ripartenze veloci che sfruttano la transizione per cogliere di sorpresa la struttura difensiva avversaria, sbilanciata dalla propria precedente fase offensiva.
Mentre le difese basse e compatte hanno l’obiettivo principale di prevenire i pericoli, il pressing e il gegenpressing hanno anche l’obiettivo aggiuntivo di forzare, con la propria organizzazione, gli errori avversari. Svolgono, in un certo senso, un ruolo proattivo nel determinare gli eventi e per tale motivo le squadre che li attuano potrebbero essere classificate come squadre proattive, indipendentemente dalla loro percentuale di possesso.
Alla stessa maniera, in un famoso articolo del 2016, Jonathan Wilson definiva reattivo il Manchester United di Louis van Gaal pur in presenza di un calcio fortemente orientato al possesso palla. Il possesso dello United veniva inteso come focalizzato primariamente alla minimizzazione dei rischi e disinteressato alla creazione dei presupposti della pericolosità (creazione di spazi da attaccare, zone di superiorità posizionale); in questo contesto le occasioni da gol nascevano principalmente da errori degli avversari.
Foto di Laurence Griffiths / Getty Images.
Quindi, una squadra può giocare un calcio definibile in qualche maniera proattivo anche senza il pallone e squadre con alte percentuali di possesso, come lo United di van Gaal, possono essere definite reattive.
Guardiola vs Rehhagel (e Mourinho, Di Matteo…)
Detto questo, è necessario provare a definire con più precisione i termini della questione. Il più classico esempio recente di calcio proattivo è quello di Pep Guardiola, nelle sue diverse versioni a Barcellona, Monaco di Baviera e Manchester, lato City. Il calcio di Guardiola ambisce a imporre la propria volontà tattica sul destino del match: nella partita ideale la squadra di Guardiola domina il possesso, crea occasioni da gol e riconquista il pallone puramente con la propria strategia, senza aspettare errori avversari. Con il possesso palla manipola la struttura difensiva avversaria e ambisce a definire le tendenze tattiche del match.
Sul capo opposto dello spettro ideale, un caso di scuola è stato fornito dalla Grecia vincitrice degli Europei del 2004 in Portogallo. Il tecnico tedesco Otto Rehhagel aveva impostato la sua squadra rinunciando a ogni velleità di possesso, disegnando una difesa bassa e compatta e puntando ogni chance offensiva su occasionali ripartenze e sui calci piazzati.
Una contrapposizione così netta l’hanno messa in mostra le semifinali di Champions League del 2010 e del 2012, giocate dal Barcellona di Guardiola contro l’Inter di Mourinho e il Chelsea di Di Matteo, esempi puntuali e famosi di scontri radicali tra un calcio proattivo e uno reattivo.
Foto di Lluis Gene / Getty Images.
A un estremo, quindi, abbiamo l’utopia illuminista di incanalare i destini di un match dentro i confini della volontà di una squadra; all’altro, c’è il cinico realismo dell’arte del possibile. In mezzo, ci sono tutte quelle sfumature che colorano il calcio “reale”. Da un punto di puramente formale abbiamo visto come la distinzione tra un calcio proattivo e uno reattivo non passi esclusivamente per la distinzione tra possesso/non possesso, volontà di utilizzare la palla/volontà di lasciare la palla all’avversario. Se accettassimo questa distinzione, le squadre che basano gran parte delle loro fortune sull’efficacia del loro pressing/gegenpressing dovrebbero essere classificate come reattive, visto che il loro gioco è caratterizzato da ciò che fanno senza palla e in buona parte sugli errori, pur forzati, degli avversari. Ma un utilizzo dei termini proattivo/reattivo di questo tipo non farebbe che discriminare tra un calcio di possesso da uno di ripartenza.
Invece, in maniera più coerente con il significato dei termini, il labile confine tra proattività e reattività passa tra una squadra che si immagina autosufficiente da un punto di vista tattico e una squadra che attende in maniera passiva.
Non si parla di coerenza della prestazione con la volontà dell’allenatore: un approccio puramente reattivo può essere pienamente scelto e rispondere in toto al desiderio di una squadra. Si tratta di immaginare un piano gara teoricamente in grado, in ogni fase di gioco, di prescindere da quello avversario. In quest’ottica, il dominio del pallone è condizione necessaria per definire un calcio proattivo: lasciare il pallone tra i piedi degli avversari espone la squadra alle abilità degli avversari di farlo circolare e di gestirlo; ma non è una condizione sufficiente per determinare la proattività: il possesso deve essere orientato alla manipolazione della struttura difensiva avversaria per creare le condizioni per la pericolosità della squadra e non risolversi in una gestione puramente conservativa.
La chiave interpretativa è sempre la creazione in proprio del contesto tattico e delle proprie possibilità. Il dominio del possesso resta anche un’arma per ridurre le possibilità offensive avversarie e le fasi di gioco senza la palla devono prevedere una ricerca attiva della riconquista.
Un’altra dimensione
Ragionare nei termini di calcio proattivo e di calcio reattivo significa muoversi su una linea continua in cui i vari stili di gioco di una squadra si posizionano in maniera non fissa, non definitiva. Il rischio, però, è quello di ridurre la descrizione a una sola dimensione che con fatica comprende le zone grigie. Le versioni più estreme del gegenpressing di scuola tedesca hanno teorizzato la consegna mirata del pallone agli avversari, in una situazione e in una posizione scomoda, per avere l’opportunità di portare il pressing e forzare l’errore avversario per sfruttarne a proprio vantaggio il conseguente sbilanciamento. Un approccio che, se pure in maniera attiva, basa buona parte delle sue fortune sul provocare gli errori altrui, tanto da rinunciare al possesso per consentire agli avversari di sbagliare: in un’ottica di autosufficienza del sistema le squadre caratterizzate principalmente dall’applicazione del pressing e del gegenpressing dovrebbero a rigor di logica essere classificate come reattive. O come “più reattive che proattive”. Ma è diverso il caso in cui quegli stessi meccanismi di riconquista precoce del pallone sono invece complementari a un gioco offensivo mirato alla creazione in proprio delle premesse di pericolosità.
Al di là delle convinzioni individuali, alle scelte di gusto o persino morali che chi guarda il calcio tende a proiettare sullo spettacolo offerto dalle squadre, sembra evidente che muovendosi in uno spazio monodimensionale la distinzione tra proattività e reattività fa fatica a comprendere le tante possibili diversità del calcio.
Un possibile sviluppo classificativo potrebbe muoversi in uno spazio bidimensionale in cui si potrebbe distinguere tra un atteggiamento attivo e passivo in fase di riconquista del pallone e, in maniera indipendente e separata, tra un calcio offensivo votato a un dominio del pallone teso a manipolare la struttura difensiva avversaria e uno che lascia il pallone agli avversari per basare i propri attacchi sulle ripartenze e sullo sfruttamento rapido degli spazi lasciati sguarniti dagli avversari.
La spinta creatrice
Ai tempi di Gianni Brera l’influenza della critica giornalistica sulla vita interna del mondo del calcio era molto pronunciata. Si può immaginare quindi l’importanza dell’acceso dibattito tra difensivisti e offensivisti sviluppatosi in quegli anni, che vedeva Brera come capofila dello schieramento che propugnava per l’Italia un calcio attendista e di contrattacco. In termini diversi, lo scontro ideologico sviluppatosi in Italia negli anni ‘50 e ‘60 si è ripetuto in varie epoche e in varie parti del mondo e continua, rinnovato nei termini, al giorno d’oggi.
La complessità e la bellezza del calcio regalano esempi splendidi assimilabili sia all’ideale di calcio proattivo che a quello reattivo. La storia ormai ultracentenaria del calcio ha dimostrato che la ricetta vincente non esiste e la crudeltà del risultato è immune dalle scelte filosofiche degli allenatori. Probabilmente gli idealisti apprezzeranno la fede nella volontà costruttrice del calcio proattivo, mentre i realisti ameranno l’arte del possibile dell’approccio reattivo. Ma non bisogna dimenticare che la ricchezza del calcio sfugge a classificazioni troppo rigide e che nella pratica nessuna squadra è puramente proattiva o puramente reattiva.
Quanto espresso tatticamente da una squadra in campo è il prodotto di una strategia che si sviluppa su diversi livelli. In quello più alto stanno le idee e i principi di gioco generali che vengono poi resi concreti all’interno di un determinato modulo di gioco e, in maniera ancora più puntuale, all’interno di uno specifico piano gara. L’autosufficienza di un approccio idealmente proattivo è stata in qualche maniera rifiutata anche da Pep Guardiola: se i principi generali del suo calcio non sono negoziabili, la conoscenza degli avversari è importante per stabilire con precisione i livelli strategici inferiori.
Nel libro "La Metamorfosi", a una specifica domanda di Martí Perarnau, l’allenatore catalano afferma che non si gioca in uno spazio vuoto e che quindi la conoscenza dei punti di forza e dei limiti degli avversari è importante per affinare il piano gara e per conoscere esattamente cosa fare affrontando quegli specifici avversari. Si tratta in ogni caso di un approccio proattivo: conoscere il nemico per programmare in anticipo ogni mossa in coerenza coi propri principi generali, che tuttavia lima la pretesa autosufficienza del modello ideale.
Pep Guardiola ci ricorda, in maniera indiretta, che all’interno di un campo da calcio va in scena una prova di forza - atletica, tecnica, tattica, psicologica e di fortuna - tra due contendenti, e che per questo nella maggior parte delle occasioni la partita è ciò che rimane tra le intenzioni contrapposte di una squadra e quelle dell’altra.
Quando Massimiliano Allegri afferma, come ha più volte fatto, che esistono gli avversari e che per tale motivo nella partita talvolta ci sono dei momenti in cui si è costretti a subire, non fa altro che considerare ineludibile lo scontro tra le opposte volontà e considerare realisticamente inevitabili dosi di reattività nella miscela degli ingredienti di una squadra, seppure considerata come “superiore” in partenza.
La costruzione di un modello ideale è da sempre utilizzato in vari ambiti delle scienze per ridurre e spiegare un sistema altrimenti complesso. E se i modelli, riducendo le variabili, restituiscono solo in parte la ricchezza del reale, rimangono fondamentali per migliorare la comprensione dei fenomeni osservati. Il calcio puramente proattivo è solo un modello interpretativo e probabilmente non sarebbe nemmeno auspicabile una sua ipotetica integrale applicazione sui terreni di gioco; tuttavia è innegabile che il calcio offensivo avversato da Brera, l’utopico calcio totale dell’Olanda e, in genere, la tendenza creatrice del calcio proattivo, con tutto il loro impulso “ideale”, hanno costituito la spinta propulsiva per gran parte dell’evoluzione tattica del calcio. Non avremmo potuto e non potremmo mai farne a meno.